Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/p1

Prefazione

Il libro di Stefano Daniele affronta un tema affascinante quanto impegnativo: il potere dell’immaginazione in epoca moderna. Si tratta di uno snodo fondamentale. Le concezioni tradizionali dell’immaginazione, ereditate dall’antichità medica e filosofica, avevano conosciuto profonde ma non sostanziali trasformazioni nell’incontro della cultura classica con la rivelazione cristiana; in seguito in periodo medievale, con la rinascita aristotelica e l’apporto arabo, avevano trovato una sistemazione teologica fondamentale con Tommaso, per essere poi riprese e sistematizzate con l’umanesimo fiorentino di Marsilio Ficino e Giovanni e Gianfrancesco Pico della Mirandola nel crogiuolo filosofico-religioso dell’Accademia platonica.
L’immaginazione era un luogo dove tutto poteva succedere, in cui si poteva avere una visione mistica del mondo divino e dei suoi abitanti, ma anche, come insegna la caccia alle streghe, dove potevano insediarsi le potenze diaboliche. E, comunque, il suo regno era vasto: anche se si rimaneva nei confini della magia naturale, come aveva tentato di fare G. Della Porta, era in fondo l’immaginazione che permetteva l’accesso al meraviglioso, ai fenomeni straordinari, ai monstra et portenta. Tipica facoltà di mediazione tra natura e quella che il cristianesimo aveva insegnato a chiamare soprannatura, l’immaginazione (e con lei la fantasia, che gli antichi tendevano a non distinguere) regnava sovrana in questo intermondo.
La rivoluzione scientifica, il meccanicismo, il passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito, non per ultimo il dualismo cartesiano misero in crisi questo statuto privilegiato. Da questa crisi radicale l’immaginazione doveva uscire profondamente ridimensionata.{p. 8}
Per studiare questo tema complesso Daniele sceglie un oggetto a prima vista singolare: un processo di beatificazione. L’area geografica che prende in considerazione è il Regno di Napoli, l’arco cronologico va da fine Cinquecento, quando ormai i decreti del Tridentino cominciano a essere applicati in modo sistematico e, di fronte alla critica radicale dei protestanti, si decide di regolarizzare le procedure dei processi di canonizzazione, a metà Settecento, quando si può dire concluso il processo canonico che l’Autore, in una tipica prospettiva di microstoria, ha scelto come base documentaria e ormai il razionalismo illuministico sta diventando egemone. In questo periodo, come Daniele mostra in modo convincente esaminando la documentazione in suo possesso in parte inedita, in parte ignota ai più, i confini tra ordine naturale e ordine soprannaturale vengono ridefiniti dal confronto del pensiero cattolico col meccanicismo e il razionalismo moderni. Ne uscirà, di conseguenza, profondamente mutata anche la concezione dell’immaginazione e dei suoi poteri.
Il titolo del libro rimanda ai tre protagonisti. Il santo è Francesco Caracciolo (1563-1608), appartenente all’aristocrazia napoletana, fondatore, insieme a Giovanni Agostino Adorno (1551-1591) e Fabrizio Caracciolo (1555-1615), anch’essi di nobili natali, dell’ordine dei chierici regolari minori istituito a Napoli nel 1588, nel clima di restaurazione cattolica successivo al Concilio di Trento. Dal momento, però, che soltanto Francesco fu innalzato agli onori degli altari, fu lui a essere ritenuto il fondatore principale, come conferma il nome dei religiosi dell’ordine, «caracciolini». Dopo la sua morte, secondo pratiche diffuse nella santità barocca napoletana, Francesco conobbe forme di devozione da parte del popolo ritenute eccessive, pericolose e devianti dal Magistero. Proprio in quel torno d’anni, infatti, il papato stava cercando di regolamentare i processi di canonizzazione con procedure di controllo razionale e giuridico, istituendo un iter complesso in cui un ruolo sempre più importante, per la certificazione dei miracoli, veniva ad assumere la scienza, nella fattispecie il parere di medici autorevoli chiamati ad attestare, nei vari casi di guarigioni miracolose attribuite {p. 9}all’intervento del beato o santo di turno, l’intervento del «dito di Dio», l’unico in grado di vincere malattie che la scienza medica del tempo giudicava inguaribili.
Come ogni nuovo ordine religioso sorto in periodo postridentino, anche i caracciolini cercarono di sfruttare la devozione popolare, di cui il loro fondatore continuava a essere circondato, per impostare una causa di beatificazione di Francesco Caracciolo che, salvo casi eccezionali, in epoca moderna, in conseguenza del nuovo e complesso iter, poteva durare anche secoli. Accanto alle virtù eroiche, l’attestazione di guarigioni miracolose diventava un prerequisito indispensabile. E queste ultime furono, non a caso, al centro del processo oggetto dell’analisi minuziosa e illuminante condotta dall’Autore, che si svolse a Napoli nel 1753. All’epoca, erano trascorsi ormai molti anni dall’inaugurazione della causa e cioè dalla fase ordinaria di pertinenza del vescovo della diocesi. Infatti, una prima indagine super fama era stata condotta a Napoli nel 1676, a cui ne erano seguite altre due, rispettivamente negli anni 1694-1699 e 1702-1703. Si era così potuti infine passare all’inaugurazione della fase apostolica, di competenza della Curia, che doveva esaminare le virtù eroiche, cardinali e teologali del candidato alla beatificazione, quindi i miracoli compiuti per sua intercessione (che erano passati nel frattempo da due a quattro: la lunghezza di questo iter, infatti, rendeva sempre più difficile prendere nella debita considerazione le virtù eroiche del candidato dal momento che nel frattempo i testimoni oculari erano defunti). Il trascorrere del tempo e il protrarsi dell’agognato riconoscimento non aveva certo fermato l’insistente ricerca dei caracciolini di vedere beatificato il loro fondatore.
È a questo punto che entra in scena il chierico, e cioè Carlo de Vivis, un caracciolino di cui l’Autore ricostruisce, nel I capitolo, la guarigione da una grave malattia avvenuta nel 1752, che il de Vivis attribuì all’intervento straordinario del fondatore. Nella storia dell’ordine questa guarigione acquistò fin da subito un ruolo strategico: se la sua natura miracolosa fosse stata dimostrata anche da un punto di vista scientifico, si sarebbe potuto acquisire quel quarto e {p. 10}decisivo miracolo di cui l’ordine aveva bisogno per portare avanti con successo la causa di beatificazione.
Entra a questo punto in scena il terzo protagonista del nostro racconto, il medico Vincenzo de Iorio, un’autorità nel campo della medicina napoletana. Nel delicato processo di accertamento della vera natura della guarigione, ormai a metà del Settecento il giudizio della medicina ufficiale era diventato dirimente. Esaminando con acume e cognizione di causa i documenti processuali, l’Autore si apre a questo punto a una prospettiva nuova e promettente, in cui storia delle idee, della cultura e della scienza si intrecciano in modo fecondo. Entriamo, così, nel vivo di un processo ricostruito con grande cura ma anche con una verve e una scrittura agile ed efficace, che riescono a drammatizzare in modo felice lo scontro dei protagonisti. Il risultato finale è noto: la guarigione del de Vivis non fu attribuita, come l’«avvocato del diavolo» aveva sostenuto, ai poteri dell’immaginazione del guarito, ma unicamente all’intervento miracoloso del fondatore: era così finalmente aperta la via per quella beatificazione che fu proclamata da papa Clemente XIV il 10 settembre 1769 (il Caracciolo fu poi proclamato santo da Pio VII il 24 maggio 1807). Per il de Iorio, infatti, la guarigione del de Vivis non poteva essere stata operata dalla sua vis imaginativa, dal momento che era stata istantanea e, in quanto tale, tenuto conto della diagnosi della sua malattia, non poteva rientrare nei canoni delle possibilità naturali in cui si riteneva agisse l’immaginazione. A metà del Settecento, infatti, come Daniele documenta, l’immaginazione era stata privata ormai di quegli «eccessi magico-metafisici di cui la tarda antichità e la prima modernità l’avevano rivestita. Tagliati via concetti come “raggi spirituali” – che, si credeva, uscissero dagli occhi e andassero ad agire sulla realtà circostante – o delle già citate “qualità occulte”, l’immaginazione ne risultava scarnificata e ridotta a non più che un meccanismo».
Dietro questa disamina efficace di un caso particolare si cela un importante cambiamento più generale gravido di conseguenze. Attraverso l’analisi penetrante della documentazione processuale, infatti, l’Autore individua ed esplicita {p. 11}un mutamento a metà Settecento degli schemi culturali e delle mappe mentali, che vale certamente per Napoli ma ha in realtà un valore emblematico più generale. Soprattutto con papa Lambertini, infatti, la Chiesa della prima metà del XVIII secolo aveva ormai aderito al dettato di una «medicina razionale» che, pur facendo propria la visione meccanicistica di Cartesio e Gassendi, non rinunciava a «anime, spiriti e pneumi». Una medicina che tentava di conciliare antichi e moderni; che epurava le filosofie del passato da un magismo non più sostenibile, poiché non più ragionevole (secondo un’idea di ragione valida in quel momento) e, «al tempo stesso, spunta[va] le armi teoriche dei moderni per darsi un facile smalto d’aggiornamento». Si veniva così a creare una dicotomia natura-sovranatura, che permetteva la coesistenza della spiegazione naturale della malattia e l’eccezione del miracolo: una coabitazione destinata a durare ancora a lungo.
Giovanni Filoramo