Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c1

Capitolo primoIl lavoro come ideologia

Il nostro domani si chiama lavoro (dal manifesto di Giacomo Manzù per il IX Congresso della CGIL, giugno 1977)

1. Il valore del Lavoro e le inadempienze capitalistiche

Partiamo dalla crisi della categoria «lavoro», crisi che attraversa il corpo delle società contemporanee agendo in profondità ed esplodendo in superficie. È una crisi all’apparenza facile da descrivere e persino da spiegare, se si parla — poniamo — della disaffezione al lavoro [1]
. Tutti possono capire che ci si riferisce allora a fenomeni di assenteismo, trasandatezza, nomadismo e distacco dei lavoratori dal lavoro. In sostanza, una crisi di disamoramento. È questa la crisi della quale hanno cominciato a lagnarsi gli imprenditori dei vari paesi col sopraggiungere degli anni ’70, segnati da comportamenti ed atteggiamenti collettivi dei lavoratori, inediti fino a oggi oppure dilagati e divulgati in quest’ultimo decennio [2]
.
Non è questa la crisi del lavoro che qui interessa, anche se ne è un aspetto, un riflesso piuttosto appariscente.
E neppure il tema si può circoscrivere alle due forme più note e peculiari della disaffezione al lavoro, e cioè alla demotivazione nel senso usato dal sociologo e psicologo dell’industria [3]
; e all’allergia, termine con il quale si designano ed evocano fenomeni sociali più complessi [4]
.
Sono anche questi aspetti non trascurabili della crisi del lavoro. Cionondimeno ritengo che il tema sia più ampio e che la crisi ne tocchi gli aspetti estremi: dal Lavoro come valore al lavoro come impiego.
In un mondo dei valori che sta rapidamente mutando, il valore del Lavoro (tutt’altra cosa, evidentemente,{p. 10} dal valore-lavoro com’è inteso in economia) ha perso molta centralità, ed anche repentinamente. Lo si nota già rispetto agli anni ’60, che con Kennedy e Krusciov parevano iniziati all’insegna di una congiunta maturità politica ed economica dei due massimi sistemi; ma è poi con gli anni ’70 che, per la prima volta forse nella storia dell’umanità, la categoria Lavoro viene criticata come meglio non avrebbe potuto fare Marx da vivo, e stavolta venendo direttamente espresse, udite o propalate le opinioni dei «prestatori». In precedenza, essa veniva solamente lodata od esaltata da chi, protagonista oppure comprimario, la veniva forgiando; ancor prima, veniva invece denigrata dai ceti aristocratici e dagli agi dell’Otium, o più semplicemente misconosciuta giacché ignobile.
Allo stesso tempo, in un modo di produzione che si avvia al 2000 offrendo solo più la scelta fra un declino nevrotico ed una stasi virtuosa dello sviluppo — a parte eventuali catastrofi ecologiche e collassi energetici — l’impiego del lavoro ha incontrato molte difficoltà, scontentando non meno i «datori» dei prestatori. Cosicché la realtà del lavoro ne è uscita un po’ tutta criticata, riveduta, sottoposta a reciproche incriminazioni ed a vivisezioni impietose, che l’hanno oltretutto prosaicizzata come non era mai accaduto.
Sistema dei valori in sommuovimento, sistema di produzione in ristagno: è in questo scenario unico che va dunque affrontata la crisi del lavoro, apocrifamente intitolata a un «rifiuto» che è soltanto speculare all’apologia. Una crisi del lavoro come ideale e come merce, che appare ugualmente profonda nei suoi due aspetti estremi, al punto che ciascuno ha la proprietà di occultare l’esistenza dell’altro, comunque di sovrastarlo. Infatti, c’è chi vede soltanto l’aspetto concettuale e chi solamente quello fattuale della crisi; e in ciò vi è altresì il rifiuto dell’altra crisi.
Tenere insieme i due aspetti estremi non è facile anche perché manchiamo ancora di una storia critica dell’idea di lavoro [5]
, e quindi non possiamo vedere con esattezza quali siano le letture che sono andate in pezzi.{p. 11}
D’altra parte non sarebbe metodologicamente corretto considerare sullo stesso piano cause endogene e cause esogene, e neppure equiparare uno sdrucciolone pratico ad un tracollo ideale.
Da qui partirei, intanto: dall’origine reale di questa crisi. Tanto per cominciare, si può fondatamente ritenere che se la piena occupazione si fosse realizzata in via stabile, il lavoro come categoria avrebbe mantenuto tutt’altra prestanza. Dove quell’utopia terrena è rimasta un mito, come in buona parte dell’Italia, le cose stanno peggio; in paesi che hanno conosciuto il pieno impiego il lavoro mantiene invece maggior dignità. Ma gli anni che stanno venendo avvicinano le situazioni almeno in un punto decisivo, quello del lavoro per i giovani.
a) Ecco qui una prima causa reale di crisi: le società capitalistiche avanzate non sono in grado di offrire alle nuove generazioni un lavoro pari alle aspettative o al titolo di studio, e a volte neppure un lavoro qualsiasi. E questo vale già per gli Stati Uniti. Per cui la promessa dell’impiego alle giovani leve è maggiormente esplosiva del pieno impiego come mito per tutti, così come il lavoro che manca deteriora l’immagine più del lavoro che opprime: invece che detestabile, lo rende semplicemente vocativo. L’esclusione dal lavoro, l’inoccupazione involontaria, si rovesciano oggi in estraneità e contrapposizione giacché non equivalgono più alla morte civile. Si può parlare fin che si vuole di esercito di riserva, per l’Occidente capitalistico. Ma se i disoccupati non fanno più la coda per la minestra, se sopravvivono discretamente anche i giovani senza lavoro, questo viene a perdere sia l’aureola della salvezza che l’imperativo della necessità. Il prosaico problema dell’occupazione spoetizza insomma il concetto stesso di lavoro come diritto/dovere di ognuno. Diciamo dunque che all’origine della crisi vi è prima di tutto una diffusa inadempienza delle società capitalistiche circa la quantità di lavoro domandato rispetto a quello offerto.
b) Vi è poi un’altra causa. Il lavoro come categoria avrebbe conservato una sua pregnanza se l’organizzazione lavorativa non fosse entrata in contrasto con la sco{p. 12}larizzazione di massa. Si tratta certo della catena di montaggio, che ha deturpato il volto del capitalismo non meno di quanto ne abbia fortificato la muscolatura. Ma si tratta inoltre di un contrasto più profondo: di un distacco, fra sistema educativo e sistema produttivo, che continua ad aumentare ovunque. Dai «padroni delle ferriere» dell’ottocento ai capitani d’industria del Novecento, mentre si sviluppava l’insegnamento professionale, era sempre parso che al capitalismo non piacesse o non servisse una manodopera poco istruita. Ora, quella che viene comunemente chiamata la storia della civilizzazione sembra vendicarsi: la scuola — perfino quella italiana, così malconcia — sforna giovani lavoratori più preparati, più acculturati di quanto gli servirebbe per lavorare [6]
 (anche se, a volte, meno specificamente addestrati di quanto sarebbe necessario per trovare lavoro). Ciò dimostra non solo che non v’è una piena fungibilità fra bisogno capitalistico e istituzione scolastica, come giustamente sostiene C. Offe [7]
, ma che il venir meno d’una congruenza durata neppure un secolo apre un’altra crepa profonda nell’edificio del lavoro. È proprio della scuola di questi anni non fornire né le competenze né le propensioni che dovrebbero caratterizzare la formazione di forza lavoro [8]
. Quindi si ha una socializzazione al lavoro doppiamente contradditoria e, direi, post-industriale [9]
. Le cognizioni apprese sono di tipo sempre più generale: ciò favorisce sì quell’adattabilità di massa che oggi la produzione richiede, ma porta altresì i giovani a richiedere un lavoro meno esecutivo di quello normalmente disponibile. D’altra parte le aspettative generate non discendono dalla retorica sul lavoro produttivo, bensì dalla gerarchia sociale che proprio la scuola rappresenta e perpetua, a cominciare dalla selezione scolastica stessa. Ma siccome non può più essere così sfacciatamente di classe da reincanalare ciascuno nel ruolo d’origine, essa continua a promettere sbocchi lavorativi e opportunità di promozione per tutti, che poi la società — non solo in Italia — non può mantenere. Anche questa inadempienza capitalistica, verso la qualità del lavoro, sta all’origine della sua crisi {p. 13}presente; e ne dice tutta la portata giacché tocca i giovani, cioè quelle leve che costituiranno la forza lavoro centrale dei prossimi decenni.
Già a partire da queste ragioni fattuali della crisi (su cui torneremo nei successivi capitoli) si potrebbero correttamente affrontare quelle concettuali. Si tratterebbe di un’operazione tutt’altro che ovvia. Infatti, giunti a questo punto, molti si fermano. La crisi del lavoro — disaffezione o demotivazione, allergia o rifiuto — diventa tutta materiale: come si dice in questi casi, strutturale. La tenuta ideale del lavoro non si ritiene ne venga incrinata, a volte neppure dalle inadempienze capitalistiche in fatto di quantità e qualità, a volte appena scalfita da queste che si vengono giustamente denunciando. Al massimo si è disposti ad ammettere che nella crisi del lavoro si riflettano taluni aspetti di un deterioramento o imbarbarimento morale-intellettuale della società contemporanea e, magari, qualche segno delle lesioni sopravvenute nella specifica e pre-esistente morale del lavoro. Più in là non si va. In ciò vi è un misto di pruderie e d’ignavia, che si riscontra anche in settori politicamente avveduti del movimento operaio. Questo atteggiamento mostra la persistenza di una visione ideologica.
Il lavoro come ideologia: ecco che qui vengono le cose più difficili da dire, le più aspre forse, senz’altro le più amare. Ci sono dietro buoni ricordi e credenze superate; c’è dentro un fondo eterno di verità ma anche qualcosa di inesorabilmente datato.
Tutto ciò, ad esempio, porta oggi il movimento operaio a sentirsi l’esclusivo depositario, se non l’ultimo pretendente, del Lavoro. Nulla di male. Ma proprio in ciò si manifesta una decisiva ragione concettuale della crisi, originata da una ulteriore inadempienza capitalistica, che sfugge ai più.
c) C’è un crescente divario fra le valenze che al Lavoro annettono oggi i partners sociali: questo sembrerebbe anzi l’ennesimo caso di bandiere che il proletariato ha sollevato dal fango, dove le aveva lasciate cadere la borghesia. Nell’uso capitalistico, la ca
{p. 14}tegoria lavoro mostra un crescente utilitarismo e una credenza declinante. I motivi non sono neppure tanto quelli di un logorio o di un ripudio del lavoro come valore borghese. Sono piuttosto altri, e principalmente: il trasferimento fuori del lavoro, e del tempo di lavoro, degli attributi che fondano l’identità sociale; e dunque la difficoltà sempre più grande a tenere il baricentro dei valori piantato nella produzione, mentre slitta verso il consumo. A questo punto subentra il movimento operaio, a riproporre o a tener ferma una categoria che prima poggiava solidamente su due gambe, due ascendenze. Il Lavoro, creatura che viene dall’ideologia borghese ma anche da quella operaia, oggi è quasi orfano. E benché il movimento operaio, com’è nella sua natura e nelle sue tradizioni, ce la metta tutta per tenere alta la bandiera, un vuoto si sente. C’è anzi da pensare a quel che ne sarebbe della categoria «lavoro», se non venisse trattenuta dal baratro della catena di montaggio e del tempo libero, in cui il capitale la sta facendo precipitare. Quest’ultima inadempienza capitalistica — si potrebbe dire, verso la nobiltà del lavoro — è forse più delle altre all’origine della crisi.
Note
[1] Il segnale lo diede il notissimo articolo di J. Gooding, Blue lollar blues on the Assembly Line, in «Fortune», n. 7, luglio 1970, prontamente tradotto dalla FIAT per i propri dirigenti e meritoriamente riportato su «Quaderni piacentini», n. 42, novembre 1970, pp. 160-8. Poi è stata la volta dell’autorevole rapporto svolto da un gruppo di lavoro su commissione (dicembre 1971) del governo USA: Work in America, MIT Press, Cambridge (Mass.), 1973, giunto in cinque anni all’ottava edizione insieme ad alcune monografie di singoli componenti del gruppo. Cfr. anche R. Moss Kanter, Work in a New America, in «Daedalus», n. 107, inverno 1978 (tradotto parzialmente sotto altri titoli in «Quaderni di Rassegna sindacale», n. 74, settembre-ottobre 1978 e poi ne «Il Mulino», n. 266, novembre-dicembre 1979). Per l’URSS, cfr. B. Grancelli, Il disadattamento operaio nei collettivi di produzione sovietici, ne «La Critica sociologica», n. 30, estate 1974, pp. 49-69. Per l’Italia, D. De Masi, G. Fevola, I lavoratori nell’industria italiana, Milano, Franco Angeli, 1974, vol. II, pp. 516-72.
[2] Sulla novità dell’impatto più che del fenomeno vedi, per l’assenteismo, P. Dubois, L’absentéisme ouvrier dans l’industrie, in «Revue française des Affaires sociales», n. 2, aprile-giugno 1977, pp. 15 ss.; e anche P. Albani, L’assenteismo operaio, Roma, Coines, 1976; A Cascioli, Assenteismo e alienazione, Milano, Franco Angeli, 1977.
[3] Cfr. R. A. Rozzi, Psicologi e operai. Soggettività e lavoro nell’industria italiana, Milano, Feltrinelli, 1975; F. Battaglia, L’allergia al lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1979.
[4] Nella versione più estremizzata, si può citare il provocatorio I. Illich, Le chômage créateur, Paris, Editions du Seuil, 1977. Non risponde pienamente al titolo, invece, J. Rousselet, L’allergie au travail, Paris, Éditions du Seuil, 1974.
[5] Tali non sono: G. Lefranc, Storia del lavoro e dei lavoratori, Milano, Jaca Book, 1978; M. Kranzberg, K. Gies, Breve storia del lavoro, Milano, Mondadori, 1976; P. Jaccard, Storia sociale del lavoro, Roma, A. Armando, 1963, volumi utili ma non indispensabili né esenti da difetti, specie quest’ultimo. Il testo più salassato è essenzialmente apologetico: A. Tilgher, Homo faber, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1929. Alcuni spunti in L. Dal Pane, La storia come storia del lavoro. Discorsi di concezione e di metodo, Bologna, Pàtron, 1968.
[6] C. Wright Mills, Colletti bianchi, Torino, Einaudi, 1966, p. 229: Il numero delle «persone impiegate in mansioni al di sotto delle loro normali capacità lavorative [...] è destinato ad aumentare poiché la frequenza scolastica è in aumento e il lavoro è sempre più standardizzato». Vedi ora il bel libro di R. Collins, The Credential Society, New York, Academie Press, 1979.
[7] C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Milano, Etas Libri, 1977, pp. 180-88.
[8] M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974; G. Franchi, Scuola, formazione e crisi economica, Milano, Feltrinelli, 1976.
[9] Cfr. M. Colasanto, Processi formativi e occupazione, Milano, Vita e Pensiero, 1978, e l’ancora valido R. Emma, M. Rostan, Scuola e mercato del lavoro, Bari, De Donato, 1971.