Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c3
Abbastanza chiara sembra essere invece, almeno di primo acchito, la diagnosi relativa alla militarizzazione della Repubblica di Weimar come conseguenza della formazione dei gruppi paramilitari e del loro sempre più frequente ricorso alla violenza a seguito dello scoppio della rivoluzione. Come è noto, una prima fase che andò dall’inizio di novembre fino alla metà di dicembre del 1918 e nel corso della quale non si registrarono scontri particolarmente aspri, fu seguita da una seconda che invece fu contrassegnata da un crescente ricorso alla violenza. Che venne scatenata soprattutto dagli scontri che ebbero luogo nel periodo natalizio intorno al Marstall a Berlino e dalla cosiddetta sollevazione «spartachista» del gennaio del 1919, crebbe d’intensità in seguito agli scontri che ebbero luogo a Berlino, e non solo, nel mese di marzo e toccò provvisoriamente il culmine con la brutale repressione della seconda repubblica dei Consigli a Monaco nel maggio del 1919. Ad una sorta di ripetizione e all’ulteriore aumento di un tasso di violenza che era ormai da guerra civile contribuirono i conflitti armati che scoppiarono nel 1920 in seguito al Putsch di Kapp, in primo luogo nella Ruhr, e che ebbero una sorta di epilogo nell’«azione di marzo» della KPD e nella sua successiva repressione (1921). Diversi furono i fattori che contribuirono agli scoppi di violenza: l’esitante comportamento dei socialdemocratici maggioritari, che controllavano il governo ma erano restii ad operare profondi cambiamenti in campo economico, nella pubblica amministrazione e nelle forze armate, un movimento di massa deluso per le mancate riforme che da un lato si veniva restringendo e dall’altro si radicalizzava, i maldestri tentativi della sinistra radicale di continuare la rivoluzione e il graduale ma continuo rafforzamento delle forze controrivoluzionarie. Anche la paura giocò un ruolo
{p. 81}molto importante: la paura diffusa tra i soldati rivoluzionari di una cospirazione delle forze controrivoluzionarie nelle vecchie forze armate, la paura di un tentativo di presa del potere da parte dei bolscevichi e il caos che ne conseguì nelle file della borghesia e tra i socialdemocratici moderati. Autosuggestioni e voci incontrollate contribuirono all’escalation della violenza. A fronte della dissoluzione del vecchio esercito imperiale il governo guidato dai socialdemocratici maggioritari acconsentì alla creazione di gruppi paramilitari di volontari allo scopo di contrastare le formazioni della sinistra radicale da poco costituite e spesso caratterizzate da un basso livello di disciplina.
A fissare nel tempo l’immagine e la nomea di queste formazioni filo-governative meglio note come Freikorps che si schierarono a fianco del governo sono state quelle tra di esse che effettivamente si segnalarono per il loro orientamento di fondo controrivoluzionario e contrastarono ogni forma di resistenza con eccessiva brutalità. Fu una di queste formazioni, la Garde-Kavallerie Schützendivision, a rendersi responsabile dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. La violenza di questi gruppi paramilitari traspare chiaramente dal gran numero di vittime: solo a Berlino persero la vita più di mille persone nel corso degli scontri che scoppiarono nel marzo del 1919 mentre due mesi dopo, a Monaco, le vittime della repressione della seconda repubblica dei Consigli furono più di 600. Dunque se ne ricava la netta impressione di avere a che fare con un grado estremo di militarizzazione come conseguenza dello scoppio della rivoluzione.
Una supposizione, d’altro canto, che necessita di almeno tre precisazioni. Primo: i violenti disordini che ebbero luogo in Germania tra il 1919 e il 1921 non coinvolsero tutto il Paese in modo capillare, ma furono piuttosto causa ed effetto di una «guerra civile localizzata e intervallata da periodi di calma» [6]
, una guerra che venne combattuta in alcuni luoghi in particolare ma che risparmiò buona parte del Paese. Secondo: con l’eccezione {p. 82}di quanti combattevano con chiari intenti controrivoluzionari, la maggior parte degli attori sulla scena che fecero ricorso alla violenza non era affatto intenzionata a farne uno strumento normale e durevole del confronto politico. Entrambe le parti in conflitto, in realtà, ritenevano di trovarsi in una situazione che richiedeva decisioni estremamente difficili e che ai loro occhi rendeva inevitabile, in quel particolare frangente, un ricorso anche massiccio alla violenza. Questo vale in particolare per gli scontri che ebbero luogo a Berlino durante le feste natalizie del 1918 e per i violenti disordini che ne seguirono, generalmente indicati, anche se il più delle volte in modo impreciso, come «sollevazione spartachista». Spettatore attento ed interessato della rivoluzione, il liberale di sinistra conte Harry (Clemens Ulrich) Kessler, il 6 gennaio, vale a dire il giorno dopo l’occupazione dell’edificio che ospitava il «Vorwärts» da parte di membri della Lega spartachista, scrisse che ora si trattava di «scegliere tra Ovest e Est, tra pace e guerra», e che mai, dai giorni della rivoluzione francese, c’era stato «così tanto in gioco per l’umanità nei combattimenti di strada di una città» [7]
. E il giorno dopo, sulla «Rote Fahne» Rosa Luxemburg sollecitò l’immediata adozione di «misure radicali» e un’«azione chiara e decisa» da parte dei leader del proletariato rivoluzionario: «Disarmare la controrivoluzione, armare le masse, occupare tutte le posizioni del potere», sembrò essere questo l’imperativo del momento [8]
. Paure concrete e presunte necessità decisionali che non erano percettibili solo nella capitale, ma anche altrove. Il 29 dicembre 1918, ad esempio, la «Frankfurter Zeitung» constatò che nella capitale era «sulle strade» che si stavano prendendo le decisioni su chi avrebbe detenuto il «potere reale» e per la fine dell’anno invocò l’impiego di tutta la forza necessaria per una «democratica e sociale repubblica tedesca» [9]
. {p. 83}Agire rapidamente e con decisione, era questo l’imperativo del momento, e non la pianificazione di futuri confronti militari all’interno e all’estero. Terzo: occorre ribadire che non tutte le formazioni paramilitari che furono create tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919 per appoggiare il governo presentavano un profilo tendenzialmente controrivoluzionario. Alcuni recenti lavori di Rüdiger Bergien e Peter Keller hanno messo in discussione un’opinione in merito finora assolutamente prevalente e nel contempo hanno sottolineato l’eterogeneità dei gruppi paramilitari. Al riguardo, occorre prima di tutto considerare che la loro creazione avvenne nel segno di un «consenso al ricorso alla forza militare» che andava dalla destra politica fino ai socialdemocratici maggioritari e alla base del quale non c’era solo la comune volontà di lottare contro la sinistra radicale ma anche la necessità di difendere il confine orientale e la provincia contesa di Posen/Poznan contro lo Stato polacco in via di formazione. A dare vita a queste unità furono quadri intermedi del vecchio corpo degli ufficiali, che per quelle destinate in particolare a difendere il confine orientale poterono contare anche sull’appoggio dei Consigli degli operai presenti in loco. Qui come altrove in Germania, la ragione principale per cui all’inizio del 1919 si poteva decidere di entrare a far parte di queste formazioni di volontari era di natura economica, vale a dire l’assoluta mancanza di sicurezza sul piano materiale, e non politico-ideologica. In seguito, nelle province orientali vennero costituite, e si radicarono, formazioni di autodifesa con la partecipazione anche di funzionari di chiaro orientamento repubblicano che cercarono di contrastare le tendenze radicali di destra, anche se con scarso successo. Nel suo processo di implementazione e in ogni caso almeno non dall’inizio, il «consenso al ricorso alla forza militare» non va quindi visto come un progetto politico chiaramente e definitivamente di destra.
Di non facile interpretazione appare anche lo sviluppo dei gruppi di difesa civile che vennero creati dopo i combattimenti di gennaio e si rafforzarono a partire dai mesi di marzo ed aprile del 1919 e dopo il disarmo dei gruppi di difesa operaia considerati di estrema sinistra. Alla vigilia del Putsch di Kapp forti di 940.000 uomini distribuiti in tutta la Germania, questi {p. 84}gruppi rappresentano una prova ulteriore del fatto che il «consenso militare» si estese anche alla SPD, soprattutto dopo che il ministro degli Interni della Prussia, il socialdemocratico Hirsch, verso la metà di aprile del 1919 dispose che ne facessero parte elementi provenienti da tutti gli strati sociali e chiese loro di impegnarsi a rispettare la forma repubblicana dello Stato. All’inizio, la loro costituzione procedette nel complesso assai lentamente e non di rado si scontrò con la resistenza degli operai socialdemocratici che sospettavano potessero fungere da bacini di raccolta di nemici della repubblica vicini alla destra. A ciò si aggiunga che lo stretto legame iniziale con i militari fece nascere il sospetto che si volesse in tal modo reintrodurre il servizio militare obbligatorio. Il legame formale con l’esercito venne sciolto nell’estate del 1919, ma contemporaneamente venne messa a disposizione dei gruppi di difesa civile una quantità di armi chiaramente maggiore che in precedenza, cosa che naturalmente ne aumentò il potere di attrazione. I loro effettivi aumentarono ulteriormente quando nel novembre del 1919 il gruppo dirigente dell’SPD invitò espressamente a farne parte e molti socialdemocratici accolsero l’appello. La decisione di non intervenire in occasione del Putsch di Kapp e il rifiuto in linea di principio di operare al di fuori della loro zona di insediamento stanno ad indicare che i gruppi di difesa civile non possono essere considerati alla stregua di formazioni chiaramente controrivoluzionarie. A ciò si aggiunga che non si considerarono mai delle unità militari ausiliarie. La loro creazione, d’altra parte, dimostra quanto fosse diffusa la tendenza a non lasciare alla polizia e all’esercito il compito di garantire la sicurezza in loco e quanto invece si preferisse farsene carico direttamente.
Nel complesso, se si considerano le unità di difesa di confine e i gruppi di difesa civile si può arrivare alla conclusione che la tesi di una contrapposizione chiara e politicamente motivata tra i militari e consistenti settori della popolazione, in particolare gli operai, va modificata e differenziata su base regionale; il che è tanto più vero se si considera che in Sassonia, nel Baden e nel Württemberg già a partire dal novembre 1918 si procedette con decisione alla costituzione di unità paramilitari {p. 85}filo-repubblicane, e che dopo l’inizio degli scontri di gennaio anche a Berlino si fece altrettanto dando vita a due unità forti di migliaia di uomini – i reggimenti «Liebe» e «Reichstag» – che vennero poste sotto il comando dei socialdemocratici maggioritari. Sebbene anche in questo come nel caso dei gruppi di difesa di confine una delle principali ragioni alla base dell’arruolamento fosse di natura economica, queste unità offrirono comunque una base per collocare almeno in parte il nuovo esercito tedesco dalla parte della repubblica. Concreti progressi sul terreno della democrazia si registrarono soprattutto nel Württemberg, dove i Consigli dei soldati ottennero tra l’altro un diritto di codecisione nella scelta dei comandanti. Dal che traspare anche chiaramente che la disciplina a cui i comandanti di queste unità attribuivano grande importanza per ragioni funzionali non costituiva una pura e semplice prosecuzione della tradizione guglielmina ma poggiava essenzialmente sul fatto che gli appartenenti a queste unità prendevano in modo consapevole le decisioni che li riguardavano – e in tal modo sceglievano anche autonomamente chi doveva guidarli. Ne consegue che il processo di militarizzazione dei primi anni dopo la rivoluzione non può essere considerato assolutamente antitetico rispetto al processo di liberalizzazione di cui si è detto in precedenza.

V.

Apparentemente di più facile interpretazione sembrano invece essere la crescita e le attività delle già ricordate unità paramilitari riconducibili ai diversi schieramenti politico-ideologici. Come è noto la prima unità di questo tipo a fare la sua comparsa sulla scena fu lo Stahlhelm. Bund der Frontsoldaten (Stahlhelm. Lega dei soldati del fronte). All’inizio impegnata più che altro nella difesa degli interessi dei veterani di guerra e nella loro assistenza, a partire dal 1919 questa organizzazione estese la sua attività su tutto il territorio tedesco collocandosi chiaramente nel settore di destra dello schieramento politico e su posizioni alla fine chiaramente ostili alla repubblica. Caratteristica precipua dello Stahlhelm era lo stile con cui manifestava
{p. 86}le sue posizioni politiche: sempre attivamente presente negli spazi pubblici, occupava strade e piazze con marce sempre molto affollate i cui partecipanti sfilavano in uniforme e in file compatte dietro una bandiera. In tal modo, lo schieramento nazional-borghese fece sostanzialmente proprio il modello del movimento operaio con i suoi raduni di massa, ma gli conferì una dimensione militare, e autodefinendosi «Lega dei soldati del fronte» sostenne un’interpretazione ‘positiva’ della guerra centrata su adempimento del dovere ed eroico impegno. Ricorrere alla violenza contro gli avversari politici non era il suo scopo principale, ma era comunque un possibile effetto collaterale dell’occupazione dello spazio pubblico che lo Stahlhelm metteva assolutamente in conto.
Note
[6] D. Schumann, Political Violence in the Weimar Republic, 1918-1933. Fight for the Streets and Fear of Civil War, New York, Berghahn Books, 2009, p. 1.
[7] H. Graf Kessler, Das Tagebuch, VII: 1919-1923, a cura di A. Reinthal, Stuttgart, Cotta, 2007, p. 80.
[8] R. Luxemburg, Was machen die Führer? («Die Rote Fahne», n. 7, 7 gennaio 1919), in R. Luxemburg, Gesammelte Werke, IV, Berlin, Dietz, 1974, pp. 519 s.
[9] «Frankfurter Zeitung», n. 360, 29 dicembre 1918, seconda edizione del mattino, p. 1; n. 362, 31 dicembre, edizione serale, p. 1.