Umberto Romagnoli
Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/c4

4. La spinta alla «costituzionalizzazione» del potere aziendale

Alle origini, dunque, il discorso esclusivamente sindacale non interessava alla Bassetti se non in termini di una prospettiva a medio o lungo termine. Più esattamente, la direzione della Bassetti aveva idee assai più precise in ordine al tipo di rapporto (e relativi contenuti) da instaurare con il personale che con i sindacati. Per questo motivo si è dovuto prendere atto, dopo quattro anni, che «esiste una situazione piuttosto paradossale per cui ciò che è rimasto in piedi e ha avuto ed ha un certo valore sono il “fatto” dell’accordo sindacale, il “fatto” di una politica di notevole apertura verso i sindacati, il “fatto” del premio riconosciuto prima delle altre aziende, cioè, alcuni atteggiamenti o alcune decisioni di vertice che sono sempre state appoggiate alla politica della consultazione senza che però siano minimamente riuscite a costruire, a dar corpo ad una consultazione effettiva e senza che questa sia riuscita ad avere un corretto séguito in termini di maturazione delle persone e neppure, del resto, in termini di migliore efficienza produttivistica» . [1]
A me sembra che la lucidità della diagnosi vada a scapito della sua completezza. Infatti, se l’effetto ottenuto dalla CM non è stato quello auspicato, esso non è neppure trascurabile. La CM non ha aumentato l’entusiasmo per il lavoro né ha forgiato una nuova élite operaia («i risultati raggiunti non sono confortanti», si costata [2]
), ma ha certamente contribuito a modificare le condizioni e le forme di esercizio del potere aziendale nella misura in cui la direzione, obbligata «a far capire» le decisioni che intende adottare, deve preliminarmente farne oggetto{p. 62} di comunicazione. Ed anche una consultazione basata sulla mera informazione può ben essere — è stata — «effettiva», perché «essere al corrente e comprendere è già partecipare» [3]
.
Al riguardo, occorre chiarire subito che il pensiero del gruppo direzionale della Bassetti è sempre stato orientato nel senso che la c.d. democrazia aziendale sia una «utopia» ed un «errore». «L’azienda è costantemente in guerra», i «tempi delle sue decisioni» sono brevissimi; quindi la sua struttura interna non può non essere «autoritaria» [4]
.
È un’ammissione importante che va apprezzata per la sua estrema franchezza, ma che rischia di dar luogo ad equivoci qualora sia valutata in rapporto alla volontà politica di far «discutere il modo di esercizio di un potere che non viene posto in discussione» [5]
. Gli equivoci insorgono all’interno della stessa direzione aziendale, ove non manca chi denuncia l’ambiguità di un discorso giudicato simile a quello riportato in margine ad una vignetta apparsa parecchi anni fa sul «New Yorker»: «Io non voglio che tu faccia ciò a modo mio perché io dico: “fallo a modo mio”» ‒ diceva il «buon dirigente» rivolgendosi ad un dipendente ‒ voglio che tu lo faccia a modo mio perché vedi che è il modo mio». Come è evidente, si tratta di una critica mirante a ridicolizzare l’obiettivo paternalistico che era proprio della «moda della partecipazione» dilagante, spesso sotto forma di «controllo consultivo», nell’industria americana, durante il periodo entre deux guerres [6]
.
Senonché, in Bassetti il discorso assume differenti contenuti, addirittura contrari a quelli teorizzati da Elton Mayo e dai suoi epigoni; in ogni caso, le sue pre{p. 63}messe non possono confondersi con quelle su cui si costruisce «il mito che per avere collaborazione nel prendere decisioni occorre che il potere sia suddiviso» [7]
. Scopo della CM, pertanto, non può essere che i lavoratori accettino ciò che la direzione vuole che accettino, ma facendo loro credere di essere essi a prendere la decisione, bensì sostituire all’autorità-autoritaria l’autorità basata sul consenso critico. Il che equivale a riconoscere un ruolo al «consenso dei governati» nell’esercizio dell’attività di comando e, quindi, a spianare la strada all’estensione del potere «costituzionale» nell’azienda, in luogo del tradizionale potere «assoluto». La CM, in altri termini, può rappresentare ‒ sotto questo profilo ‒ un realistico tentativo di giustificazione di un «fatto strutturale immutabile per principio: che ci debbano essere sempre alcuni che comandano», poiché non esiste nell’industria ‒ come scrive il Dahrendorf ‒ «il presupposto dello scambio dei ruoli: “governo” e “opposizione” rimangono sempre fissi» [8]
. Ciononostante, «si può invitare (il governo) a usare un modo garbato, allargato, discorsivo nell’esercitare» il potere. «È questo un problema di ordini dati con educazione e anche, entro certi limiti, di creazione di un (...) costume», attraverso il quale «si fa capire e provare ai lavoratori che possono parlare dei propri problemi, dei problemi dell’azienda, dei problemi di lavoro» [9]
. «La sostanza ultima del rapporto [gerarchico, di autorità]» ‒ si ammonisce ‒ «è forse la stessa, ma la forma è diversa. È importante ricordare che, come sempre nella vita, tra forma e sostanza si creano delle interconnessioni: ed è innegabile che un gruppo di collaboratori ammessi a un certo tipo di rapporti finiscono con l’avere un certo grado di potere, se non altro in termini di condizionamento di fatto sulla volontà di chi non sempre tende a ricorrere al diritto{p. 64} per risolvere i problemi. Questo per dire che le vie della partecipazione al potere sono anche quelle che si realizzano di fatto» [10]
.
Fattore di organizzazione dell’opposizione «legale» in azienda, la CM appare, quindi, suscettibile di riaprire anche a livello teorico il problema dei contenuti, finalità ed estensione dei poteri dell’imprenditore. Occorre però evitare il contagio dell’«entusiasmo filosofico (...) di neofiti» che caratterizzò la discussione, più volte ricordata, svoltasi in seno al comitato dei direttori (= CD) l’11 febbraio 1963 sul tema La CM [11]
. Risultante di un equilibrio di rapporti di forza in condizioni storicamente date, il potere dell’imprenditore nei confronti dei suoi dipendenti non necessita di alcuna convalida etica né a carattere aziendalistico né a carattere universalistico. Proporsi la ricerca di quest’ultima significa recuperare, facendo del marxismo mutilato o mal digerito, dal discredito nel quale è caduta da tempo l’idea di una vocazione morale del potere in una società capitalistica. In effetti, l’unico risultato ottenibile al termine di un dibattito necessariamente sterile, perché antistrutturale («qui non si fa della democrazia, qui si fa della gerarchia nel senso più assolutistico e autoritario possibile, ridotto alla sua essenza», anche se non «come lo si fa da parte di un sergente con la squadra in caserma» [12]
), non potrà essere che questo: «in azienda, da tre anni, più che a fare la CM siamo impegnati a ridiscutere se la CM è un equivoco o no, è valida o no, ... invece di cercare di usare gli strumenti che abbiamo o di rinnovarli» [13]
, perché nell’azienda, come nella società politica, il potere tende alla realizzazione dei fini, assume le forme di esercizio, occupa le zone che il potere controbilanciante consente o tollera.{p. 65}
Il problema consiste nel sapere se tale potere controbilanciante corrisponde ad una forza reale padrona di un proprio ritmo di sviluppo, cioè a dire autodeterminantesi secondo una propria dialettica, o non esiste, ovvero se è sufficiente che una direzione investita di poteri assoluti ne decreti l’esistenza per farlo sorgere. Orbene, in Bassetti si è creduto a lungo che l’ordinamento capitalistico dei rapporti di produzione potesse trovare in se stesso le ragioni di tale concessione. È stato però sufficiente delineare in prospettiva una modifica dell’assetto dei rapporti aziendali di produzione — al di là di un semplice miglioramento dell’impalpabile Betriebsklima — perché ne fosse impedita, ritardata o deformata la verifica pratica.
La tecnostruttura, infatti, non ha atteso che il contenuto politico potenziale del modello teorico lievitasse e si traducesse in consapevole contestazione organizzata delle forze antagonistiche. Senonché, una verifica c’è stata, seppure di diversa natura: legittimato dall’istituto della proprietà in senso tecnico o connesso alla capacità di conservare il dominio incontrastato dell’organizzazione produttiva, il potere aziendale tende, in ogni caso, a manifestarsi come una realtà egemone e autosufficiente. In altri termini, la tecnostruttura nel suo complesso (dal top-management ai preposti alla direzione delle squadre operaie) sembra indifferente alle trasformazioni giuridiche subite, nel corso degli ultimi decenni, dall’organizzazione dell’impresa entro la quale è cresciuta e si è articolata: non si interroga sulle ragioni della propria esistenza. Ciò che conta è il controllo (o l’ostruzione) degli accessi ai ruoli di comando, nella misura in cui contribuisce a far sopravvivere alla sua originaria funzione il concetto tecnico-giuridico di subordinazione in termini di «appartenenza all’impresa senza partecipare al suo potere». Ed infatti, se è vero che la CM è (anche) la soluzione data al problema della partecipazione dei lavoratori al potere aziendale, «la linea gerarchica reagisce al fatto di essere circuitata dal rapporto diretto tra i dipendenti ed il potere»: ma «può
{p. 66} esistere una funzione estranea alla linea (come la CM) che opera sulla linea senza sostituirla né scavalcarla?», è la domanda formulata in un documento giudicato, a ragione, «importantissimo». «È linea» ‒ si risponde ‒ «anche la decisione presa in sede di CM, nel momento cioè in cui la CM si inserisce sulla linea a condizionarne il modo di operare» [14]
. Si tratta, quindi, di convincere i capi intermedi ‒ i c.d. uomini di mezzo ‒ che la CM non introduce in azienda un «secondo potere» («là dove la CM si è messa in posizione di alternativa alla linea», è la rassicurante conferma, «ha fatto un buco nell’acqua»), ma una ulteriore garanzia di maggiore responsabilizzazione e razionalizzazione del potere («là dove si è sposata alla linea, ed è diventata in parte linea» ‒ si costata ‒ la CM «è riuscita a far di più»). «In altri termini, là dove ci sono dei capi che funzionano, funziona anche la CM: magari è stata la CM a far funzionare il capo» [15]
. Dichiarazione, questa, che è perfettamente in linea con le regole della più illuminata e moderna tecnocrazia aziendale: «consultarsi (con i dipendenti) significa innanzitutto adottare una precauzione in più contro il provvedimento inopportuno di cui il capo si pente dopo averlo preso, che non ripeterebbe, ma sul quale non si può ritornare senza creare un disservizio e senza diminuzione di prestigio» [16]
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Note
[1] Intervento del DdP della Bassetti nel corso della discussione svol­tasi nell’àmbito del CD del 10 dicembre 1962.
[2] Verbale della riunione del CA del 20 gennaio 1962.
[3] Bloch Lamé, Pour une réforme de l’entreprise, Paris, 1963, (trad. it., Milano, 1968), p. 98. Anche Kistler, Die Betriebsgemeinschaft, Freibourg, 1953, afferma che il diritto d’informazione è già un «modo» d’essere del Mitspracberecht (pp. 73 s., 133 ss.).
[4] Interventi di Bassetti al convegno di Stresa, cit. e nelle discus­sioni, cit. del ’62 e del ’63.
[5] Intervento di Bassetti nella discussione del 10 dicembre 1962, cit.
[6] Cfr. Baritz, 1 servi del potere, trad. it., Milano, 1963, p. 231 ss.
[7] Interventi di Bassetti e di un membro della segreteria nelle discus­sioni cit. del 10 dicembre 1962 e 11 febbraio 1963.
[8] Sociologia dell’industria e dell’azienda, trad. it., Milano, 1967, p. 115.
[9] Interventi di Bassetti e di un membro della segreteria nelle di­scussioni cit. del 10 dicembre 1962 e 11 febbraio 1963.
[10] Intervento di Bassetti nella discussione del 10 dicembre 1962, cit.
[11] Come fu definito da Bassetti nel corso della discussione mede­sima. Sull’organismo denominato comitato dei direttori, v. oltre n. 5.
[12] Intervento di Bassetti nel CD del 10 dicembre 1962.
[13] Verbale della riunione con i sindacati del 6 settembre 1965 (intervento di un membro della segreteria della CM).
[14] Intervento di Bassetti nella discussione dell’11 febbraio 1963, cit.
[15] Intervento di Bassetti nella discussione dell’11 febbraio 1963, cit.
[16] Bloch Lainé, Pour une réforme, cit., p. 98.