Giorgio Chiosso, Anna Maria Poggi, Giorgio Vittadini (a cura di)
Viaggio nelle character skills
DOI: 10.1401/9788815366962/c2
In sintesi, la situazione attuale comporta una forte e multidimensionale pressione sul soggetto umano. La società appare sempre più esigente circa lo sforzo personale richiesto per partecipare ai processi e alla vita sociale in ogni ambito: dall’istruzione al lavoro, dalla salute alla vita civica, e così via. L’idea di performance non è più limitata alla sfera dell’economia e del mercato. Attivazione, mobilitazione, iniziativa, adattamento e investimento di sé sono requisiti fondamentali in ogni campo della vita sociale [21]
. Il soggetto umano è sollecitato alla massima mobilitazione, alla ottimizzazione senza residui – in linea di principio – di tutte le sue proprietà psichiche, fisiche e morali. La frontiera passa per forme sempre più innovative di lavoro su sé stessi [22]
, negli aspetti di self-management e di cooperazione interpersonale. Al tempo stesso, la società mostra, in questa fase, una capacità decrescente di costruire o rigenerare istituzioni efficaci che supportino questo sforzo. Partecipare a istituzioni e alle loro forme di vita organizzata, percorrere una «carriera» entro gli argini consolidati dei percorsi di vita che queste disegna
{p. 53}no – ad esempio completare un curriculum, o fare parte di un’organizzazione – è ormai sempre meno rilevante. In questo senso la società globale è sempre più una skills society, una società che pone al soggetto umano requisiti stringenti per poterla abitare, e che dispone forme di marginalizzazione sociale corrispondenti legate alla in-competenza.
L’attuale «nuova» valorizzazione del «carattere» e delle competenze sociali ed emotive si radica in questa sindrome di mutamento sociostrutturale, come reazione al bisogno di approfondire e potenziare il «miglioramento» dell’essere umano in tutte le sue facoltà. Ciò implica anche affrontare uno spettro di capacità, qualità e prestazioni soggettive più ampio rispetto al passato, per cui vari tratti personali non possono essere lasciati in stato sub-ottimale o alla crescita spontanea.
Questa ricostruzione della genealogia sociostrutturale delle SES come tema della riflessione educativa chiarisce che esse sono l’indicatore di una trasformazione profonda. Come sempre, la sua interpretazione non è univoca. Mi limito a indicare due questioni problematiche, da cui è necessario trarre le conseguenze sul piano operativo.
In primo luogo, mentre la situazione sociostrutturale che ho qui tratteggiato appare chiara, è discutibile quali siano le strategie di risposta più adeguate; ad esempio, le conseguenze in termini di stress, tensione e vari effetti perversi [23]
di queste dinamiche macro-sociali e organizzative vanno meglio indagate e interpretate, anche in termini di programmi formativi di supporto. Ad esempio: ciò che serve è soprattutto una formazione iper-competitiva, di cui le SES sarebbero al tempo stesso parte integrante e complemento «defatigante»? [24]
Oppure si deve pensare in altri termini?{p. 54}
Un’altra questione riguarda il tipo di persona che dovrebbe rappresentare il fine dei processi formativi. Se questi tendono a «dare forma» alla persona nel suo complesso, si pone una serie di problemi. Anzitutto, occorre perseguire una linea prevalentemente adattativa oppure «critica»? Cioè a dire, le SES e il character servono essenzialmente per navigare nella società complessa o per resistere agli effetti negativi che essa comporta e «ri-moralizzarla» attraverso l’agire della persona e il suo potere? Entrambe le linee sono presenti nella prassi, espressione di diverse impostazioni culturali che si riflettono sui programmi educativi. Inoltre, quanto deve «totalizzarsi» l’educazione? C’è un ampio raggio di competenze necessarie, ma fino a che punto bisogna «costruire» la persona?
Abbiamo già accennato ai lunghi elenchi tipici di alcuni framework concettuali. Ma poi, è possibile fornire un significato non ambiguo e non culturalmente neutrale di tutti questi tratti personali? Chi e come decide sul «corretto» senso dell’assertività, dell’umiltà, della gradevolezza, della cooperazione, dell’ambizione personale, ecc.? E qual è la formula che può integrare questa pluralità di competenze in un profilo (un carattere, appunto) relativamente unitario? Oppure a questo bisognerebbe rinunciare – in uno spirito «post-modernista»?
Infine, una questione latente riguarda l’universalismo: le SES possono essere intese come uno strumento per realizzare, per via educativa, il sogno di un’umanità pacificata e razionalizzata attraverso la costruzione di un carattere personale universalistico, «illuminato» e ben temperato, equilibrato nelle sue dimensioni strumentali (di efficienza) ed espressive? Stiamo parlando, dunque, di un’evoluzione smart, efficiente e misurabile, dell’individualismo tardo-moderno? Queste considerazioni toccano le finalità profonde dell’educazione ed evocano il ruolo della cultura nel discorso delle SES e del loro apprendimento.{p. 55}

3. Psico-semantiche delle competenze: culture delle emozioni e delle abilità sociali

Le competenze socioemotive sono universali? Questa domanda è un punto di partenza istruttivo per trattare la cruciale questione della cultura in relazione alle SES e al loro apprendimento. La sua rilevanza si comprende chiaramente se si considerano alcune obiezioni tipicamente rivolte ai programmi di SEL. C’è, ad esempio, l’idea che tali programmi, occupandosi di fatto dell’educazione morale, invadano una sfera di scelta e di responsabilità propria delle famiglie e delle loro comunità di appartenenza, non delle scuole e dello Stato. A questa critica si lega l’idea che i programmi di SEL prevalenti promuovano un’agenda culturale nascosta, volta a trasmettere valori propri di un’etica liberal e globalista. Un’analoga preoccupazione è che la raccolta di test e dati in questo ambito si presti a una sorta di profiling delle personalità degli alunni.
Queste critiche non vanno sottovalutate, perché espongono un punto debole del discorso educativo delle SES. Abbiamo già osservato la discrasia tra il linguaggio psicologico-educativo delle competenze, intenzionalmente neutrale, e la dimensione palesemente più complessa di alcuni elementi – ad esempio la gratitudine, la fiducia, l’etica del lavoro e altri ancora – che si ritrovano inclusi nella maggior parte dei framework concettuali in questione. Ripensare l’educazione «integrale» della persona comporta naturalmente queste ambivalenze, chiamando in causa dimensioni profonde della personalità, del comportamento e degli orientamenti di vita. Sia che si prenda la decisione teorica d’integrare la teoria delle SES con quella dell’educazione al «carattere», sia che invece s’intenda rimanere esclusivamente all’interno di una semantica psicologico-evolutiva e psicometrica, la questione non può essere evitata.
I sostenitori delle SES hanno sempre negato di voler formare un carattere o una personalità globale, transculturale, quella che Richard Sennett [25]
notoriamente attribuì al tipico {p. 56}«uomo di Davos». Il loro argomento è che vi sono aspetti della vita sociale ed emozionale degli esseri umani che sono semplicemente universali e vi sono altresì dimensioni capacitanti (enabling), che si possono legittimamente chiamare competenze, senza le quali anche le intenzioni morali non potrebbero tradursi in azioni coerenti. Ad esempio, si può voler essere «tolleranti» e pluralisti, ma la capacità di assumere la prospettiva dell’altro non è una mera intenzione, bensì implica l’affinamento di una vera e propria abilità, di un «saper fare».
Questo argomento è senz’altro sostenibile. È difficile negare che tutti gli esseri umani abbiano emozioni e che debbano imparare a riconoscerle e gestirle, in sé stessi e negli altri. Ciò è socialmente importante, poiché permette di considerare lo stato mentale di un interlocutore e di qualunque «altro». La capacità di entrare in relazione, oppure la cooperazione per degli obiettivi, sono necessità altrettanto universali.
Ciò, tuttavia, non toglie che le SES richiedano di essere integrate nell’identità degli alunni, attraverso il processo di socializzazione, il che di per sé implica una caratterizzazione culturale. Come ho accennato sopra, attraverso il SEL la scuola articola inevitabilmente valori condivisi, proponendo quelle che in letteratura sono anche definite essential life habits [26]
, poiché le SES non connesse a valori rischiano di sviluppare competenze utilizzabili per fini antisociali. La particolarità culturale della sfera socioemotiva si può cogliere sotto molteplici aspetti:
a) anzitutto, un certo insieme di competenze può essere più o meno rilevante in diverse culture, se non addirittura negletto in alcune di esse [27]
;{p. 57}
b) in diversi contesti culturali, emozioni e forme d’interazione denominate allo stesso modo possono assumere significati differenti;
c) esiste un’ampia gamma di variabilità quanto alle norme che regolano quando e come sia legittimo manifestare determinate emozioni e le forme dell’ingaggio sociale, cioè le modalità d’interazione corrette in diversi contesti e circostanze;
d) una questione connessa alle precedenti riguarda la valutazione. È oggetto di dibattito se l’apprendimento socioemotivo debba o no essere valutato, e se sì in che modo. L’inclusione nei processi di valutazione potrebbe accrescerne la rilevanza e permetterne il miglioramento, ma potrebbe anche condurre a restringere e irrigidire la nozione stessa delle competenze in questione, promuovendone una più o meno consapevole standardizzazione trans-culturale, nella prassi oltre che nella teoria.
La declinazione culturale delle SES e la difficoltà di progettare l’intervento educativo nel rispetto di tale diversità è uno dei temi di ricerca attualmente meno sviluppati. Riprendo qui uno dei pochi tentativi di dargli formulazione sistematica, su cui è utile riflettere. Secondo Hecht e Shin [28]
, la differenziazione culturale delle SES si articola in tre dimensioni fondamentali:
1) la definizione stessa delle competenze socioemotive – che gli autori chiamano «struttura» del SEL. Che cosa vuol dire essere – positivamente – assertivi, umili, perseveranti, collaborativi, ambiziosi, e così via?
2) i mix e i valori-livello di ogni tratto socioemotivo ritenuti ottimali – per gli autori «funzione». Quanto bisogna essere assertivi, quali valori delle scale indicano l’essere troppo umili, o troppo poco collaborativi o perseveranti, ecc.?
3) le modalità di apprendimento potenzialmente efficaci – il «processo». I diversi sistemi scolastici comportano
{p. 58}anche diverse forme d’interazione sensata, socialmente e moralmente accettabile per docenti e alunni.
Note
[21] La dinamica dei sistemi di welfare europei – con la nozione di politiche «attive» per l’autoprotezione dai rischi – costituisce un esempio istruttivo.
[22] H. Rosa, Resonanz. Eine Soziologie der Weltbeziehung, Frankfurt, Suhrkamp, 2016.
[23] V. King, B. Gerisch e H. Rosa (a cura di), Lost in Perfection. Impacts of Optimisation on Culture and Psyche, London-New York, Routledge, 2018.
[24] Un esempio classico è costituito dalla Corea del Sud, la cui attenzione alle competenze socioemotive – testimoniata dall’adesione a vari progetti internazionali – è motivata soprattutto dall’alto livello di competitività di quel sistema educativo e dall’elevato livello di stress patito dagli studenti, che si manifesta tra l’altro in uno dei tassi di suicidio giovanile più alti del mondo.
[25] R. Sennett, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 1998.
[26] R.P. Weissberg, J.A. Durlak, C.E. Domitrovich e T.P. Gullotta, Social and Emotional Learning: Past, Present, and Future, cit., pp. 3-19.
[27] Un chiaro esempio è il coraggio, che in un’età «post-eroica» è sembrato scomparire dal novero delle virtù importanti, almeno per gli europei. È interessante il suo attuale ritorno sulla scena, nelle ricorrenze mediatiche e nei messaggi dei leader politici, ma su questo fenomeno non posso qui soffermarmi. Vedi R. Sheehan, L’età post-eroica. Guerra e pace nell’Europa contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[28] M.L. Hecht e Y. Shin, Culture and Social and Emotional Competencies, in J.A. Durlak, C.E. Domitrovich, R.P. Weissberg e T.P. Gullotta (a cura di), Handbook of Social and Emotional Learning. Research and Practice, cit., pp. 50-64.