Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
Davvero, in questa vicenda di cui l’animoso quanto inconcludente dibattito sul part-time [96]
è il rivelatore più significativo, il movimento sindacale si comporta con una fedeltà ammirevole benché fuor del dovuto al modello del lavoro/posto a tempo pieno; ma, anche, come se l’obiettivo del lavoro regolare a tutti dipendesse, ancor più che dalle poderose lotte per l’occupazione, dalla strenua difesa di quel modello. A volte si guarda anche con scarsa simpatia a quei giovani che si mostrano disposti a lavori magari improduttivi, ad attività futili, a servizi vari, pubblici o privati, per i quali non manca una domanda che è anzi in crescita [97]
. Ciò rinvia a quella concezione economico-struttural-proletaria di cui abbiamo già parlato a proposito del lavoro produttivo e improduttivo: concezione la quale, privilegiando il valore sull’utilità e ricalcando in ciò un canone classico del capitalismo, porta a legittimare maggiormente l’operaia
{p. 184} che per tutto il giorno fabbrica soprammobili assolutamente inutili ma vendibili, dello studente che per mezza giornata intrattiene il figlio incustodito di genitori che lavorano.
Più in generale il movimento operaio si è fatto in Italia sorprendere da una mobilitazione delle riserve occulte che elude quel lineare, benintenzionato ma anelastico massimalismo riformista, tipico della sua politica (e visione) del lavoro, ispirato all’inoppugnabile assioma secondo cui l’aumento dell’occupazione richiede interventi strutturali. Purtroppo, mentre lo si ripete contro ogni irresponsabile faciloneria, si mostra poi grande impaccio nel muoversi tra i provvedimenti che tamponano e la decisione che risolve [98]
. Cosicché si deve scontare un divario abbastanza sistematico fra effetti attesi e problemi sollevati da questi stessi effetti. Basti qualche esempio.
a) Si è giustamente pensato che un pensionamento in età anagrafica e ad anzianità lavorativa non inoltrata, favorisca l’ingresso in produzione delle giovani leve, oltre a essere il degno epilogo di un’esistenza operosa. Ma non si è pensato che vi sono ex lavoratori i quali, o non accettano di buon grado quel non-lavoro privo d’identità che è la vecchiaia — il mestiere triste, il ruolo vuoto del pensionato, al quale il lavoro appare perciò come un’abitudine positiva [99]
— o non ce la fanno a sopravvivere autonomi con la sola pensione, o entrambe le cose. E siccome aumentano i pensionati, cresce anche l’offerta di un lavoro non istituzionale per eccellenza, che resta illegale solo per reticente difetto di regolamentazione.
b) Si è giustamente lottato per un’uguaglianza delle opportunità ed un pari diritto al lavoro per le donne, che realizzi innanzitutto per questa strada il fine storico di una emancipazione femminile. Si è però gravemente sottovalutata la conseguenza che, nelle condizioni odierne dell’organizzazione sociale, per ogni madre giovane occupata a tempo pieno occorre almeno il mezzo tempo di un’altra persona — parente o dipendente — che col proprio lavoro gratuito o retribuito renda possibile{p. 185} quella emancipazione [100]
. E questo, mentre fa crescere al di là del previsto l’offerta di occupazioni sussidiarie — le «casalinghe di riserva» [101]
— fa decrescere la partecipazione femminile al lavoro regolare, mancando la possibilità di passare, in certi periodi della vita da orari pieni ad orari parziali contrattati [102]
.
c) Si è conquistata una riduzione degli orari di lavoro effettivi al di sotto delle 40 ore settimanali, con l’obiettivo, che non è certo di oggi, di «lavorare meno per lavorare tutti». Ma si è scoperto nel frattempo che durata e distribuzione degli orari possono influenzare l’occupazione anche in senso contrario al previsto, consentendo, e alimentando un’offerta di secondo lavoro le cui motivazioni non possono venire tutte dai recessi dell’egoismo umano [103]
: tanto più in presenza di una vivace domanda delle imprese e delle famiglie, spiegabile con la convenienza e con la necessità. Ciò fa sì che venga ad avere maggior lavoro chi già lavora, ed un lavoro chi occupa soltanto un posto [104]
.
d) Si punta ad un prolungamento ulteriore dell’istruzione obbligatoria, anche per ridurre la pressione dell’offerta sul mercato del lavoro [105]
. Si sottovalutano peraltro i due effetti di questo «abnorme apprendistato» [106]
, che rinvia l’inserimento dei giovani in un lavoro regolare: quello di allontanare appunto dal lavoro in senso temporale — beninteso, chi può [107]
— e quello parallelo di abituare questi giovani a cercarsi lavoretti in attesa di trovare poi il posto [108]
.
Da un’applicazione troppo lineare e un po’ meccanica del modello di lavoro stabile a tempo pieno sono insomma venute sorprese per i risultati poco lineari ed i guai veri e propri che ne sono conseguiti. (La qual cosa ricorda lo stupore nel constatare che quando i figli degli operai arrivano all’Università la scuola va in crisi; o che va in crisi la finanza pubblica quando si perviene allo Stato sociale.)
Questi e altri limiti di conoscenza e d’impostazione il movimento operaio italiano li ha mostrati tutti con la «scommessa perduta» [109]
della legge n. 285, 1977, per l’occupazione giovanile: l’immancabile preferenza per{p. 186}  l’industria, dove si produce valore e dove bisogna riciclare tutti questi disoccupati intellettuali, anche per farli uscire «dalla subalternità di una collocazione assistenziale e parassitaria rispetto al processo produttivo» [110]
per farne insomma degli esseri produttivi muniti d’identità; la persuasione che, ad una offerta di lavoro resa conveniente dal prezzo stabilito e dall’avallo dello Stato, la domanda delle imprese non potesse non andare incontro trovandoci il proprio tornaconto, come economia comanda; la scelta sofferta ma ponderata di un trattamento non concorrenziale rispetto a quello dei lavoratori occupati, per evitare che i padroni ne approfittino accaparrandosi giovani disoccupati [111]
; la scommessa su un equilibrato ed accettabile trade-off tra formazione e produzione, come baricentro dell’esperienza individuale e dell’esperimento sociale varati con il provvedimento; la ragionevole ipotesi della «possibile riconversione verso il basso» [112]
dei connotati e delle aspettative di questa forza lavoro intellettuale, giudicata disponibile ad un appello del lavoro manuale, formulato con ruvidezza proletaria sì, ma senza alcuna coazione sociale; la salda certezza che la fuoriuscita da una precarietà mortificante, se non disonorevole, sia l’obiettivo primo di qualsiasi giovane disoccupato o sottoccupato, soprattutto se istruito [113]
: tutto questo ed altro ancora è rinvenibile nella frustrante vicenda della legge 285, che non ha certo contribuito ad avvicinare i giovani al movimento operaio, o a rinsaldare la loro fiducia nello Stato democratico [114]
.
Quanto meglio sarebbe stato affrontare il problema con lo spirito che aveva fatto proporre a due economisti come P. Sylos Labini e F. Caffè quell’esercito del lavoro, dove un’eco di fervori rooseveltiani e un pizzico di comunismo di guerra, non disgiunti da richiami più remoti, rilanciavano il pieno impiego non come elargizione ma come conquista [115]
. Insomma, meglio un’iniziativa politica per creare lavoro sociale dove lavoro non c’è, che un dispositivo per ripristinare le convenienze sul mercato del lavoro, oppure una campagna per esortare i giovani al lavoro così com’è, o come lo faremo.{p. 187}
In definitiva il lavoro inteso come posto — la più amara delle rampogne perché indirizzata anche alla classe operaia e non solamente ai dipendenti pubblici e ai disoccupati intellettuali — sembra al movimento operaio una degenerazione del lavoro come diritto, mentre è anche una conseguenza della propria azione, un riflesso del proprio modello. E se ad ammetterlo — lo sappiamo bene — si rischia di convalidare le accuse dei padroni, a negarlo si rischia di occultare le contraddizioni proprie. Il lavoro come posto, a volte senza saperlo e magari in vista di fini antitetici, lo si è aiutato anche con la politica previdenziale, rivendicativa, sociale, contrattuale, con il sussidiamento del quasi-lavoro, con l’irrigidimento del lavoro operaio, con il misconoscimento del lavoro occulto, con l’intransigente gestione del tempo di lavoro.
Perché dirsi queste cose? Intanto, per non svicolare. E poi perché il lavoro come posto — questo pure bisogna saperlo bene — presenta anch’esso quel Doppelcharakter di tanti fenomeni che il movimento operaio affronta, a prescindere dalla circostanza se esso sia o no erede della filosofia classica tedesca, come tradizione vuole. C’è la faccia positiva del lavoro come diritto, e c’è quella negativa dell’impiego come sinecura. Fra di loro c’è tutta la gamma delle possibili produttività ed utilità economiche e sociali: ecco l’altra verità che occorre sapere, a meno che il posto sia inteso unicamente al negativo, per improduttività o inutilità o inamovibilità o immobilità. (Non manca ad esempio chi giudica portieri, uscieri et similia come eunuchi sociali, e il loro lavoro come la quintessenza del posto.) Ma su questa strada il movimento operaio, a cominciare dalla social-democrazia tedesca, ha già pagato tributi elevati all’industrialismo proletario, che riposa sull’indiscussa preminenza aggiudicata alla produttività/utilità del lavoro manuale di cui è artefice l’operaio di fabbrica; lavoro che non sarò certo io a misconoscere, ma neppure a incensare, convinto con Marx che «è una gran disgrazia essere lavoratore produttivo» [116]
. Quei tributi, il movimento operaio li ha pagati ogni volta che è stato più{p. 188} operaista degli operai [117]
; ogni volta che ha considerato il sistema della forza lavoro come un sistema planetario a orbite fisse, con la classe operaia immobile al centro del valore e dei Valori; ogni volta che ha ribadito acriticamente il concetto di lavoro manuale, di lavoro produttivo, e della loro equivalenza.
Oggi è proprio l’operaismo più avvertito o meno retorico ad ammonire che la composizione di classe non ci dà ipso facto la mappa della coscienza di classe; e inoltre, che né l’egemonia politica presuppone l’identità di status né le alleanze sociali pretendono l’uniformità di comportamento [118]
. E ciò vale per ambedue le varianti del modello proletario, sia quella classica di chi vede l’egemonia e le alleanze sorgere e muovere dalla stella della classe operaia; sia quella emergente in chi dai pianeti del proletariato esterno, dei servizi o della scienza, vede quei moti orientarsi e convergere su essa.
Guai dunque se il lavoro come posto viene inteso oggi al negativo con riferimento, poniamo, ad una inevitabile improduttività/inutilità dei posti creati dallo Stato assistenziale: questi giudizi vanno dati ad hoc e senza il valore-lavoro come pregiudizio. Un posto nell’industria può avere un’alta produttività ed essere del tutto inutile. (Non sto neppure a dire nocivo, com’è fin troppo facile ed acquietante dire delle armi e dei veleni.) Un posto nella scuola può avere una bassissima produttività ed essere cionondimeno utile. Dipende. Marx non ha scoperto o inventato il plusvalore perché noi lo adorassimo.
Note
[96] Sul settimanale della CGIL, «Rassegna sindacale», la discussione è proseguita da giugno a dicembre del 1978 (nn. 27, 30, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42 e 46) scadendo a volte nell’ideologia, come ha notato A. Becchi Collidà nel suo intervento sul n. 42. Nella bella ricerca di G. Barile, L. Zanuso, Lavoro femminile e condizione familiare, Milano, Irer, maggio 1979 (poligrafata) c’è un dato che dovrebbe far riflettere: soltanto 98 donne sulle 2.002 interpellate hanno dichiarato di preferire un lavoro a tempo pieno per tutto l’anno e tutta la vita. Dire che è colpa del capitalismo è come dire che è colpa dell’azoto atmosferico.
[97] Vedine una casistica in Lavorare stanca, cit., p. 11, dove si fa notare che, «sotto la forma di una costante precarietà, si può parlare di un rapporto continuato dei giovani col lavoro». Cfr. anche i risultati della ricerca di A. Palmonari, L. Pombeni, B. Zani, Identità sociale e identità professionale al termine della scuola media superiore, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, dove si afferma (p. 122): «Non è vero che i giovani rifiutano il lavoro: lo percepiscono invece sia in modo disincantato e realistico, come il mezzo indispensabile per vivere, sia in modo costruttivo, come il mezzo per definire una propria identità sociale».
[98] Citerei al positivo riflessioni come quella di I. Ariemma, Verso un servizio nazionale del lavoro, in «Politica ed economia», n. 4, luglio-agosto 1978, pp. 26 ss.
[99] «Quando i legami con il lavoro sono sciolti, vi è un relativo senso di isolamento»: H.L. Wilensky, Work as a Social Problem in H. S. Becker (a cura di), Social Problems: A Modern Approach, New York, Wiley & Sons, 1966, p. 130.
[100] Vedi la citata ricerca di G. Barile e L. Zanuso, Lavoro femminile e condizione familiare.
[101] O. Turrini, Le casalinghe di riserva, Roma, Coines, 1977.
[102] Su quanto ciò accresca rigidità e costi della manodopera femminile, cfr. rispettivamente: L. Frey. R. Livraghi, G. Mottura, M. Salvati, Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, in «Quaderni di economia del lavoro», n. 4, 1976; e F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, Bologna, Il Mulino, 1977.
[103] Cfr. L. Bergonzini, Problemi dell’indagine statistica sull’occupazione occulta e risultati di una ricerca sul doppio lavoro a Bologna, in Società Italiana di Statistica, in Atti della XXIX Riunione Scientifica, voi. I, tomo 1, pp. 189 ss.
[104] La ricerca più recente ed esaustiva sul fenomeno del doppio lavoro, con attenzione anche ai poco noti meccanismi della domanda, è quella svolta dall’istituto di Sociologia dell’università di Torino e diretta da L. Gallino: cfr. Lavorare due volte, Torino, Book Store, 1979.
[105] Notava già H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Torino, Einaudi, 1978, p. 442: «Posticipare l’uscita dalla scuola a un’età media di diciotto anni è diventato indispensabile per mantenere la disoccupazione entro limiti ragionevoli».
[106] G. Bonalumi, Relazione introduttiva alla Conferenza nazionale L’occupazione giovanile nell’attuale condizione economica e sociale, indetta dal governo, 3-5 febbraio, 1977, Atti, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1978, p. 19. C. Donolo ha parlato di «prolungamento forzato dell’adolescenza», in Alla ricerca di un lavoro e di un’identità, in «I Consigli», quaderni, suppl. al n. 36, aprile 1977; e B. Beccalli, semplicemente, di «prolungamento dell’adolescenza», in Protesta giovanile e opposizione politica, in «Quaderni piacentini», n. 64, luglio 1977, p. 57. (Ora i due testi sono in Lavorare stanca, cit., alle pp. 117 e 127).
[107] Dichiarazione di Luigi, giovane operaio, in «I Consigli», quaderno testé citato: «Io ho cominciato a lavorare non tanto perché non avevo voglia di studiare ma per esigenze familiari, che mi hanno portato per forza al lavoro (a 15 anni)». Potrei dire la stessa cosa. La differenza è che un tempo le due vie si separavano: o scuola, o lavoro. Ora vi sono i giovani che lavoricchiano studiando, e quelli che studiano solamente. A. Asor Rosa, in Sindacato e questione giovanile, Bari, De Donato, 1977, p. 49, ha parlato di «due forze sociali».
[108] «La partecipazione al lavoro dei giovani è più largamente diffusa di quanto si ritiene normalmente, ma è caratterizzata da un inserimento spezzonato, con gli elementi di precarietà e temporaneità che spesso sono a dò collegati»: G. De Rita, A. Ferrari, in L’occupazione giovanile nell’attuale condizione economica e sociale, cit., p. 162.
[109] La franca definizione è di E. Crea, segretario confederale della CISL, in Giovani e lavoro precario, in «Conquista del lavoro», suppl. al n. 32, 3 settembre 1979.
[110] S. Garavini, Sindacato e questione giovanile, cit., p. 23. Più di recente, Garavini ha parlato di offrire ai giovani, «un’alternativa reale a quella spinta all’assistenza e all’emarginazione [...], alla quale non può essere data solo una risposta ideale e morale»: Il successo del sindacato e le vie per consolidarlo, in «Rinascita», n. 29, 27 luglio 1979.
[111] Nota giustamente D. Deidda, Perché è fallita la 285, in «Conquiste del lavoro», n. 26, 25 giugno 1979, che l’iniziativa «era rivolta ai disoccupati puri, soggetti in gran parte inesistenti».
[112] E. Crea, Giovani e lavoro precario, cit.
[113] Ma si è poi dovuto constatare, a partita ormai giocata, che «le masse giovanili scolarizzate si mostrano orientate verso soluzioni lavorative instabili e precarie, piuttosto che disponibili ad una condizione di stabilità assodata all’inserimento in attività declassate, con tempi di lavoro lunghi e non flessibili»: così, per la CISL, E. Crea, op. cit. Per la CGIL, B. Trentin ha parlato della «preferenza ad un’occupazione precaria rispetto ad un lavoro stabile ma dequalificato»: cfr. I lavori del Consiglio generale, in «Rassegna sindacale», n. 38, 18 ottobre 1979, p. 26.
[114] Due lavori utili per ricostruire l’esperienza: S. Bruno, Disoccupazione giovanile e azione pubblica, Bologna, Il Mulino, 1978; G. Faustini, L’occupazione giovanile: situazioni e prospettive, in CNEL, Rapporto CNEL sulla manodopera, Roma, 1979, alle pp. 353-435.
[115] Vedi «l’armata industriale per i lavori sociali generali» nel programma del comunista evangelico W. Weitling, e l’esercito del lavoro previsto al punto 8 del Manifesto comunista: G. M. Bravo, (a cura di), Il socialismo prima di Marx, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 269-70; K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1962, p. 158.
[116] K. Marx, Teorie del plusvalore, I, Roma, Editori Riuniti, 1961, p. 367.
[117] Avverte comunque R. Alquati, in Università di ceto medio e proletariato intellettuale, cit., p. 30, «Gli operai non sono poi molto operaisti».
[118] Cfr. M. Tronti, in Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 23.