Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c8

Capitolo ottavo La salute: il declino del territorio e l’ascesa del mercato
di Lavinia Bifulco, Emanuele Polizzi e Vanessa Mascia Turri

Notizie Autori
Lavinia Bifulco è professoressa ordinaria di Sociologia presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di politiche di welfare, teorie dell’azione pubblica, governance e partecipazione sociale, innovazione sociale e istituzionale, gestione delle emergenze in campo sanitario, filantropia. Fra le sue pubblicazioni recenti, Handbook of Public Sociology (con V. Borghi, a cura di, 2023).
Notizie Autori
Emanuele Polizzi è professore associato di Sociologia generale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca. Svolge attività di ricerca e didattica sui sistemi locali di welfare, sulla governance locale e dell’azione pubblica della società civile.
Notizie Autori
Vanessa Mascia Turri , PhD in URBEUR – Studi Urbani, è ricercatrice post-doc presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la governance dei servizi pubblici locali e dei servizi sociosanitari, le politiche pubbliche comunitarie, l’azione pubblica della società civile e le organizzazioni del Terzo settore.
Abstract
Questo capitolo affronta i problemi strutturali della sanità pubblica e dellʼassistenza sanitaria in Italia portati in primo piano dalla pandemia. Lʼanalisi delinea un quadro di generale indebolimento e frammentazione del diritto alla salute e di impreparazione nei confronti dellʼemergenza, caratterizzato innanzitutto dal disinvestimento nei servizi e nel personale, da disuguaglianze connesse alla regionalizzazione e dal peso crescente delle logiche di mercato.

1. Il quadro dei problemi

La pandemia ha portato drammaticamente in primo piano i problemi strutturali dell’assistenza sanitaria in Italia, in particolare per quanto riguarda la prevenzione, le cure primarie e territoriali. Come è noto, il respiro fortemente innovativo della riforma del 1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale (l. 833) è legato congiuntamente al disegno di un impianto universalistico – inedito in Italia – che ha riconosciuto la salute come un diritto di cittadinanza, e alla centralità attribuita ad assetti territoriali di governo e gestione dei servizi. Il territorio da questo punto di vista si configura come un dispositivo in grado di convertire i diritti sociali alla salute in servizi e beni effettivamente godibili, proprio perché ne fa precipitare l’esercizio alla scala locale, cioè alla scala della prossimità fra servizi e cittadini.
Oggi la situazione è molto lontana da quanto aveva prefigurato una fra le riforme più avanzate del mondo. Nel corso degli anni Novanta i processi di marketization e managerializzazione hanno profondamente modificato le architetture istituzionali e organizzative. Dopo la crisi finanziaria ed economica del 2007, le politiche di austerità hanno aggravato la situazione relativa alle risorse. Gli eventi pandemici sono dunque solo gli ultimi di una serie di fattori critici, rendendo evidenti limiti strutturali e di lungo periodo. Particolarmente eloquenti in proposito sono i dati sulle risorse. La spesa sanitaria pubblica in Italia si rivela da tempo poco generosa se comparata con quella di altri paesi europei. Secondo i dati OECD [2020], {p. 142}nel 2018 era pari al 6,5% del PIL, inferiore a quella di Francia, Germania e Regno Unito. Per di più, la distanza è cresciuta nel tempo. Nel 2009 le differenze assolute sulla spesa pubblica tra l’Italia e gli altri paesi del G7 erano modeste ma negli anni successivi sono decisamente aumentate: se nel 2009 la Germania investiva solo il 50,6% in più dell’Italia, nel 2020 la differenza raddoppia [Gimbe 2022; Bifulco e Neri 2022].
Da tempo è in corso un vero e proprio «definanziamento» [Gimbe 2022]: fra il 2010 e il 2019 la sanità pubblica ha perso oltre 37 miliardi di euro. Nel decennio 2010-2019 il Fondo sanitario nazionale è aumentato di 8,2 miliardi di euro ma questo equivale a una crescita media dello 0,9% annuo, un tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,15% [ibidem].
La scarsità delle risorse significa, ovviamente, scarsità di posti letto e di personale. Nel 2018 i posti letto ospedalieri risultavano pari a 3,1 per 1.000 abitanti, un valore molto più basso di Germania (8,0) e Francia (6,0). Quanto al personale, dal 2010 al 2017 è diminuito di ben 21.813 unità [Bifulco e Neri 2022]. Il principale sindacato dei medici ospedalieri ha previsto da tempo una crescente carenza di medici. Problema che in alcune aree del paese ha già causato una drammatica insufficienza di medici di base e di pediatri. La riduzione del personale ha riguardato principalmente il personale a tempo indeterminato, mentre è aumentato il personale a tempo determinato. La scarsità di risorse ha ripercussioni molto problematiche, ovviamente, sulle condizioni di lavoro [Neri 2020a] e sulla disponibilità di personale, come confermano le notizie attuali su concorsi per medici e infermieri che vanno deserti.
È in questo quadro che aumenta la cosiddetta povertà sanitaria in Italia. Secondo l’Osservatorio sulla povertà sanitaria [2022] fra il 2019 e il 2020 le famiglie povere che hanno rinunciato a visite e ad accertamenti diagnostici per ragioni economiche sono aumentate del 27%.
Formalmente la stagione dei tagli alla sanità dovrebbe essere terminata grazie al maggior finanziamento disposto a seguito dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, le risorse sono {p. 143}state di fatto assorbite dalla gestione della situazione pandemica. E il definanziamento pubblico continua. Stando a quanto previsto dall’ultimo Documento di Economia e Finanza, nel 2025 il rapporto spesa sanitaria/PIL calerà al 6,2%, cioè al di sotto dei livelli pre-pandemia [Gimbe 2022]. Se si considera la spesa sanitaria in termini reali, aggiustata per l’inflazione, la situazione è ancora peggiore e anche l’aumento negli anni della pandemia viene azzerato.
La riduzione delle risorse è una tendenza di lungo periodo, legata alle politiche di austerità adottate dopo la crisi del 2007 e ancor prima alle revisioni della l. 833/1978 attuate negli anni Novanta che hanno introdotto due meccanismi regolativi inediti in Italia: la separazione fra funzioni di programmazione, finanziamento e controllo; la competizione amministrata, cioè forme di mercato regolate dall’autorità pubblica – i c.d. «quasi-mercati». A ciò si accompagna, sul piano organizzativo, il New Public Management (NPM) che ha applicato i modelli di gestione aziendale alle amministrazioni pubbliche.
Lo sviluppo dei quasi-mercati si è tradotto da un lato nella razionalizzazione e nella riduzione delle risorse pubbliche, dall’altro lato nella privatizzazione della spesa – relativa alle risorse attribuite alle strutture private accreditate – sia pure a livelli differenti a seconda delle Regioni (con una media nazionale che nel 2020-2021 si attesta al 21% [Montella e Mostacci 2023]).
Tutto ciò ha pesantemente concorso al declino della sanità territoriale e preventiva. Come sottolinea Neri [2020b], l’Italia è stato fra i primi paesi europei ad adottare un meccanismo di rimborso ai fornitori di tipo tariffario (i DRG) che incentiva fortemente le prestazioni ospedaliere e rende meno remunerative, dunque scoraggia, le attività preventive e quelle con una maggior componente sociale e territoriale. Quanto all’aziendalizzazione, essa ha significato il primato di logiche di massimizzazione della produttività a scapito della prevenzione e promozione della salute.
A finalità di razionalizzazione della spesa pubblica va ricondotta anche l’architettura di base del sistema ospedaliero, basata sulla concentrazione in grandi strutture e sull’accor{p. 144}pamento o chiusura delle strutture più piccole. Alcune aree territoriali del nostro paese interessate da queste strategie sono state private di servizi essenziali per la salute [ibidem].
Pur caratterizzando l’intero quadro nazionale, queste dinamiche assumono forme differenti a seconda dei contesti regionali. Il sistema lombardo spicca per la sua forte caratterizzazione di mercato ed è anche orientato a privilegiare l’assistenza ospedaliera rispetto ai servizi territoriali. Altri sistemi, come quello emiliano e toscano, mostrano una minore propensione pro-mercato e al contempo una distribuzione territoriale dei servizi più ampia e integrata con il sistema ospedaliero.
La regionalizzazione è, di fatto, un’altra dinamica chiave in questo quadro, culminata nella riforma del Titolo V della Costituzione, che ha riconosciuto alle Regioni nuovi poteri nell’organizzare il proprio sistema di salute lasciando in capo allo Stato solo la prerogativa di definire i «livelli essenziali di assistenza» (LEA) ossia l’insieme delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale. Si può dire, molto sinteticamente, che non si può comprendere la sanità italiana senza fare i conti con il ruolo delle Regioni. Il che implica, come è noto, problemi di disuguaglianza territoriale e il rischio che si rafforzino antichi squilibri. Basti pensare alla spesa sanitaria pro-capite: a fronte di una media annua nazionale di 44,4 euro, quella nel Nord-Est è di 76,7 euro, quella nel Sud Continentale di 24,7 euro, al Centro e al Nord-Ovest i dati sono molto vicini alla media [Viesti 2021].
Questo scenario è tutt’altro che lineare e vi ritroviamo sia rivendicazioni regionali di autonomia, oggi particolarmente agguerrite, sia tendenze alla ricentralizzazione mosse da finalità di controllo della spesa. In ogni caso, la marketization così come la privatizzazione ne costituiscono dei tratti distintivi. Si pensi allo sviluppo dei fondi integrativi – favorito dalle lunghissime liste d’attesa nei servizi pubblici – che finiscono con l’erogare tendenzialmente prestazioni sostitutive e non integrative, con effetti di elevata eterogeneità delle prestazioni a seconda del settore e della condizione lavorativa [Bifulco e Neri 2022]. Si pensi anche alla crescita {p. 145}in parallelo della spesa out of pocket, cioè della spesa che i cittadini sostengono per fruire dei servizi sanitari privati, spesso proprio per l’impossibilità di accedere in tempi appropriati a quelli pubblici.
La scarsità delle risorse pubbliche è stata una causa decisiva di impreparazione rispetto alla pandemia. Di fatto, i paesi più dotati di personale, letti, dispositivi hanno contenuto di più la diffusione dei contagi e, soprattutto, il numero dei casi più gravi e dei decessi. In Italia, ma anche in Spagna e nel Regno Unito, più poveri di risorse rispetto ad altri paesi, gli esiti sono stati peggiori.
Altre questioni, collegate, riguardano le architetture organizzative consolidate nel solco del NPM. Le ricerche condotte su alcuni paesi hanno evidenziato l’importanza di fattori quali lo «slack» o il «buffering» [Froud et al. 2020]. Gli ospedali e i servizi che hanno operato peggio sono quelli organizzati rigidamente secondo modelli privi di «buffering» per quanto riguarda la disponibilità di posti letto, dispositivi di protezione individuale, personale, cioè privi dei cuscinetti necessari ad assorbire un’ondata di pandemia. Strutture prive di «buffering» sono intrinsecamente fragili e in estrema difficoltà nel reagire a eventi imprevisti. Ciò a sua volta deriva dalla carenza di finanziamenti a lungo termine e dalla logica produttivistica dell’aziendalizzazione, che ha ridotto pesantemente la disponibilità di stock.
Ulteriori finanziamenti sono dunque necessari per superare queste fragilità. Ma non sono sufficienti. Una questione fondamentale è come sono allocate le risorse nel rapporto fra ospedale e territorio. Un indicatore è la spesa per la prevenzione collettiva e la sanità pubblica: tra il 2008 e il 2015 (ultimo dato disponibile) questa spesa rimane sempre inferiore allo standard (5%) fissato dalla programmazione nazionale.
La fragilizzazione del territorio è dunque legata a doppio filo all’affermazione del modello di mercato. Come detto prima, la competizione come principio ordinatore dell’architettura del sistema di offerta scoraggia pesantemente l’investimento sulle aree di mercato meno redditizie come la prevenzione e le cure primarie, favorendo invece
{p. 146}la medicina ospedaliera e specialistica. Ancora, il meccanismo domanda-offerta, alla base dei quasi-mercati sanitari, è incoerente con strategie di promozione della salute, che per loro natura dovrebbero interessare prevalentemente la componente territoriale dei servizi. Per converso, questo meccanismo tende a dar forza a una domanda di tipo consumeristico [Gimbe 2019].
Note