Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
a) Intanto assumono aspetti inediti fenomeni già conosciuti, come la sottoccupazio
{p. 154}ne e la sovraoccupazione, all’apparenza opposti ma che non indicano più di per sé una carenza di domanda e una saturazione dell’offerta, quanto piuttosto un intreccio nuovo di stimoli economici e di motivazioni sociali. Le leggi economiche che hanno tradizionalmente regolato il mercato del lavoro non danno conto, ad esempio, dei comportamenti indotti dai meccanismi di integrazione dei redditi, utilizzati dall’«operatore famiglie» [9]
, né dei «sistemi delle garanzie» [10]
giuridico-normative legate al posto di lavoro: ma è con essi che l’offerta di lavoro può rendersi flessibile oppure rigida; che la precarietà può non tradursi nell’emarginazione; che le figure sociali paiono scomporsi invece di riprodursi; che la questione del lavoro come posto si sminuzza nelle occupazioni e con ciò a volte si sdrammatizza perché si complica il quadro degli interessi in contesa.
b) Poi viene diversamente dislocata e dimensionata l’inoccupazione. «Eserciti di riserva» ci sono e forse ci saranno sempre. Ma per vederli qui dall’Occidente sviluppato occorre talvolta forzare lo sguardo oltre le frontiere nazionali, entro le quali si è promesso ed assaggiato il pieno impiego. E in generale non bisogna cercare più queste truppe fra gli individui laceri ed affamati, tant’è che il maggior gettito lo danno oggi le giovani leve, innanzitutto femminili, licenziate dalla scuola o in essa stazionanti.
c) Viene infine definita e ritagliata diversamente la disoccupazione stessa. Coloro che hanno perso il posto di lavoro entro le fasce forti dell’età lavorativa costituiscono uno strato meno precario essendosi in genere dilatate le condizioni di assistenza, se non ridotto il tempo per il reimpiego. Per gli altri cresce l’intervento pubblico destinato ad assicurare, sia una sussistenza parallela dove la disoccupazione strutturale è soprattutto cronica (in Italia, si va dai «cantieri di lavoro» alle pensioni d’invalidità), sia un riadattamento professionale attraverso meccanismi di riciclaggio, dove la disoccupazione frizionale ha forti risvolti tecnologici. Soprattutto dopo i cicli congiunturali e le ristrutturazioni aziendali più recenti, il quadro della disoccupazione nell’Occiden{p. 155}te mostra che vieppiù ci si attende dallo Stato non solo una tutela, ma quell’iniziativa per la quale prima avrebbe dovuto fungere il mercato.
In tutta questa sua complessa azione e strumentazione, lo Stato capitalistico — più o meno keynesiano che esso sia — va ben al di là dello scopo di assicurare un corretto funzionamento al mercato del lavoro. E dal momento che — come ha scritto la S. de Brunhoff — «la gestione statale della forza-lavoro propria del capitalismo è insieme immanente ed esterna al rapporto di sfruttamento capitalistico» [11]
, lo Stato va altresì al di là di una mediazione fra partners. Ciò non solo richiede un più alto controllo sulla società, ma finisce col portare lo Stato a produrre consapevolmente la società stessa [12]
. Questo appunto, correttamente parlando, è lo Stato sociale. Per esso il diritto al lavoro è un crocevia simbolico, dove però si incontrano realtà corpose, flussi in atto e tendenze latenti, che è possibile manovrare, che è necessario guidare, ma che sono difficili da regolare [13]
.
A tale scopo, soprattutto in questo dopoguerra, non c’è Stato capitalistico che non abbia impostato e gestito politiche del lavoro e flussi migratori variamente combinati alle rispettive strategie di sviluppo nazionali o sovrannazionali, battendo strade orientate alla massima occupazione compatibile con le condizioni strutturali e con i rapporti di potere, giacché questo è diventato l’obiettivo sociale irrinunciabile di qualsivoglia programma politico. Gli esiti ottenuti sono differenti tra loro, e per valutarli comparativamente occorrerebbe comunque tener conto del vincolo posto dalla diversa consistenza, nei vari paesi, della «sovrappopolazione relativa» (benché questa variabile sia anch’essa frutto di scelte precedenti) [14]
. Non mi pare arbitrario, tuttavia, individuare un tratto comune in queste esperienze, nelle quali veniva misurandosi la capacità del sistema di rispondere simultaneamente alla domanda dell’economia e alle promesse della politica.
Molto semplicemente, in questi anni la forza lavoro complessivamente disponibile ha mostrato una tendenza{p. 156} a crescere, sia in quantità che in qualità, più velocemente dei posti di lavoro creati, senza che tale eccedenza si traducesse in altrettanta disoccupazione. E questo perché la risultante finora prevalsa nelle politiche per la massima occupazione, o per il primo impiego, è andata nella direzione di un allentamento e di un dirottamento della pressione proveniente dall’offerta di lavoro. Le eccezioni sono pochissime e non riguardano i paesi ove più orgogliosa sventolò la bandiera dell’opulenza neo-capitalistica.
Possono esservi state ragioni contingenti, quali il doppio boom postbellico della natalità e della scolarizzazione [15]
. Ma da sottolineare c’è questo: che le risposte date hanno avuto moventi ed originato influssi destinati a durare al di là dei due fenomeni, che anzi vedono oggi, il primo un rallentamento netto e il secondo una certa saturazione.
Il sedimento più corposo e per noi interessante è il profondo mutamento non solo nell’incidenza ma nella conformazione e nella composizione dell’«esercito di riserva». Il che segna il superamento definitivo di tutta una fase storica di mobilitazione e di procacciamento ad ogni costo della forza lavoro da immettere nel sistema produttivo. Un eccesso di braccia disponibili non interessa più come un tempo, per lo meno entro i confini nazionali. E questo, non perché le Costituzioni proclamino oggi solennemente il diritto al lavoro; e neppure perché nei paesi democratici i costi politici di una disoccupazione di massa siano ormai diventati insostenibili, mentre già erano oltremodo onerosi economicamente parlando. La ragione è un’altra. L’eccesso di braccia serve ma non può né deve trattarsi di un esercito lacero ed affamato. È molto più utile un polmone occupazionale dilatabile e comprimibile senza troppi traumi e spese.
Un siffatto serbatorio non è più stracolmo di piccoli contadini cacciati, di lavoratori autonomi decaduti, di giovani e ragazze usciti dalle «professionali», di edili periodicamente sul lastrico, di volenterosi inurbati d’ambo i sessi. Non è più interamente composto di senza lavoro e di futuri proletari. È un serbatorio che{p. 157} abbatte il confine rigido tra lavoro e non lavoro, e dove sfuma la distinzione, un tempo così netta, fra occupazione e disoccupazione. (I disoccupati ufficiali, quelli dichiarati, sono soltanto uno dei rivoli che lo alimentano, ed è oggi abbastanza agevole fare in modo che non siano né troppi né troppo pochi).
Fra le odierne riserve di forza lavoro vi sono dunque disoccupati e sottoccupati, inoccupati e plurioccupati, nonché una parte dei già occupati. Se questo è un «esercito», esso è pertanto ampio e multiuso, ma al contempo è abbastanza snello e ben dissimulabile. Al suo interno è segmentato e stratificato. Fra le molteplici figure sociali che lo compongono vi è una relativa benché discontinua fluidità, che attenua le differenze. Permane naturalmente una elevata soglia di accessibilità rispetto al sistema produttivo [16]
.
Tra lavoro e non lavoro si sono in sostanza incuneate mille forme di quasi lavoro, cosicché non si è più in presenza di soggetti semplicemente con oppure senza lavoro, tutti tradizionalmente noti, né con propensione al lavoro scontata. Oggi la stessa disoccupazione ha molto in comune con la sottoccupazione.
Di questo, che non è certo l’ennesimo «caso» italiano, il movimento operaio si è accorto tardi e male, nonostante avvisi e avvisaglie [17]
. Ma la cosa meno compresa è che quelle modificazioni sono frutto di spinte in cui entrano lavoratori e padroni, partiti borghesi e movimento operaio, «società civile» e Stato: quello Stato che si è fatto garante del diritto al lavoro e vestale della piena occupazione cercando innanzitutto di attutire l’impatto politico del problema, se non di disinnescarlo [18]
. Quello Stato non ha però agito da solo o nel vuoto. E pertanto non si può ricorrere alle spiegazioni antropomorfe che addebitano l’accaduto ai soliti demiurghi super-pianificatori, ai soliti Leviatani onnipotenti (tutti con la K del Kapitale), di cui il buon «sinistro» non può fare a meno per spiegarsi le cose e ricaricarsi l’animo.
Nel campo del lavoro, il diritto sopravvanzerebbe dunque il fatto se — per così dire — questo divario{p. 158} non venisse neutralizzato, più che colmato. In quali modi, si era già visto in precedenza. Quel che adesso resta da mettere in luce è come operano nel sottofondo le misure attraverso le quali vengono procurati, ad un’offerta di lavoro esuberante, posti e redditi di quasi lavoro [19]
. Si tratta di fenomeni ancora troppo trascurati, derivanti dalla tendenza a considerare come equivalenti, misure il cui costo economico è pari ma che ingenerano effetti sociali diversi, sebbene ispirati al medesimo intento.
Esemplare è in Italia il caso delle pensioni d’invalidità, accordate per una «ridotta capacità di guadagno», non di lavoro: motivazione che ricorda in modo così vivido la legislazione di Speenhamland [20]
. Ma vi sono anche i regimi speciali di integrazione economica: salario per le giornate non lavorate nell’industria, reddito per i prezzi non remunerativi nell’agricoltura; e i regimi speciali di occupazione politica: organici per gli enti paralleli in aggiunta a quelli dell’amministrazione pubblica da essi disattivati [21]
, posti dove spesso viene meno un corrispettivo di lavoro. Addirittura macroscopico è il caso dell’assistenza ai lavoratori agricoli e alle loro famiglie, condizionata all’effettuazione di un numero minimo di giornate lavorative, che viene però raggiunto sulla base di «elenchi» inattendibili e dichiarazioni inveritiere, con la più generale e sollecita complicità.
Queste e altre misure, che a volte si cumulano fra loro e che ovviamente si combinano con la classica indennità di disoccupazione, hanno quasi sempre intenti sacrosanti e costituiscono altrettanti pilastri dell’edificio chiamato legislazione sociale. Ma l’uso e il tempo ne hanno stravolto i significati specifici, e rivelano oggi la loro funzionalità complessiva. L’intrico che ne è sortito sarà infatti selvaggio, ma non è una macchina impazzita, così come non è neppure una manovra tutta calcolata [22]
. È un terreno di convertibilità fra lavoro, posto e sussidio. Una convertibilità manipolata più che regolata, giacché in nome del diritto al lavoro fini e mezzi si mescolano, dando luogo a uno scambio che è equivalen
{p. 159}te forse per l’Erario pubblico ma che è senz’altro ineguale per la bilancia sociale.
Note
[9] Cfr. la rassegna di Laura Balbo, Un «caso» di capitalismo assistenziale: la società italiana, in «Inchiesta», n. 28, luglio-agosto 1977, pp. 3 ss.
[10] L. Gallino, Politica dell’occupazione e seconda professione, in «Economia & lavoro», n. 1, gennaio-marzo 1975, p. 82.
[11] S. De Brunhoff, «Crisi capitalistica e politica economica», in AA.VV., La crisi dello Stato, Bari, De Donato, 1979, p. 126.
[12] Cfr. A. Touraine, La produzione della società, Bologna, Il Mulino, 1975, usa questa espressione alle pp. 293-316, ma in un contesto endogeno: molto meglio l’opposta lettura di un C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Milano, Etas Libri, 1977, o di un N. Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, Roma, Editori Riuniti, 1979. Come quadro di riferimento è indispensabile il saggio di M. Tronti in AA.VV., Stato e capitalismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 67-85.
[13] Non si tratta soltanto di rispondere mediando a «esigenze», a «bisogni» delle parti, ma anche di operare una razionalizzazione autogena della politica sociale: vedi gli spunti definitori di C. Offe, G. Lenhardt, Teoria dello Stato e politica sociale, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 39-40 e 45-6.
[14] L’Italia è uno di quei paesi che «al diminuire della popolazione agricola, non sono stati in grado di offrire un adeguato numero di occasioni di lavoro nell’industria», com’era stato possibile in paesi di prima industrializzazione: così G. Faustini, Il «paradosso della produttività» e le prospettive dell’occupazione in Italia, in «Politica ed economia», n. 6, novembre-dicembre 1979, pp. 86 ss.
[15] Questi due fattori assumono rilevanza interpretativa, circa la conflittualità sodale e la risposta statale, in E. Tarantelli, Il ruolo economico del sindacato, Bari, Laterza, 1978, pp. 34-9.
[16] Cfr. ad esempio: M. Reich, R. C. Edwards, D. M. Gordon (a cura di), Labor market segmentation, Lexington (Mass.), 1975; D. C. Heath, S. Bruno, The industrial reserve army, segmentation and the Italian labour market, in «Cambridge Journal of Economics», n. 3, luglio-settembre 1979, pp. 131 ss.
[17] Segnalo qui per tutti il noto saggio di A. Asor Rosa, ora in Le due società, Torino, Einaudi, 1978.
[18] Sulla funzione dei vari sistemi di relazioni industriali nello stimolare/ostacolare il pieno impiego dagli anni ’50 a oggi, cfr. ad esempio M. Salvati e G. Brosio, The Rise of Market Politics: Industrial Relations in the Seventies, in «Daedalus», n. 108, primavera 1979, p. 43 segg.
[19] M. Paci, Il mercato del lavoro, in Il Mondo contemporaneo. Storia d’Italia, II, La Nuova Italia, Firenze, 1979, parla di un’occupazione sia garantita che assistita, di cui vedono le lontane origini nella pianificazione sociale dello Stato fascista: cfr. le pp. 637-44.
[20] Cfr. la classica ricostruzione di K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1966, pp. 99-130, autore che ha voluto farci attenti proprio sulle conseguenze sotterranee dell’intervento statale nell’offerta di lavoro.
[21] Cfr. l’ultimo lavoro pubblicato del compianto D. Serrani, Gli enti paralleli (Isvi paper), Bologna, Il Mulino, 1978. Ho trattato il tema più diffusamente in A. Accornero, V. Visco, La selva degli stipendi (Isvi paper), Bologna, Il Mulino, 1978.
[22] Cfr. un’opera che affronta il problema senza pregiudizi: AA.VV., Sussidi, lavoro, Mezzogiorno, a cura di A. Becchi Collidà, Milano, Franco Angeli, 1978. Vedi le schiette conclusioni al recentissimo lavoro di E. Reyneri, La catena migratoria, Bologna, Il Mulino, 1980.