«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c3
Fin da subito si volle che quel
convegno, programmato per il mese di maggio dello stesso 1925, avesse una vocazione
fortemente internazionale. Occorreva far leva sull’importanza dei reperti venuti
alla luce per mostrare a un pubblico il più possibile vasto il benefico effetto
della dominazione italiana. La finalità politica dell’evento è dimostrata dalle
categorie di persone invitate; non solo studiosi, ma anche giornalisti e politici.
Quest’ultimo gruppo fu in realtà quello più poveramente rappresentato. Furono
naturalmente presenti, in qualità di organizzatori dell’evento, il nuovo ministro
delle Colonie subentrato temporaneamente (1924-1926) a Federzoni, Pietro Lanza di
Scalea, e il governatore
¶{p. 104}della Tripolitania, Giuseppe
Volpi, ma nessun’altra grande personalità fu coinvolta. Lo stesso ministro
dell’Istruzione, Pietro Fedele, negò la sua partecipazione, pure fortemente
richiesta, e si limitò ad inviare un suo delegato, Luigi Trivelli
[9]
. Mancano poi del tutto politici di altre nazioni e ciò potrebbe stupire
in un convegno prioritariamente rivolto al pubblico estero, ma solo a un primo
sguardo, dal momento che il loro ruolo era in realtà svolto proprio dagli studiosi.
La rilevanza del convegno stava infatti nella possibilità di poter creare
un’occasione politica e diplomatica di rilievo senza tuttavia doversi esporre troppo
e ammantando il tutto sotto la rassicurante coltre del raduno scientifico.
Nell’elenco delle personalità convenute, preposto a un piccolo opuscolo
commemorativo dell’evento, stampato nei giorni stessi del convegno, i vari studiosi
stranieri furono infatti brevemente descritti con ricorso sia alla loro affiliazione
scientifica che al loro ufficio di «delegati» dei vari governi
[10]
. I paesi così ufficialmente rappresentati furono in totale sei: Eugène
Albertini come «delegato del Governo d’Algeria», Christian Blinkenberg per la
Danimarca, Franz Cumont per il Belgio, Louis Chatelain e Prosper Ricard per il
Marocco, Daniel Krencker, Ferdinand Noack, Hermann Thiersch e Theodor Wiegand per la
Germania, Wilhelm Kubitschek per l’Austria, Louis Poinssot per la Tunisia
[11]
. Un peso politico si può poi riconoscere anche ai rappresentanti degli
istituti culturali esteri presenti in Italia lì convenuti, visto che il loro ruolo è
sempre stato anche di natura politico-diplomatica: Léon Bourdon e Jacques Madaule
dell’École Française de Rome
[12]
, ¶{p. 105}Gerhart Rodenwaldt del Deutsches
Archäologisches Institut, e Gorham Stevens dell’American Academy in Rome. Solo a
causa dell’assenza di Thomas Ashby, che disdisse la sua partecipazione a pochi
giorni dalla partenza, mancarono rappresentanti britannici
[13]
.
A dimostrazione precipua della
veste non esclusivamente scientifica assunta da questi archeologi, vi è il fatto che
la loro partecipazione non fu ricercata da altri colleghi, ma direttamente dalle
ambasciate italiane presenti nei rispettivi paesi. Pur essendo stato ideato con
l’ausilio di studiosi, il convegno fu organizzato dal governatore di Tripoli e dal
Ministero delle Colonie, cioè da Volpi, Lanza di Scalea e Carlo Conti Rossini (il
quale non agì in veste di studioso orientalista, ma solo come delegato del
Ministero). Furono dunque degli attori istituzionali quelli che si posero a capo
dell’organizzazione ed essi fecero pertanto ricorso ai canali più congeniali al loro
ufficio politico. È Volpi a stabilire questa modalità d’azione fin dall’inizio dei
preparativi. In un telegramma inviato al Ministero già a febbraio, afferma infatti
che
gli inviti saranno subito fatti da questo Governo con caratteristica tecnica ai singoli presentandoli a mezzo della conoscenza personale da me fatta coi governatori francesi del nord Africa ed a mezzo dei nostri agenti diplomatici e agenti consolari salvo a chiedere se del caso e più tardi intervento Ministero Affari Esteri.
Fra gli altri paesi di cui pure
si cercò la presenza, ma che poi non vennero rappresentati al convegno, vi furono
l’Olanda, la Romania e la Spagna. In un elenco manoscritto provvisorio dei
partecipanti alle giornate tripoline si ritrovano infatti anche i nomi di Hendrik
M.R. Leopold, direttore dell’Istituto Storico Olandese di Roma, e di Vasile Pârvan,
¶{p. 106}membro dell’Accademia Romena di Roma e «delegato del
Min.[istero] della P.I. di Rumenia». Come «delegato del governo spagnolo» è invece
indicato un personaggio di nome Boschi (ut videtur), di
difficile identificazione.
Si cercò poi di coinvolgere
nell’evento anche diversi giornalisti. Tuttavia, il loro numero risultò infine poco
cospicuo, dal momento che le agevolazioni di viaggio loro concesse dal Ministero
risultarono troppo ridotte rispetto al costo dei trasporti, ma si poté comunque
contare su qualche firma di rilievo. Per l’Italia, si recarono a Tripoli l’influente
caporedattore del «Giornale d’Italia», Alessandro Bacchiani, e il vicepresidente
dell’Associazione della Stampa italiana, Arturo Calza. Quest’ultimo fu peraltro
inserito nel gruppo di quei pochi invitati a parlare alla cerimonia inaugurale del
convegno; la centralità della stampa per quell’occasione non poteva essere meglio sottolineata
[14]
.
Per quanto riguarda i giornali
stranieri, l’ambasciatore italiano di Londra assicurò la presenza di corrispondenti
inglesi del «Times» e dell’«Illustrated London News». Il rappresentante italiano a
Parigi fece invece sapere che sarebbero stati presenti un redattore de
«L’Illustration» e, probabilmente, uno dell’«Excelsior». A questi si sarebbe
affiancato Camille Fidel, direttore della «Revue des Questions Coloniales et
Maritimes» e favorevole osservatore dell’amministrazione italiana in Tripolitania.
Si reputò che la sua amicizia valeva la totalità delle spese di viaggio e a lui
venne quindi inviato direttamente il biglietto per il piroscafo, più che il semplice
tesserino per godere delle agevolazioni.
Gli altri giornalisti presenti
sarebbero poi stati gli studiosi stessi, che avrebbero riferito i particolari
dell’evento ed elogiato l’operato italiano in Tripolitania sulle più diverse
testate: riviste di settore, periodici coloniali, settimanali e quotidiani di larga
tiratura. Gli studiosi che sarebbero arrivati a Tripoli avrebbero quindi assommato
su ¶{p. 107}sé stessi nello stesso tempo il ruolo di archeologi,
politici e giornalisti.
1.2. La seduta inaugurale del convegno
La mattina del 1° maggio 1925 fu
ufficialmente inaugurato il convegno internazionale di archeologia romana a Tripoli.
Era il primo raduno internazionale di archeologi dopo la prima guerra mondiale e
avveniva significativamente in un territorio coloniale; era nella comune attività
colonizzatrice che i paesi europei trovavano la loro unione, travalicando i
particolarismi nazionali.
La forma del convegno non
scientifico e il numero contenuto dei partecipanti selezionati, circa trenta
studiosi e dieci giornalisti, erano tali da dare all’evento il senso di un’occasione
intima; amici che si ritrovavano e svolgevano insieme un’attività di comune
interesse. L’immagine della colonia che essi avrebbero conservato e poi trasmesso ai
propri connazionali avrebbe dovuto mostrare il pieno successo dell’Italia, capace di
amministrare una terra senza pericoli o conflitti e caratterizzata dallo stesso
nitore di un salotto borghese in cui fossero appesi ai muri souvenirs
di paesi lontani.
La cerimonia inaugurale si tenne
all’interno del vecchio castello della città, nel Gran Salone del Governo di
Tripoli. Il primo a prendere la parola fu in quell’occasione il ministro delle
Colonie, Lanza di Scalea, che, certo di fare colpo sull’uditorio, tenne il suo
discorso di benvenuto in latino. Nella sua orazione, ricca di echi di testi
classici, Lanza toccò alcuni punti cruciali della retorica colonialista del tempo.
Anzitutto, sottolineò la continuità fra antichi Romani e Italiani, al fine di
indicare che nei discendenti di quel glorioso popolo si replicava la medesima
capacità di trarre profitto da terre apparentemente inadatte alla presenza di larghe
comunità. Il topos della regione paradisiaca, caro ai
sostenitori della colonizzazione nel 1911-1912, era così del tutto abbandonato a
vantaggio di quello opposto. Lanza sottolineò le scarse qualità naturali della
regione e, riprendendo alcuni ¶{p. 108}passi del Bellum
Jugurthinum di Sallustio che nel decennio precedente erano stati
appannaggio degli oppositori dell’impresa libica, parlò delle sfavorevoli condizioni
naturali della regione (Convegno 1925, p. 11)
[15]
. Tali notazioni ingenerose servivano a sottolineare le difficoltà degli
inizi per dare poi maggiore risalto alle conquiste ottenute nel campo dello
sfruttamento agricolo del territorio negli ultimi anni. Era in questa capacità di
imporsi su un ambiente inizialmente ostile che risiedeva, per Lanza, il maggiore
motivo di vicinanza agli antichi Romani. Proprio come loro, i moderni colonizzatori
avevano saputo trarre il meglio da una terra trovata in condizioni sfavorevoli,
apportandovi benefici economici ed anche – ed è questo l’altro nodo fondamentale
della nuova retorica coloniale – umani. Attraverso la cura per i resti archeologici
della regione, quella italiana, infatti, stava veramente dimostrando di essere una
missione civilizzatrice. Per di più, la diffusione della lingua italiana fra gli
indigeni, altro miraggio della retorica coloniale, avrebbe anche permesso di
realizzare quell’ideale massimamente romano di civilizzazione per cui l’antica
Tripoli poté dare al mondo il suo Settimio Severo, il cui omonimo avo era celebrato
dal poeta Stazio come Italus, a dispetto
della sua origine (Silvae IV, 5, vv. 45-46).
Dopo di lui intervenne
l’archeologo Roberto Paribeni il cui discorso è di fatto un’esemplificazione del
significato che in quegli anni verrà a ricoprire il concetto di romanità. In omaggio
a questa categoria ideologica non solo si vedevano negli Italiani i discendenti
degli antichi Romani (ed anche Paribeni sottolineò la loro comune capacità di
sovrastare la natura), ma si assegnava alla città di Roma una funzione
civilizzatrice universale. Roma diventava il motore della storia e la radice di ogni
progresso civile compiuto non solo in Italia, ma nel mondo intero. Era a Roma che la
civiltà era nata ed era da lì che si era irradiata. Da questo assunto, che a partire
da quegli anni troverà esponenti sempre più
¶{p. 109}entusiasti
nell’Istituto di Studi Romani
[16]
, derivavano due corollari essenziali su cui Paribeni si soffermò. Se il
senso della parabola romana era nella sua universalità, un ruolo di assoluto rilievo
sarebbe stato quello giocatovi dalle province/colonie. Molto più che gli archi del
Colosseo, quindi, «parlano all’animo» il «cippo miliario perduto nel torpore gelido
delle steppe di Dobrugia», il «ponte che cavalca ardito le rive scoscese di un fiume
d’Iberia», il «castrum che profila la propria ombra possente
sulle candide arene del deserto di Mesopotamia». «Qui nelle provincie deve essere
ripensata l’alta storia di Roma» – affermò icastico Paribeni (p. 22) –, poiché nella
cornice libica e nell’esplorazione dei segni lasciativi da Roma «ci sentiremo più
che mai romani, figli reverenti e devoti di questa madre della civiltà europea» (p.
29). In queste ultime parole si percepisce d’altronde un ulteriore tratto della
morfologia assunta in quegli anni dal mito di Roma, il suo carattere sentimentale,
irrazionale e mistico; la storia di Roma non si studia, si «sente». Roma, divenuta
oggetto di idolatria e affetto filiale, può essere esaltata ed estaticamente
ammirata dagli adepti del suo culto, ma la sua gloriosa e magnifica leggenda non può
essere indagata con le vili modalità della critica storica, persa «nella ricerca
angusta e minuziosa della piccola inverosimiglianza» (p. 30).
Note
[9] Lettera di Volpi a Conti Rossini (30 marzo 1925). Fra i partecipanti al convegno figurerà anche un certo Attilio Rossi, «Ispettore Centrale nel Ministero della P.I.» (Convegno 1925, p. 6).
[10] Convegno 1925.
[11] Nel seguito ci si concentrerà sugli stranieri ma furono a Tripoli anche studiosi italiani: C. Anti, S. Aurigemma, F. Beguinot, C. Conti Rossini, G. Calza, G. Cultrera, G. Gerola, G.Q. Giglioli, E. Ghislanzoni, C.A. Nallino, R. Paribeni, Q. Quagliati, A. Rossi, P. Romanelli, B. Tamaro. Pur essendo stati invitati, invece, non si recarono in colonia Pais, Lanciani e Schiaparelli.
[12] Avrebbe dovuto essere con loro anche un giovane allievo dell’École Française de Rome, Georges Recoura, accidentalmente morto durante il viaggio.
[13] Fra i partecipanti figura in realtà Harris Dunscombe Colt, studioso di origini statunitensi stabilitosi nel Regno Unito, ma egli è indicato nella lista dei partecipanti solo come fellow della Society of Antiquaries of Scotland e non come «delegato». Si può pertanto presumere che la sua presenza fosse casuale e motivata da uno dei numerosi viaggi che lo studioso compiva in Nordafrica, più che da un invito ufficiale.
[14] La presenza di Calza è resa esplicita in Convegno 1925, p. 5; quella di Bacchiani è testimoniata da F. Beguinot, Il recente convegno archeologico tripolitano, in «L’Africa Italiana», 4, 1925, pp. 83-87: 83.
[15] Lanza riprende alla lettera Sallustio, Jug. 17 (utilizzato nella campagna tripolina, come visto supra, cap. II, nota 53) e 79.
[16] Cfr. infra, cap. IV.