Giorgio Chiosso, Anna Maria Poggi, Giorgio Vittadini (a cura di)
Viaggio nelle character skills
DOI: 10.1401/9788815366962/c1
Dell’irrompere delle non cognitive skills sulla scena della formazione e dell’attenzione crescente prestata nei maggiori centri di elaborazione educativa e scolastica (ad es., come appena ricordato, l’OECD) finora poco è filtrato da noi a livello di opinione pubblica scolastica nella quale resta centrale e monolitica la convinzione che la nozione di competenza, intesa come esito tangibile della padronanza pratica del sapere, e la sua misurazione siano da considerare il baricentro di ogni progetto innovativo. Con le non cognitive skills siamo oltre questo scenario definito negli anni Novanta e centrato sull’egemonia del potenziamento cognitivo. Via via sono apparsi evidenti i limiti di questo approdo alla competenza, che rischia di restare gracile e infruttuoso se non è sostenuto dalla valorizzazione della dimensione sociale ed emotiva. In importanti documenti dell’OECD, ad esempio, è ormai esplicito il riconoscimento che «most schools are places that are both intensely social and intensely emotional» [13]
.
{p. 33}
Per quanto lo sfondo teorico resti improntato a un funzionalismo di marca economicista – preparare meglio il «cittadino produttore» a rispondere alle necessità del mercato del lavoro («As individuals and jobs are becoming increasingly interconnected, complex, and collaborative, socio-emotional characteristics are expected to become ever more important») [14]
– l’attenzione alle non cognitive skills apre uno scenario parzialmente inedito anche se non privo di qualche incognita, come si dirà nella parte conclusiva del saggio.
Mentre la costruzione della competenza poggiava su una concezione dell’uomo come parte di un sistema da organizzare nel segno della massima efficienza ed efficacia, le non cognitive skills considerano l’esperienza umana a più vasto raggio. In essa non solo hanno diritto di cittadinanza anche altre esperienze vitali oltre a quelle finalizzate alla conoscenza, ma proprio queste sono in grado di dare maggiore spessore alla competenza stessa.
Siamo dentro un orizzonte che, senza negare il precedente, lo oltrepassa e lo arricchisce in una direzione nuova, come documenta, ad esempio, anche la proposta della global competence definita in sede OECD come «un obiettivo di apprendimento» grazie al quale le persone competenti a livello globale sono in grado di esaminare questioni locali, globali e interculturali, comprendere e apprezzare diverse prospettive e visioni del mondo, interagire con successo e rispetto per gli altri e intraprendere azioni responsabili verso la sostenibilità e il benessere collettivo.
Segnali di riposizionamento educativo con analoghe finalità giungono anche da altri ambienti tradizionalmente non insensibili alle influenze dell’OECD. Ne è un esempio il Rapporto dell’Unione europea dedicato al rafforzamento e consolidamento dei servizi dedicati alla prima infanzia (0-6 anni) intitolato Proposal for Key Principles of a Quality Framework for Early Childhood Education and Care (2014, in traduzione italiana {p. 34}Un quadro europeo per la qualità dei servizi educativi e di cura per l’infanzia: proposta di principi chiave) [15]
.
Rispetto a documenti precedenti il Quality Framework si distanzia da una visione dei servizi per l’infanzia quale strumento per garantire principalmente le pari opportunità lavorative tra uomini e donne. Risulta inoltre messo in secondo piano il punto di vista strettamente economicista, in base al quale gli effetti positivi dei servizi educativi per l’infanzia sugli apprendimenti e sull’inclusione sociale vengono considerati come strumenti per una gestione efficace ed efficiente delle politiche del lavoro. Nel documento emerge, viceversa, in modo chiaro ed esplicito, la messa al centro del bambino quale soggetto di diritto: un cittadino a tutti gli effetti, cui va garantito il diritto all’educazione. I servizi per l’infanzia, l’impegno per renderne universale l’accessibilità e migliorare la qualità, vengono dunque riconsiderati e affermati all’interno di una cornice non solo organizzativa, ma esplicitamente educativa.
Nel 2015 il World Economic Forum, come è noto, ha pubblicato un Rapporto, New Vision Education, frutto di una dettagliata analisi della letteratura disponibile in oltre 100 paesi allo scopo di definire le competenze essenziali del XXI secolo. La preoccupazione principale del documento è il pieno impiego delle risorse tecnologiche a fini scolastici («le tecnologie hanno la forza per ridurre i costi e migliorare la qualità dell’istruzione»). Ma da sole, secondo gli autori del Rapporto, esse non sono sufficienti a raggiungere l’obiettivo di una formazione il più possibile completa se non sono integrate con il potenziamento di qualità umane definite in generale come la comunicazione, la creatività, la persistenza e la collaborazione [16]
.
Nell’entrare più nel dettaglio il documento del World Economic Forum individua sei Character Qualities e cioè sei {p. 35}disposizioni della personalità necessarie per padroneggiare la realtà e non restarne succubi, specie di quella virtuale: curiosità, spirito di iniziativa, perseveranza, disponibilità ad adattarsi all’ambiente, capacità di guidare e mobilitare gli altri, abilità di interagire con altre persone in un modo socialmente ed eticamente appropriato.
Si tratta di ulteriori segnali che indicano come, rispetto ai decenni appena trascorsi, stia emergendo in molti e autorevoli ambienti una proposta non più pilotata solo o principalmente dalla preoccupazione formativo-professionale, ma anche animata dalla sensibilità educativa «personalizzata»: senza dimenticare il «mercato» essa manifesta più attenzione per le dinamiche interne ed esterne delle persone. Detto in altro modo: come formare individui valorizzati per quel che sono e non solo per quel che producono – «qualcuno» e non «qualcosa» come suggerisce Robert Spaemann nel suo libro sulla natura della persona [17]
– capaci di costruire rapporti interpersonali positivi e comunità solidali. Oltre al profitto si riconoscono il diritto al bene-essere personale, alla capacità di stare-insieme e a godere dei beni immateriali, come la bellezza e l’amicizia, e la constatazione che ideali, laici o religiosi, costituiscono un’occasione per dare senso all’esistenza umana.
Non basta, insomma, ottimizzare il rapporto tra le persone e la realtà del fare e del produrre, appare sempre più evidente che questo obiettivo può più facilmente essere a portata di mano se si tiene conto delle risorse interiori e delle qualità delle relazioni interpersonali.
È appena il caso di ricordare che questo assunto ha in ambito pedagogico una lunga storia che in questa sede non possiamo certamente ripercorrere nel dettaglio. Basterà ricordare due soli esempi particolarmente importanti: Pestalozzi e Montessori. Per quanto riguarda il pedagogista svizzero è largamente nota la forte influenza esercitata dal suo insegnamento in tutta Europa lungo l’intero XIX secolo e parte del XX e il fascino esercitato con la valorizzazione della {p. 36}funzione materna. Il perno della pedagogia pestalozziana dice qualcosa che è ancora attuale oggi, disposto intorno alla trilogia mente-cuore-mano. L’uomo completo al quale tende l’educazione è l’esito di un armonico triangolo pedagogico i cui vertici sono le capacità intellettive, le abilità manuali e le buone disposizioni affettivo-morali. Non basta sapere e neppure non basta saper fare, bisogna anche sentire ed essere «padroni di sé stessi». Soltanto a queste condizioni è possibile realizzare compiutamente sé stessi, partecipare alla vita sociale e condividere le responsabilità della convivenza.
Come poi non ricordare la rilevanza che Maria Montessori assegna agli aspetti socioaffettivi nell’educazione dei più piccoli, la cui correlazione con l’apprendimento cognitivo è attentamente indagata dalla pedagogista marchigiana. Saper riconoscere le emozioni è fondamentale per educare il bambino alla libertà. Nell’accostarle positivamente, il bambino è aiutato a esprimere il suo stato d’animo a parole e dunque a incanalarlo positivamente, incoraggiato a mettersi nei panni degli altri, accompagnato a guardare alla compresenza di più punti di vista, sostenuto a gestire i momenti di insuccesso e a evitare i sensi di disistima. Celebri sono le pagine dedicate alla gestione della rabbia dei bambini che riassumono esemplarmente le sue convinzioni in tema di esperienze socioemotive. «Un bambino padrone delle proprie emozioni e capace di dar loro un nome, un volto e un percorso evolutivo (la rabbia arriva, cresce, attacca, svanisce) sarà senz’altro un adolescente sereno e un adulto equilibrato» [18]
.
L’ingresso delle non cognitive skills nell’agenda educativa contemporanea non rampolla tuttavia dall’umanesimo pedagogico di cui, pur in modo diverso, Pestalozzi e Montessori sono espressione. Naturalmente tutte le pedagogie ispirate alla visione integrale dell’uomo (da quelle personaliste a quelle a impronta fenomenologica) hanno con forza sottolineato l’importanza educativa della dimensione socioemotiva e di quella relazionale. Ma, specialmente a partire dalla seconda metà del XX secolo, esse sono diventate voci di minoranza {p. 37}sovrastate dalle psicopedagogie di orientamento neocomportamentista e costruttivista, dalle sociologie dell’organizzazione, dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalle istanze del mondo economico, teso a sottrarre la scuola al «sapere disinteressato» e a renderla funzionalmente «utile». Pressioni così forti da ombreggiare anche le pedagogie democratiche di derivazione deweyana al punto da spingere qualche pedagogista a porre l’alternativa «mercato o democrazia?» [19]
.
Queste spinte hanno egemonizzato anche in Italia – pure storicamente una delle roccaforti della pedagogia centrata sulla persona – gli scenari scolastici degli ultimi decenni. Il movimento ispirato al principio dell’efficacia scolastica (School Effectiveness) che si è sviluppato specialmente nei paesi anglosassoni dopo gli anni Settanta intorno all’intersezione di comportamentismo/costruttivismo e pratiche manageriali costituisce il tentativo in larga parte riuscito di creare un modello scolastico basato – detto un po’ schematicamente – su efficienza organizzativa e performance di apprendimento, l’una e le altre sottoposte alla vigilanza di rigorose e sofisticate prassi valutative.
Per cogliere la trama culturale che ha rilanciato le non cognitive skills bisogna esplorare altri territori di studio, i saggi e le ricerche di quegli studiosi che, nel reagire agli eccessi di standardizzazione e del ricorso ai test hanno richiamato l’opportunità di considerare e valorizzare l’ampio spettro di influenze che interagiscono con lo sviluppo del potenziale cognitivo e condizionano l’identità della persona.
Nei successivi capitoli del libro vengono illustrate le due principali fonti cui attingere per la comprensione della genesi e dello sviluppo delle non cognitive skills sulle quali perciò non ci dilunghiamo e a cui rinviamo per gli opportuni approfondimenti: a) quella economica con gli studi e le ricerche sulla natura e sulla formazione del capitale umano e l’incidenza che su di esso hanno sia le disposizioni innate sia le capacità dipendenti dall’ambiente e dall’educazione
{p. 38}(capitolo di Agasisti, Ribolzi e Vittadini); b) quella psicologica debitrice alle teorie sulla formazione della personalità, alla nozione di Capitale psicologico e alla motivazione all’apprendimento (capitolo di Pisanu, Fraccaroli, Gentile e Recchia).
Note
[13] O.P. John e F. De Fruit, Social and Emotional Skills Framework for the Longitudinal Study of Skills Development in Cities, Paris, OECD, 2015.
[14] Ibidem.
[15] A. Lazzari (a cura di), Un quadro europeo per la qualità dei servizi educativi e di cura per l’infanzia: proposta di principi chiave, San Paolo d’Argon, Zereoseiup, 2016.
[17] R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», Roma-Bari, Laterza, 2005.
[18] M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1948.
[19] M. Baldacci, La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, Milano, Franco Angeli, 2019.