Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c5
Questo decennio si è aperto con la riforma delle leggi sulle lavoratrici madri e sul lavoro a domicilio: due buone leggi protettive, nuove nei contenuti, ma legate, quanto ai modi di intervento, alla tradizione della legislazione sociale italiana. Nel giro di pochi anni tutta la disciplina giuridica del lavoro femminile, anche la più recente, sarà oggetto di polemiche e critiche radicali. Gli argomenti per discutere non mancano: alla vigilia della riapertura del dibattito, provocata dalla crescita impetuosa del movimento femminista e dall’intensificarsi delle iniziative parlamentari che questa crescita ha prodotto, molti problemi, e gravi, restano da risolvere. Primo fra tutti quello di dare compiuta attuazione all’art. 37 cost. [62]
. L’attenzione si concentra sul problema della parità di diritti: finalmente, perché a differenza di quanto era avvenuto per la parità salariale, le questioni della parità normativa erano state, nel passato, poco dibattute ed avevano scar
{p. 200}samente impegnato (talla eccezione per qualche problema occasionale) le lavoratrici ed il movimento sindacale. Ancora diversamente dalla parità salariale, la cui piena attuazione era stata rimessa, nei suoi aspetti fondamentali e per i maggiori settori produttivi, alla contrattazione collettiva (sugli sviluppi e le insufficienze della quale tornerò più avanti: infra, cap. VI) [63]
, le questioni principali, ancora aperte, della parità di diritti dovevano essere affrontate e risolte necessariamente in sede legislativa.
Nel dibattito che precede l’emanazione della legge n. 903/1977, due sono gli aspetti della parità normativa che vengono in evidenza: a) differenze di trattamento (trattamenti sfavorevoli alle donne), soprattutto in materia previdenziale (assegni familiari, pensionamento, prestazioni ai superstiti), giustificale in genere da ragioni di prevalenza economica degli uomini, ovvero di non indipendenza economica delle donne; b) differenze di trattamento, giustificate dalla considerazione separata del lavoro femminile, ereditata dal passato (specie fascista) o sancita, più di recente, da nuove leggi protettive (legislazione sul lavoro delle donne; lavoratrici madri; divieto di licenziamento per causa di matrimonio). Ambedue questi aspetti della parità normativa sono stati affrontali dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903: vedremo più avanti quali soluzioni sono state date, ma per ora conviene fermarsi ad una prima ricognizione delle questioni da risolvere.
Il problema maggiore, che l’esistenza nell’ordinamento delle disparità di trattamento di cui sub (a) e (b) pone, è quello di verificare se si tratti di due facce della stessa medaglia «discriminazione» (contraria all’art. 37 cost.), cioè se in ambedue i casi si sia di fronte a trattamenti sfavorevoli riservati alle donne come «categoria». In caso affermativo, è possibile una soluzione (eliminatoria) unitaria [64]
. In caso di risposta negativa, occorre invece valutare caso per caso la legittimità delle predette disposizioni: ma è necessario precisare che può darsi questo secondo tipo di risposte solo ove si intenda la parità, di cui all’art. 37, non come meccanica eliminazione di ogni trattamento diseguale riservato alle lavoratrici. ma come eliminazione di quei trattamenti che siano{p. 201} «sfavorevoli» (discriminatori) perché pongono in condizioni di inferiorità il lavoro femminile, ovvero che siano discriminatori perché fondati su una presunta inferiorità (naturale o sociale) delle donne di fronte al lavoro.
Partiamo dalle ipotesi raggruppate sub (a). Le differenze di trattamento, di cui si discute prima dell’entrata in vigore della legge n. 903/1977, sono quelle relative alle pensioni di riversibilità e agli assegni familiari, che spettano alle donne lavoratrici solo quando il marito sia inabile al lavoro (mentre spettano agli uomini, quando le mogli non prestino attività lavorative): e quelle relative alla diversa entità delle pensioni di invalidità e vecchiaia, derivante dal diverso sistema di calcolo adottato fino al 1 °gennaio 1969 e dal diverso limite di età per il collocamento a riposo (anticipato a 55 anni per le donne).
Le disposizioni di legge, che sanciscono tali differenze di trattamento, risalgono ad epoche diverse [65]
, ma la logica che le ispira si è conservata intatta nel tempo e al di sopra del mutamento di regime politico. Per giustificare la condizione di svantaggio riservata alle donne nei primi due casi (assegni familiari, pensioni di riversibilità), si è detto [66]
che il legislatore ha assunto, come «logico» contesto di riferimento, la «normale» situazione di fatto dell’uomo, «non inattivamente casalingo» [67]
. Se si vuole tradurre in termini più semplici questa giustificazione, si deve dire che il legislatore ha disconosciuto alla donna la qualità di capofamiglia anche quando ‒ di fatto ‒ lo è (come lo è, se mantiene col suo lavoro un marito disoccupato perché non trova lavoro o perché neppure lo cerca). Il legislatore ha dunque sancito una subalternità necessaria della moglie, che supera le ipotesi in cui l’assetto della famiglia e le strutture economico-sociali del paese impongono ad essa un ruolo subalterno. Il legislatore ha, inoltre, negato alla coppia il diritto di scegliere, se crede, o se ha necessità (per carichi familiari, ad esempio) che sia uno solo a lavorare, chi dei due debba farlo.
Non meno rozza nella sostanza è la giustificazione, elaborata dalla corte costituzionale [68]
, della disparità di trattamento che deriva alle donne dalla diversa età del pensionamento. In una sentenza assai nota, la corte ha affermato che{p. 202} non sono arbitrarie le valutazioni tecniche del legislatore in relazione alla struttura, alla capacità, alla resistenza al lavoro delle donne, che si comprendono nel termine «attitudine». Di conseguenza, non contrasta con il principio di eguaglianza la previsione, nella legge, di un’età diversa (e inferiore) per il collocamento a riposo delle lavoratrici. Secondo la corte, inoltre, la fissazione di un limite, oltre il quale la donna non può essere distratta dalle cure della famiglia, ed a questa deve essere restituita (con l’apporto della pensione), costituisce valida attuazione di quell’esigenza di tutela dell’essenziale funzione familiare della donna, chiaramente espressa dall’art. 37 cost.
Giustificazione rozza, dicevo: infatti, nessuno nega che vi siano casi in cui il «diritto» al pensionamento anticipato possa essere considerato un trattamento di maggior favore; come nessuno nega (credo) che la fatica maggiore a cui è sottoposta la lavoratrice (la quale, normalmente, svolge un doppio lavoro) renda ragionevole un trattamento diverso rispetto agli uomini. Ma queste ovvie considerazioni non servono a rendere accettabile la motivazione della corte. In primo luogo, si deve infatti rilevare che la disposizione sul collocamento a riposo delle donne non conferisce loro un diritto di scegliere per i 55 anni (anziché per i 60, come gli uomini), ‒ cosa che sarebbe «ragionevole» ‒ ma impone un obbligo, che restringe la libertà e determina conseguenze (anche economiche) sfavorevoli. In secondo luogo, la legge non si preoccupa di «restituire» la lavoratrice alla famiglia, fra l’altro perché questa restituzione forzata avverrebbe nel momento in cui alla famiglia serve meno. A prescindere dalla considerazione che nulla, e meno che mai l’art. 37 cost., autorizza il legislatore ad intendere la salvaguardia della funzione familiare come imposizione alla donna di compiti, che essa può non desiderare di svolgere, o neppure avere da svolgere, la corte, per chiarezza, avrebbe dovuto dire che la norma sul collocamento a riposo delle lavoratrici si muove nell’ambito della politica legislativa di disponibilità dei posti di lavoro, e provvede ad espellere per prime le persone che suppone meno produttive (appunto le donne anziane) [69]
. La logica del pensionamento anticipato non è diversa dalla logica{p. 203} che ispira la mancata applicazione della legge sui licenziamenti individuali ai lavoratori che abbiano diritto alla pensione (art. 11 L. n. 604/1966) [70]
; una norma crudele, se si vuole, sulla ragionevolezza della quale non è tuttavia il caso di discutere. Restano da discutere invece, malgrado le argomentazioni in contrario della corte costituzionale, le negative conseguenze (non solo economiche) che derivano alle lavoratrici dal coatto pensionamento anticipato. Che queste negative conseguenze sono irragionevoli e perciò discriminatorie, lo hanno affermato molti dei giudici di fronte a quali si è, di recente, discussa la questione della diversa età del pensionamento delle donne, sotto il profilo della libertà di recesso del datore di lavoro. Prima che l’art. 4 della legge n. 903/1977 risolvesse il problema, lasciando alla lavoratrice la scelta se continuare o meno a prestare la propria opera [71]
, numerose ordinanze hanno rimesso alla corte costituzionale la questione di legittimità dell’art. 11 della legge n. 604/1966 in relazione alle norme che regolano i requisiti di età per avere diritto alla pensione, nella parte in cui il predetto art. 11 L. n. 604 offre una minore tutela alla donna lavoratrice rispetto all’uomo, assicurando la stabilità del rapporto fino al 55° anno di età e non fino al 60° [72]
.
Ora che la legge ha dettato la nuova, auspicata, norma sul pensionamento delle lavoratrici, non interessa più seguire gli sviluppi di questa vicenda interpretativa; di notevole c’è solo il ritardo con cui giuristi e legislatore si sono accorti di una discriminazione tanto lampante. L’osservazione vale, a maggior ragione, per le altre norme (ricordate sopra) che riservano alle donne un ingiusto trattamento sfavorevole. Il rispetto del principio della parità di diritti, sancito dall’art. 37 cost., imponeva al legislatore di abrogare quelle norme, anziché conservarle, e di sostituirle con nuove disposizioni che equiparassero senz’altro il trattamento delle lavoratrici a quello dei lavoratori. Ma solo coll’emanazione della legge n. 903/1977 il legislatore ha provveduto ad abrogare le vecchie disposizioni discriminatorie e ad eguagliare il trattamento delle donne relativamente: agli assegni familiari, le aggiunte familiari e le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico (art. 9): alle prestazioni ai superstiti, erogate sia dall’assi{p. 204}curazione obbligatoria di invalidità e vecchiaia (art. 11), sia dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (art. 12). Un ritocco «eguagliarne» ha subito anche l’art. 205, lett. b, D.P.R. 30giugno 1965, n. 1124, dove la parola «moglie» è stata sostituita dalla parola «coniuge» (art. 10). [73]
L’evidente carattere discriminatorio delle norme che ho raggruppato sub (a) non ha abbreviato, ma certo ha agevolato la strada della loro eliminazione dal nostro ordinamento. Assai più complessa si presenta invece l’indagine sul significato discriminatorio delle leggi di tutela (o protettive) che ho raggruppato nell’ipotesi (b). L’interesse è essenzialmente concentrato sulla legge n. 653/1934, per la parte che regola il lavoro delle donne [74]
. Nessuno discute invece sull’opportunità della legge 9 gennaio 1963, n. 7 [75]
, che, motivata al tempo dell’emanazione dalla necessità di risolvere il grave problema delle cosiddette «clausole di nubilato», conserva ancora il valore (non solo simbolico) di freno al licenziamento delle lavoratrici, pure nell’ambito della mutata (e assai più restrittiva) disciplina dei licenziamenti (retro, cap. IV, par. 4). Ugualmente, ma per ragioni diverse, nessuno qualifica «discriminatorio» il trattamento particolare riservato alle lavoratrici madri, anche se la protezione della maternità rende il lavoro delle donne più oneroso, per il datore di lavoro, di quello maschile: benché taluno critichi l’eccessiva rigidità del lavoro femminile prodotta dalla legge di tutela [76]
, valgono, per questa legge, le considerazioni svolte a proposito delle modifiche introdotte con la legge n. 903/1977.
Per quanto riguarda la legge n. 653 del 1934, mentre in passato era stata talvolta denunciata l’inadeguatezza o insufficienza dei limiti e dei divieti previsti (lavori nocivi, insalubri e pericolosi; lavoro notturno e a turni) [77]
, è relativamente nuova la lettura in chiave discriminatoria (o di super-protezione) delle restrizioni che tale legge pone all’utilizzazione del lavoro femminile [78]
. Gli argomenti, che sostengono tale lettura, possono essere così riassunti: a) i limiti e i divieti, di cui alla legge del 1934, sono fondati sul consolidato pregiudizio della inferiorità delle donne; b) le norme restrittive di
{p. 205}sincentivano l’occupazione femminile, perché introducono un’eccessiva rigidità nell’utilizzazione del lavoro, che è una concausa della flessione dei tassi di attività femminile: la rigidità ‒ si afferma ‒ viola, nei fatti, il diritto al lavoro delle donne, e le ostacola nel raggiungimento della parità sostanziale [79]
.
Note
[62] Sono numerosi i disegni e le proposte di legge presentati dalle varie forze politiche; domina tutti il tema delle discriminazioni, ispirato dalla legislazione antidiscriminatoria inglese e nord-americana. Solo il disegno di legge governativo (la cui responsabilità va a Tina Anselmi, allora ministro del lavoro) si caratterizza per la delimitazione del suo ambito alla parità in materia di lavoro. I disegni e le proposte di legge sono stati raccolti e commentati da F. Albisinni, Verso una legge italiana per l’effettiva eguaglianza fra i sessi, in «Rivista giuridica del lavoro», quad. n. 1, luglio 1977, Questione femminile e legislazione sociale, pp. 103 seg.; le leggi inglesi, statunitensi e francesi sono riportate da T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., appendice 2, pp. 198 seg. Per un aggiornamento del dibattito in Francia, v. il numero speciale di «Droit social», gennaio 1976, Lesfemmes et le droit social, e ivi specialmente i contributi di E. Sullerot, J.M. Combette, M. Devaud, pp. 20 seg.
[63] Prima dell’entrata in vigore della legge n. 903/1977 molte questioni erano ancora aperte nel pubblico impiego; per qualche ragguaglio v. A. Saracina, La donna nel pubblico impiego, in La donna e il diritto, cit., pp. 147 seg.
[64] È questa la strada imboccata dal disegno di legge governativo e poi dalla L. 9 dicembre 1977, n. 903, sia pure con le cautele di cui parlerò più avanti. Infra, VI.
[65] Le leggi emanate nel dopoguerra riportano, per quanto riguarda il trattamento delle lavoratrici, pressoché integralmente le disposizioni risalenti al periodo fascista. Ricostruisce accuratamente la situazione legislativa T. Tranquillo, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub artt. 9, 10, 11, 12, pp. 813 seg., cui può farsi rinvio.
[66] G. Pera, La condizione della donna lavoratrice, cit., c. 67; l’a. riformula, come ragionamento giuridico, una concezione molto diffusa sulla divisione dei ruoli maschile e femminile nella famiglia e nella vita sociale.
[67] L’espressione è di G. Pera. loc. ult. cit.
[68] Corte cost., 11 luglio 1969, n. 123, in «Foro italiano», 1969, I, c. 1626; qualche osservazione critica sulla sentenza è formulata da E. Grassi, Collocamento a riposo ed art. 37 cost.: un problema ancora aperto, in «Giurisprudenza costituzionale», 1970, pp. 1701 ss. La corte costituzionale (15 luglio 1969, n. 137) ha affrontato il problema del pensionamento anticipato anche sotto il profilo della diversa valorizzazione percentuale dei contributi assicurativi versati ai fini della misura della pensione spettante alle donne; la soluzione è stata negativa, come nel primo caso.
[69]L’anticipato pensionamento delle donne si rivela, inoltre, utile, poiché consente il riciclaggio della lavoratrice anziana in funzione di asilo nido (gratuito) per i nipoti; di assistenza, gratuita e domiciliare ai vecchi, ecc. Tutte cose che fanno risparmiare allo stato e agli enti locali parte dei fondi necessari a impiantare e far funzionare questi servizi sociali.
[70] A proposito dell’art. 2 L. 4 aprile 1952 (che modifica l’art. 9 R.D.L. n. 636/1939) il relatore di maggioranza aveva affermato che, nella fissazione del limite di età per il collocamento a riposo, si era tenuto conto della situazione economico-sociale del paese, influenzata dalla permanenza di una forte disoccupazione; lo scopo era quello di ridurre il numero dei lavoratori già occupati, a favore delle nuove leve giovanili. Sottolinea giustamente la funzione della norma sul pensionamento anticipato G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice, cit., p. 173.
[71] V. Kart. 4 L. 9 dicembre 1977, n. 903, e il commento di S. Sciarra, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub art. 4, pp. 802 seg. L’art. 4 della legge n. 903 crea un’indubbia situazione di vantaggio per la lavoratrice, che può scegliere se continuare o meno a prestare la propria opera oltre il 55° e fino al 60° anno di età (o fino ad un’età intermedia, se crede). Qualcuno ha già dubitato della costituzionalità della norma, che non offre agli uomini le chances che offre invece alle donne: così C. Filadoro (a cura di), Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, Milano, 1978, p. 23. Le ragioni per cui la questione di costituzionalità mi pare del tutto infondata le ho spiegate nel testo.
[72] V. le ordinanze: Pret. Milano, 3 dicembre 1977, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978, II, p. 1012; Pret. Genova, 18 novembre 1977, e Pret. Bologna, 21 ottobre 1977, ivi, 1978, II, pp. 13 seg.; Pret. Voltri, 1° settembre 1977; Pret. Napoli Barra, 30 maggio 1977; Pret. Pavia, 14 marzo 1977; Pret. Milano, 17 dicembre 1976, ivi, 1977, II, pp. 639 seg. Di contrario avviso la Cass., 8 gennaio 1977, n. 58, ivi, p. 639. Le ordinanze cit. dei pretori di Pavia, Voltri, Bologna, pongono il problema della possibilità di emanare il provvedimento d’urgenza contestualmente all’ordinanza di rimessione alla corte costituzionale: v., in proposito, S. Vacirca, “Licenziamento anticipato” della donna, questione di costituzionalità e provvedimento ex art. 700 c.p.c., ivi, 1977, II, pp. 652 seg.
[73] Per il commento a queste norme v. T. Tranquillo, loc. ult. cit.
[74] Il lavoro dei fanciulli è stato regolato con la legge n. 977/1967, e relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 20 gennaio 1976, n. 432). La legge introduce (ma meglio conferma le passate) diseguaglianze nel trattamento delle donne, quali: la superiore età (18 anni) per il divieto di adibizione a lavori pesanti, pericolosi e insalubri e, inoltre, i lavori di pulizia e servizio dei motori; diversi livelli di età nel trasporto e sollevamento dei pesi. Tali diseguaglianze, già segnalate da C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 28, sono state eliminate dalla legge n. 903/1977: ad avviso del ministero del lavoro, circolare n. 92/78 del 29 dicembre 1978, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978,1, pp. 933 seg., tutte le citate disposizioni della legge sul lavoro dei fanciulli devono ritenersi applicabili fino a sedici anni di età per i giovani di ambo i sessi. Secondo l’interpretazione ministeriale, l’eguagliamento avviene a vantaggio delle adolescenti, fino ad ora discriminate in base al sesso. Trattandosi però di norme che, secondo lo stesso ministero, sono dettate a tutela dello sviluppo fisico e psichico dei giovani, c’è da chiedersi se il risultato sia effettivamente vantaggioso, per la salute delle giovani lavoratrici.
[75] Come ho ricordato (retro, IV, par. 4) qualche dubbio solleva G. Pera, La condizione della donna lavoratrice, cit., che ritiene eccessivamente drastico il rimedio adottato dal legislatore.
[76] R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento ira uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub art. 7, p. 811.
[77] C. Assanti, I principi costituzionali per la tutela del lavoro femminile e minorile, cit., pp. 365 seg.; l’a. critica la tendenza della legislazione a considerare unitariamente il lavoro femminile e quello minorile, e ad imporre limitazioni di attività alle donne.
[78] G. Pera, op. ult. cit., aveva sostenuto cose analoghe a quelle dette più recentemente da T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 91 seg. Qualche accenno anche in G. Cottrau, op. cit., p. 124, che esclude il carattere discriminatorio delle norme limitative del lavoro femminile solo quando rispondano ad esigenze di carattere fisiologico della donna.
[79] T. Treu, loc. ult. cit. La tesi è condivisa da F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit.; la dimostrazione fornita da questa a. mi pare eccepibile almeno sotto il profilo dell’ipervalutazione della tutela legislativa del lavoro femminile.