Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c5

Capitolo quintoConclusioni

1. Per un approccio laico al lavoro

Il discorso critico sul lavoro non può certo dirsi concluso qui. I limiti dell’approccio che il movimento operaio continua ad usare nell’affrontare il grande tema andrebbero infatti indagati sotto altre fattispecie: non solo del lavoro come ideologia, come identità, come mestiere e come posto, ma anche del lavoro come paga, tempo, vita, utopia. È quanto lo scrivente si accinge a fare.
Dall’esame fin qui condotto è però già possibile delineare quel paradigma laico che, allo scopo di provocarne la salutare reazione, andrebbe proposto al movimento operaio, la cui ottica sul lavoro urta ormai contro il senso comune essendo viziata da ascendenze ideologiche e pregiudiziali etiche tutt’altro che eterne ed universali, anzi figlie di un’epoca sociale e di un humus politico irripetibili.
È un paradigma semplice, elementare, perfino banale, ma assolutamente verace:
  1. che il lavoro è tuttora necessità e nient’affatto libertà, e che quindi non si deve essere nei suoi confronti acritici come chi ne saluta quasi soltanto la faccia positiva, né aristocratici come chi decanta sempre le qualità di quello gratificante;
  2. che il lavoro sarà sempre un mezzo e mai un fine, e che quindi non si deve essere fideisti verso le sue proprietà redentrici nel campo sociale, né idealizzare le sue intime valenze sul piano psicologico;
  3. che del lavoro conta il senso e non la nobiltà, e che pertanto non bisogna essere retorici nell’esaltarne le {p. 200} virtù, come se si trattasse sempre dell’umile intrapresa borghese, né esortativi come se stessimo ognora tracciando le tappe dell’edificazione socialista.
Per passare dal Lavoro al lavoro, questo paradigma laico può bastare. Personalmente, non ritengo tra l’altro necessaria una rifondazione vera e propria: è sufficiente spogliare l’immagine del lavoro dai gravami solenni e vagamente profetici di cui l’ha caricata la cultura stessa del socialismo scientifico, soprattutto nell’ultimo quarto del secolo scorso.
La prima necessità è appunto che nel movimento operaio si cessi di officiare questa specie di transustanziazione dalla teoria del valore-lavoro (salariato) all’ideologia sul valore del Lavoro tout-court. Se non si torna a storicizzare, non si sfuggirà mai alla coppia fatale espiazione/redenzione, né si riuscirà a riporre il lavoro entro quello spazio suo vero, quel suo tempo reale, che non può galleggiare e oscillare fra la società naturale del comunismo primitivo e la città futura del comunismo realizzato [1]
.
Se si tarda ancora, non soltanto succede che il divario fra Lavoro in cielo e lavoro in terra aumenta, dando luogo a rigetti beffardi ed a rifiuti violenti. Succede che l’impoverimento teorico da un lato e la spoetizzazione pratica dall’altro rendono l’immagine vulnerabile e manipolabile da chiunque.
Valga l’esempio di quella «dilatazione semantica del concetto» [2]
che si è verificata non soltanto per il proletariato, e poi per il lavoro produttivo, ma per il lavoro stesso. È un procedimento mediante il quale si enfatizza ma in realtà si ripudia il lavoro — quello provvisto di concrete determinazioni storico-sociali — col farvi rientrare le più svariate attività, dal lavoro domestico al bricolage e dagli hobbies «creativi» al lavoro politico. La definizione finisce col farsi talmente arbitraria che diventa lavoro non solamente quello della casalinga, di tutto rispetto comunque lo si voglia collocare, oppure l’atto di protagonismo, di testimonianza o di semplice pratica sociale, ma anche attività a cui mancano requisiti come il corrispettivo di produzione o servizio, e il {p. 201} loro controvalore di remunerazione o ricompensa: quasi che non occorressero insomma altri elementi probatori, e che il connotato unico del lavoro fosse solamente il dispendio di energie umane — la biblica fatica — nell’adoprarsi per gli altri o nell’industriarsi per sé. Quasi che non servisse più il riconoscimento della convenzione collettiva e bastasse un’assunzione soggettiva d’identità, a prescindere dalla circostanza che viviamo in epoca di lavoro salariato, comunque si voglia definire la formazione storico-sociale che lo genera e il modo di produzione che lo utilizza [3]
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D’altra parte, se un qualunque operare, se qualsiasi attività può venire promossa a lavoro da chi ne è fuori, vuol dire che una rappresentazione onorifica del lavoro finisce per indurre una deferenza generica, avulsa da quel che un’attività dev’essere, per essere considerata lavoro. (In paesi come l’Italia e la Francia vi è qui il riflesso di quella centralità politica che la classe operaia ha affermato con il 1968-69, e che ha conferito smalto e fascino al modello proletario, suscitando in vari strati propensioni alla mimesi sociale. Come se la forza degli operai in fabbrica e la loro influenza nella società avessero avuto capacità di plagio più che di egemonia, numerose attività hanno infatti preteso di essere equiparate a un lavoro e tutti hanno per un momento ambito a un titolo di lavoratore, magari produttivo).
È una deferenza che non arriva ancora a rimuovere il pregiudizio sociale verso il lavoro manuale pur portando a simpatizzare per le attività manuali, ma che spiega la polemica del «lavoro» misconosciuto contro il Lavoro riconosciuto. Può sembrare che in tal modo il lavoro-non lavoro ponga con ribalderia una candidatura alternativa; in realtà, manifesta soltanto un riverente bisogno di omologazione. A ben vedere, questa deferenza e quel mimetismo, sono magari un riconoscimento tardivo, ma non sono certo il trionfo finale del Lavoro maiuscolo. Anzi, potrebbero essere l’ultimo sprazzo lasciato dal lavoro come ideologia, come valore, come mito. E bene farebbe il movimento operaio a rendersene conto, a non lasciarsene abbagliare. Infatti, se il {p. 202} lavoro dà meno identità d’un tempo a chi sta dentro il sistema salariale, mentre chi ne è fuori cerca di identificare la propria attività nel lavoro, vuol dire che quanto più si allenta la relazione cogente tra lavoro e identità, tanto più essa si fa simbolica. È lo stesso fenomeno che abbiamo già visto a proposito della relazione tra pieno impiego e diritto al lavoro: in difetto di realtà, la parvenza predomina. Sicché l’identità simbolica è ciò che rimane d’una situazione che sta scalzando il lavoro dai valori interiorizzati mentre lo sta consolidando fra quelli istituzionalizzati.
Ma è proprio questo il momento da cogliere per una laicizzazione dell’idea del lavoro, come pure di classe, prima che sia troppo tardi [4]
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2. Per una critica politica del lavoro

Il movimento operaio deve tornare alla critica del lavoro. Critica pratica del lavoro, attraverso la lotta concreta per cambiare l’organizzazione, la qualità, i contenuti e il senso del lavoro. Ma anche critica politica del lavoro, attraverso il superamento dell’ideologia operaia sul lavoro e la rinuncia alle ispirate certezze sulla sua positività — originaria, immanente o finale che sia [5]
. Bisogna rifarsi all’analisi di Marx e andare oltre, dicendo a noi stessi per primi che non ce nulla di eroico o di trascendentale nel lavoro salariato, così come nella classe operaia. (Ha scritto Simone Weil in una testimonianza definitiva per passione e per franchezza, sull’esperienza che sarebbe salutare per tanti incensatori: «Ti dico subito che, a parte la gioia di essere arrivata a lavorare in fabbrica, sono altrettanto felice di non essere incatenata a questo lavoro») [6]
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Chi osservasse che la classe operaia accetta o per lo meno sopporta il presente lottando però — là dove accade — per un lavoro e una fabbrica ben diversi, dovrebbe pure sapersi dire che gli operai, come Marx, per contestare quel che c’è non hanno bisogno di chiedersi domani come sarà, né se una fabbrica e un lavoro {p. 203} completamente diversi siano esistibili: in genere sono altri a prometterglielo, siamo noi. E chi vedesse una concomitanza sospetta nel fatto che vengono in questo periodo messi in causa il ruolo del lavoro come valore morale e il ruolo della classe operaia come classe generale, dovrebbe riflettere su quest’altro fatto: è proprio l’equivalenza lavoro-classe a indebolire oggi la percezione e la rappresentazione di entrambi, riproponendone la versione angusta di lavoro produttivo e di forza produttiva, quasi un «feticismo della forza-lavoro» [7]
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Vorrei insistere. C’è una crisi del capitalismo. C’è un offuscamento del socialismo. Nulla di catastrofico magari, ma neppure di reversibile. Allora domando: è possibile illudersi di uscirne portandoci fuori intatte, con tutti i loro ornamenti e tutta la loro vetustà, le bandiere che hanno sventolato prima sull’uno e poi sull’altro, e che dovremmo ora piantare da qualche parte, nessuno sa ancora bene dove (anche se molti mostrano di sapere come)?
Mentre il deficit energetico sbalza il capitalismo maturo dai suoi trends e getta un’ombra sullo sviluppo come destino; mentre il ricorso su vasta scala all’energia nucleare, per la guerra e per la pace, rischia di avviare l’umanità a un count-down storico; mentre si succedono drammi e si ventilano catastrofi in campo ecologico — e tutto ciò fa pronunciare profezie funeste da secondo millennio — ecco che ti si ripropone la medicina omeopatica del lavoro, il sempiterno mito dell’artefice, gli eredi cioè di una medesima e vacillante cultura del lavoro. In certuni, anzi, c’è l’idea che l’eclisse del lavoro segnali appunto il declino della civiltà e l’approssimarsi della barbarie (com’è notorio, i barbari non conoscevano né praticavano il lavoro…). Aveva ragione M. Tronti: «La società moderna è veramente la civiltà del lavoro» [8]
. E tende a perpetuarsi attraverso una determinata concezione del lavoro come rapporto sociale.
Afferma O. Negt: «Quando oggi parliamo di crisi, non possiamo trascurare il fatto che […] l’erosione ha da tempo raggiunto i settori chiave della società toccan
{p. 204}o i problemi della morale del lavoro nel suo complesso, le questioni del senso o non-senso del lavoro» [9]
. Presenterei la cosa in altri termini — come ho cercato di fare — ma condivido tale giudizio, che è convalidato del resto dagli atteggiamenti dei giovani verso il lavoro: atteggiamenti i cui tratti soggettivi ed esistenziali mostrano la tensione e la speranza verso relazioni diverse tra vita e lavoro, verso modi nuovi di vivere il lavoro [10]
. Questi atteggiamenti, oltre a essere inediti, sono anche massificati: non siamo più alle élites goliardiche borghesi degli anni ’20 e ’30, né ai vitelloni o basilischi piccolo-borghesi degli anni ’50, che in modi altezzosi oppure osceni irridevano ai lavoratori e al lavoro [11]
. Né potremmo insegnare daccapo ai giovani ciò che tanti di noi hanno bevuto col latte materno o appreso alla «dura e temprante scuola»: o lo impareranno anche loro, alla maniera nostra ma non senza rivoltarsi contro quelle condizioni che essi ritengono oggi inaccettabili; oppure lo impareranno a modo loro ed avranno allora una stagionata saggezza in meno da trasmettere e qualcosa in più da dire, o di diverso. Non vale dunque prospettare ai giovani l’alternativa fra alienazione ed emarginazione, come tenacemente fa S. Garavini scrivendo: «In alternativa all’assistenza e al rifiuto del lavoro, presenti in questa società e in questa crisi del capitalismo, noi proponiamo la scelta del lavoro e della produzione. Ma la nostra proposta è fatta in nome di una concezione del lavoro visto non come condanna a un’alienazione indomabile; altrimenti, la scelta non sarebbe per il lavoro ma per la fatica, in senso biblico, non socialista». E così prosegue: «La tensione per liberare il lavoro — per il domani, ma partendo dall’oggi, muovendoci nel lavoro concreto in cui si esplica lo sfruttamento capitalistico — dagli aspetti più opprimenti di fatica e di dequalificazione, la lotta per la qualità e contro il peso del lavoro, sono parte assolutamente decisiva della nostra proposta di lavoro produttivo in questa società, come obiettivo centrale contro quell’emarginazione sociale che comincia proprio dall’emarginazione dal lavoro» [12]
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Note
[1] D’altra parte, «nel secolo delle macchine e del mercato mondiale, il nostro lavoro personale non può più dare un contenuto spirituale alla nostra vita, come i prodotti di questo lavoro non possono provvedere interamente ai nostri bisogni materiali»: così H. De Man, La gioia nel lavoro, Bari, Laterza, 1931, p. 314. E pertanto, occorre edificare «una nuova sintesi del fine per il quale si lavora e del fine per il quale si vive», p. 321.
[2] A. Casiccia, Sulla cultura operaia e l’identità di classe, in «La Critica sociologica», n. 39-40, autunno 1976-inverno 1976-1977, p. 256.
[3] P. Rolle, Sociologia del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 263: «Se parliamo di lavoro come di una realtà generale e omogenea, è solo nel significato di rapporto sociale, di modo di utilizzazione della forza-lavoro».
[4] Scrivevo queste conclusioni mentre usciva su «La Stampa» una bella intervista di L. Tornabuoni a P. Volponi (La voglia dilavorare, 30 novembre 1979). «Il lavoro è una vera e profonda vocazione umana», affermava lo scrittore, e pensava ovviamente al lavoro dal proprio punto d’osservazione, non da quello dell’operaio Albino Saluggia, il suo personaggio di Memoriale (Einaudi, Torino, 1962).
[5] È ambivalente il bisogno di lavorare, ma ancor più lo è l’odio per il lavoro»: così R. Alquati in AA.VV., Il mondo giovanile, Torino, Stampatori, 1979, p. 96. «Poiché passa attraverso il lavoro, il rifiuto operaio del lavoro non è mai totale, ma è un’utilizzazione negativa del lavoro»: R. A. Rozzi, Psicologi e operai, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 223.
[6] S. Weil, La condizione operaia, Miland, Comunità, 1952, p. 23. Cfr. anche l’esperienza raccontata da R. Linhart, Alla catena, Milano, Feltrinelli, 1979.
[7] M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, p. 219.
[8] Ibidem, p. 236.
[9] O. Negt, Le condizioni per dirci marxisti, in «Rinascita», n. 39, 12 novembre 1979, p. 24.
[10] «Ciò non vuol dire che i valori scompaiono dalla vita dei giovani [...]. Ciò che scompare completamente è la stabilità dei valori»: così M. Bonolis, E. Reyneri, La questione giovanile: dalla crisi del mercato del lavoro a quella dei valori morali, in I giovani e il lavoro, Bari, De Donato, 1978, p. 209. «Anche la “morale” del lavoro li trova assai riservati: per essi il lavoro non è un dovere ma una necessità»: G. Girardi (a cura di), Coscienza operaia oggi, Bari, De Donato, 1980, p. 218.
[11] Per questo starei attento a parlare oggi di una vera e propria «destituzione di valore», a proposito del lavoro, come fanno P. Bassi, A. Pilati, 1 giovani e la crisi degli anni settanta, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 51. Faceva notare H. De Man mezzo secolo fa: «Il fatto che il pensiero si stacchi dal lavoro, forse è la prova che si pone il fine per il quale si vuole vivere, più in alto di quello per il quale si lavora», La gioia nel lavoro, cit., p. 322.
[12] S. Garavini, Non si torna indietro dal sindacato dei Consigli, in «Rinascita», n. 44, 16 novembre 1979. Mi pare che a questa prospettiva si possa applicare tranquillamente il giudizio critico che B. Trentin dà allo sforzo compiuto da Gramsci per far convivere la liberazione della classe e la gestione della fabbrica, attraverso «la capacità (libertà) di accettare come necessità quella che era ieri un’imposizione dell’avversario di classe»: cfr. L’autogoverno nella fabbrica e nella società, in «Mondoperaio», n. 9, settembre 1979, p. 111. Ma per l’appunto, questo è proprio quel che fa chi chiede ai giovani di accettare il lavoro per cambiare la fabbrica: ripropone cioè la medesima cultura del lavoro che viene rifiutata.