Giuseppe Antonelli, Giacomo Micheletti, Anna Stella Poli (a cura di)
Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c10
Se si escludono, infatti, coloro che hanno avuto un’adeguata formazione linguistica di livello universitario, sembrano {p. 103}prevalere tra i parlanti alcune vulgate che si stenta a mettere in discussione. Le conversazioni intorno alla lingua, che si svolgano dal vivo o, oggi più frequentemente, attraverso i social network, coinvolgono spesso emotivamente gli interlocutori, anche perché è difficile scindere lo strumento principale della nostra socializzazione dalle nostre personali esperienze di vita; le discussioni, tuttavia, affrontano quasi sempre gli stessi argomenti e mettono in evidenza opinioni sedimentate nel tempo e quasi mai verificate sul piano storico o scientifico. L’attenzione si focalizza soprattutto su tre questioni: la prima è la distinzione tra lingua e dialetto, per la quale si stenta curiosamente ad accettare che tutti i dialetti della penisola, e non solo alcuni, siano lingue [1]
. Si preferirebbe veder trionfare nel novero delle lingue solo i dialetti che vantano una storia prestigiosa, spesso segnata da un’importante tradizione letteraria, e raggruppare tutti gli altri sotto la denominazione, considerata di scarso valore, di «dialetto». I linguisti faticano a far capire che tutti i dialetti italoromanzi hanno una storia che discende dal latino e che tutti possiedono una propria autonoma grammatica, anche se rispetto all’italiano occupano uno spazio geografico minore e hanno possibilità di impiego molto più ridotte. Le altre due questioni riguardano la presenza sempre più avvertita dell’inglese e la correttezza o meno di espressioni, forme, costrutti sintattici per i quali raramente si è disposti ad abbandonare convinzioni irremovibili. La difesa di un solo dialetto sugli altri, il timore di ciò che viene dall’esterno, la ricerca di una norma assoluta sono indici di un legame autentico e forte con il proprio patrimonio linguistico? La risposta purtroppo non può essere pienamente positiva. Se il «si dice così e non così» appassiona molto più della storia della nostra lingua, della conquista faticosa e lenta ma ormai ben salda della sua modernità, dell’importanza di conoscere a fondo il suo lessico per poter leggere a pieno il mondo reale,
{p. 104}pensiamo che ci sia qualcosa da migliorare nella formazione e nella consapevolezza linguistica dei parlanti italiani.
Il bisogno di norma è legittimo, ma da un lato va riconosciuta la convivenza tra la norma dello standard, legata soprattutto alla scrittura alta e formale, e la norma sociale o implicita, sempre dipendente dal grado di accettazione della comunità linguistica; dall’altro va ridimensionato il peso della cosiddetta «norma sommersa» che, generata dalla tradizione scolastica, provoca dubbi e conflitti spesso ingiustificati [Serianni 1994; 2007; D’Achille 2011]. La preoccupazione per l’invadenza degli anglicismi sarebbe da incanalare lungo argini più solidi, ridimensionandone la pericolosità nella conversazione quotidiana e segnalandone al contrario le possibili, gravi conseguenze nei settori scientifici o nella comunicazione dei politici, degli amministratori e degli economisti. L’amore, infine, per il proprio dialetto va separato dalle difese campanilistiche e indirizzato verso lo studio e la conservazione, in una piena e pacifica convivenza della piccola e della grande patria: una convivenza che, con l’esecrabile eccezione del ventennio fascista, non solo non è stata negata ma ha caratterizzato una storia linguistica italiana di cui andare orgogliosi. Spetta, dunque, ai linguisti evitare di assecondare l’orizzonte d’attesa dei parlanti alimentando le risposte al «come si dice» o adattandosi alle paure e alle aspettative più diffuse.
Può un museo della lingua italiana riuscire a scardinare i luoghi comuni e a favorire nella nostra comunità parlante una nuova percezione linguistica? La risposta sarà affermativa solo se si eviterà l’eccesso di semplificazione: un luogo comune, infatti, nasce da un indebito processo di generalizzazione, dal ricondurre a unitarietà persone e azioni distinte da sfumature molteplici. La trasmissione delle conoscenze ha il dovere di rifuggire dalle semplificazioni riduttive, sia pure perseguendo con costanza la chiarezza dell’esposizione e la capacità del coinvolgimento. Se è vero che la divulgazione di contenuti complessi è molto più difficile della trattazione specialistica, è anche vero che il MULTI e il MUNDI non possono lasciar cadere questa sfida se vogliono dare un senso alla loro esistenza, e se vogliono includere tra i propri {p. 105}obiettivi l’estirpazione dei preconcetti, la correzione delle percezioni, la costruzione di un sentimento autentico verso la nostra lingua. Si tratta di una sfida estremamente audace e di un impegno oneroso, ma è sempre dall’audacia delle ambizioni e dal rigore dell’impegno che nascono le grandi innovazioni.
Note
[1] Sulle insidie di posizioni ripetute con grande frequenza soprattutto in rete, tali da costruire una sorta di «dialettologia parallela» scientificamente priva di fondamento, sono interessanti le considerazioni di De Blasi [2007; 2021].