Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c11

Capitolo undicesimo La casa pubblica tra residualizzazione e attivazione
di Maria Chiara Cela

Notizie Autori
Maria Chiara Cela è dottoranda del programma URBEUR – Studi Urbani dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. La sua ricerca verte sull’analisi di politiche e progetti abitativi rivolti ai giovani che utilizzano la strategia dell’attivazione dei beneficiari finalizzata alla promozione di azioni di supporto in contesti vulnerabili. Lavora dal 2005 nell’ambito delle politiche abitative sociali, prima presso il Comune di Milano e successivamente presso la cooperativa DAR=CASA. Dal 2021 è presidente di Fondazione DAR.
Abstract
In questo capitolo finale vengono riepilogati i tratti principali delle politiche abitative in Italia e del diritto di abitare dei giovani. Lʼautrice si sofferma sullʼimportanza del contrasto alle dinamiche di impoverimento del lavoro nellʼambito delle politiche di welfare abitativo e del ruolo dellʼabitare, oggetto di rinnovata consapevolezza durante la pandemia. In conclusione viene tuttavia rilevata una perdita di centralità della questione abitativa nellʼagenda politica italiana. .

1. Introduzione

La casa e l’abitare sono ambiti di vita profondamente influenzati da diverse dimensioni di disuguaglianza [Forum Disuguaglianze e Diversità 2021]; allo stesso tempo le diverse condizioni abitative contribuiscono a plasmare le opportunità relative ad altri ambiti dell’esistenza [Ascoli e Bronzini 2018]. In Italia la locazione è più diffusa tra le famiglie a basso reddito, che si rivolgono perlopiù al mercato degli affitti perché incontrano grandi difficoltà nell’accedere all’acquisto di un appartamento o all’edilizia popolare. D’altro canto, l’incidenza delle spese per l’abitazione è più alta per le famiglie in affitto, tra cui c’è una maggiore incidenza di povertà assoluta rispetto alla proprietà [ISTAT 2022]. Questa concomitanza contribuisce ovviamente ad aumentare il rischio per le famiglie meno abbienti di trovarsi in una situazione di sovraccarico [1]
, impattando negativamente sulla qualità e sulla sicurezza della loro condizione abitativa da una parte e sulla capacità di affrontare altre spese ordinarie e impreviste dall’altra. Un altro esempio di queste dinamiche cumulative è quello dei giovani. Le giovani generazioni hanno guadagnato attenzione politica e accademica a livello globale a seguito dell’aggravarsi dei loro problemi abitativi in molti paesi del mondo. Come si è visto recentemente in Italia, la questione è entrata prepotentemente nel dibattito pubblico in seguito alle proteste degli studenti contro l’insostenibilità dei costi abitativi a partire dalle principali città universitarie. {p. 190}Ma questa problematica specifica si inserisce in un contesto più ampio di diffusa sofferenza abitativa e di insufficienza (per non dire mancanza) di politiche. Le giovani generazioni sono tra coloro che affrontano una maggiore instabilità lavorativa con impieghi più instabili e poco remunerati. La precarietà del lavoro influisce sull’accesso alla proprietà della casa. Inoltre, i sistemi di protezione sociale sono poco attenti ai bisogni abitativi delle giovani generazioni, soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale. Pertanto, i giovani, soprattutto quelli con risorse economiche scarse e volatili, sono costretti a rivolgersi al mercato privato dell’affitto, che è spesso più costoso, selettivo e di bassa qualità, sperimentando condizioni abitative precarie e indesiderate [Bricocoli e Sabatinelli 2016]. In queste circostanze, il sostegno economico dei genitori, sotto forma principalmente di ricchezza familiare trasmessa, è di fondamentale importanza per l’accesso all’alloggio, il che acuisce le disuguaglianze tra i giovani stessi, oltre che tra le diverse generazioni.
La pandemia di Covid-19 ha colpito più pesantemente le fasce più fragili della popolazione, andando ad innestarsi su e amplificando dimensioni di disuguaglianza già esistenti. I dati sulla povertà dell’ISTAT mostrano che sia le famiglie che le persone in povertà assoluta nel 2020 sono aumentate rispetto all’anno precedente. Nel 2021 l’incidenza della povertà assoluta è rimasta pressoché stabile rispetto all’impennata del 2020 [Oxfam 2023]. Gli interventi pubblici di spesa decisi per sostenere i redditi hanno contribuito a mitigare significativamente gli effetti della crisi economica innescata dal Covid-19, portando a una «sostanziale stabilità della disuguaglianza di redditi e consumi durante la pandemia» [Brandolini 2022, 191] [2]
. Questa mobilitazione di risorse pubbliche straordinarie rappresenta un’eccezione per l’Italia sia rispetto a crisi precedenti che a decenni di contenimento del welfare (Bifulco e Dodaro, supra). In Italia le politiche di austerità si sono innestate su un welfare abitativo già pesantemente depotenziato da anni di {p. 191}disinvestimento e residualizzazione [3]
. Il settore dell’edilizia residenziale pubblica è storicamente contenuto, in modo simile agli altri paesi dell’Europa meridionale [Whitehead 2017], e conta circa il 4% del patrimonio abitativo totale [Housing Europe 2021]. Il welfare abitativo è debole e discontinuo anche dal punto di vista dei sostegni alla domanda (housing allowances) [Filandri e Moiso 2018]. Nonostante la centralità assunta dalla casa nel discorso pubblico rispetto al contenimento degli effetti della pandemia (stay safe, stay at home), la rinnovata consapevolezza del suo ruolo nella vita delle persone non sembra aver fatto (ri)acquistare centralità alla questione abitativa nell’agenda politica italiana.
L’obiettivo del capitolo è di introdurre elementi di discussione critica rispetto a opportunità e rischi di una recente, ancorché ridotta nei numeri, evoluzione delle politiche abitative rivolte perlopiù ai giovani, che mutua il principio dell’attivazione dei beneficiari da altri ambiti di welfare (ad esempio le misure contro la povertà). La cornice in cui le riflessioni proposte sono inserite è costruita da una parte inserendo la situazione attuale delle politiche abitative in Italia in una prospettiva storica di residualizzazione di questo ambito del welfare; dall’altra contestualizzando il tema della ritardata autonomia abitativa dei giovani, fenomeno che si è acuito in tutta Europa a partire dagli anni Duemila.

2. Un paese di proprietari

L’Italia non è tra i paesi europei con le quote di proprietà più elevate, ma registra un tasso più alto rispetto al valore medio. Dal 2008 il tasso di proprietà della casa sul totale della popolazione è rimasto stabile tra 72 e 74%. La proprietà della casa ha beneficiato del sostegno pubblico e privato (attraverso sgravi fiscali e condizioni di mutuo favorevoli) {p. 192}e di un discorso ampiamente diffuso che promuove questo titolo di godimento come il «modo standard per ottenere una casa» [Poggio 2018, 12, traduzione mia]. Tuttavia, soprattutto dopo il 2008, l’accesso alla proprietà della casa si è scontrato con diversi ostacoli. Le restrizioni al credito introdotte dopo la crisi hanno impattato pesantemente su alcune categorie sociali, come le giovani generazioni e le famiglie immigrate. Da una parte, il lavoro precario rende più difficile l’accesso al credito per i soggetti più colpiti. Dall’altra, la crescita dei prezzi delle abitazioni ha ulteriormente inciso sulla possibilità di accedere alla proprietà della casa, soprattutto nelle grandi aree urbane attrattive. Tra il 2010 e il 2021 nei paesi dell’UE c’è stato un aumento dei prezzi delle case del 37%. Anche se in Italia negli stessi anni si è registrata una diminuzione (–13%), il tasso di sovraccarico dei costi abitativi nelle città italiane è solo leggermente inferiore a quello europeo [Eurostat 2022]. Per quanto riguarda il settore degli affitti, in Italia questo ha rappresentato tradizionalmente la parte minore dello stock disponibile, così come in quasi tutti gli altri Stati membri. Tuttavia, a partire dal 2007 si è registrata una crescita diffusa degli inquilini e una diminuzione dei proprietari di casa quasi ovunque in Europa [Cognetti e Delera 2017]. Come già sottolineato nell’introduzione, una caratteristica problematica del settore degli affitti nel paese è che in questo comparto tendono a concentrarsi le famiglie a basso reddito. Dopo il 2008 il tasso di disoccupazione è aumentato e i guadagni di chi lavora sono diminuiti, peggiorando ulteriormente i problemi di accessibilità e affordability per i più vulnerabili. Questi problemi sono stati ulteriormente esacerbati dalla costante crescita degli affitti. In Italia l’aumento risale alla liberalizzazione del settore della locazione negli anni Novanta. Le famiglie nel settore degli affitti privati tradizionalmente non sono state sostenute in modo significativo da risorse pubbliche. I contributi all’affitto sono fortemente suscettibili agli stanziamenti di bilancio e la loro efficacia dipende dalla tempestività dell’assegnazione. In Italia il settore degli affitti privati rappresenta il 14,8% dello stock abitativo totale [Costarelli, Mugnano e Cortazzo 2022].{p. 193}

3. Recenti riarticolazioni dell’offerta abitativa sociale

Poggio e Boreiko [2018] utilizzano la seguente distinzione per classificare diverse tipologie di offerta riconducibili al comparto dell’edilizia sociale italiana: il patrimonio di edilizia residenziale popolare, l’offerta messa a disposizione attraverso il sistema integrato dei fondi (SIF) [4]
e lo stock afferente alle organizzazioni del Terzo settore. Il primo è costituito da alloggi finanziati dal governo e costruiti dai comuni o dalle agenzie di edilizia popolare. Dopo la Seconda guerra mondiale è stato sviluppato un piano nazionale di edilizia sociale (Piano INA-Casa), seguito negli anni Sessanta dall’istituzione di un fondo (Gescal) alimentato da un contributo obbligatorio da parte dei lavoratori e dei loro datori di lavoro. L’obiettivo dei programmi era duplice: affrontare la carenza di alloggi, soprattutto nelle aree urbane dove arrivavano persone provenienti da altre parti d’Italia per lavorare nell’industria, promuovendo allo stesso tempo il settore delle costruzioni. Per quanto riguarda il target, la visione dei piani era più vicina all’approccio universalistico alla politica abitativa di quanto non lo sia oggi: mirava, cioè, ad affrontare la domanda abitativa di ampie fasce della popolazione. Dagli anni Novanta lo stock pubblico si è ridotto a causa della progressiva vendita di abitazioni e alla sostanziale riduzione di (stabili) finanziamenti pubblici per la realizzazione di nuove case popolari. Inoltre, lo stock pubblico è stato interessato da un processo di residualizzazione. L’assegnazione di alloggi popolari a famiglie a basso reddito e vulnerabili è più coerente con il modello abitativo residuale, al quale si è successivamente orientato quello italiano. L’intervento pubblico si rivolge solo a quelle famiglie i cui bisogni abitativi non trovano soluzione nel mercato. Paradossalmente, la maggiore efficacia di tali politiche nel raggiungere la popolazione target aumenta la residualizzazione e si scontra con la crescente carenza di finanziamento
{p. 194}e gestione del patrimonio di edilizia popolare. I canoni degli alloggi popolari sono parametrati alla condizione economica degli inquilini. Poiché si tratta per lo più di famiglie a basso reddito, gli affitti sono fissati a livelli molto bassi. Pur perseguendo obiettivi di giustizia sociale, questo sistema produce problemi di sostenibilità finanziaria per i proprietari in assenza di un sistema solido di sostegno pubblico alle famiglie a basso reddito o disoccupate [ibidem]. Inoltre, le politiche di austerità post-crisi hanno ulteriormente ridotto la spesa pubblica nel welfare in generale, producendo un circolo vizioso di aumento dei bisogni e diminuzione delle risorse. I bilanci traballanti delle agenzie pubbliche per la casa incidono sulla possibilità di ripristinare appartamenti vuoti, lasciandoli inutilizzati per lungo tempo e aumentando il rischio di occupazione. Il limitato turnover degli inquilini e le difficoltà di riassegnazione degli alloggi vuoti si scontrano con l’ampia domanda abitativa in attesa nelle graduatorie pubbliche [5]
e con l’espansione della domanda abitativa.
Note
[1] Ovvero con una quota di spese per l’abitazione sul reddito disponibile uguale o superiore al 40%.
[2] Si veda E. Granaglia in questo volume.
[3] Il processo di residualizzazione dell’edilizia popolare ha portato a destinare alloggi prevalentemente alle famiglie più vulnerabili o più povere, alimentando processi di concentrazione e stigmatizzazione [Czischke 2009].
[4] Questo segmento di stock è indicato come housing sociale in italiano, spesso impropriamente equiparato al social housing nella sua comprensione europea.
[5] «Le stime pre-Covid, oggi certamente peggiorate, indicano in 650 mila le domande di alloggi ERP in attesa nelle graduatorie dei Comuni» [Forum Disuguaglianze e Diversità 2021, 1].