Marina Calloni (a cura di)
Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c7

Capitolo settimo Dalla crisi della cura alla cura democratica, di Laura Fano Morrissey e Giorgia Serughetti
di Laura Fano Morrissey e Giorgia Serughetti. Le autrici hanno pensato, organizzato e rivisto congiuntamente il testo. Sono tuttavia da attribuire principalmente a Giorgia Serughetti i paragrafi 1, 2 e 3; a Laura Fano Morrissey il paragrafo 4. Le Conclusioni sono state scritte a quattro mani

Notizie Autori
Laura Fano Morrissey , antropologa sociale, è ricercatrice indipendente per organizzazioni della società civile e università. Ha scritto: Invisibili? Donne latinoamericane contro il neoliberismo (2014). È in corso di pubblicazione la sua seconda monografia, Per una politica della dignità. Femminismi, migrazioni e colonialità in America Latina.
Notizie Autori
Giorgia Serughetti è ricercatrice in Filosofia politica presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca. Ha pubblicato, oltre ad articoli e contributi in volumi collettanei, i libri: Il vento conservatore. La destra populista all’attacco della democrazia (2021); Donne senza Stato. La figura della rifugiata tra politica e diritto (con I. Boiano, 2021), Democratizzare la cura / Curare la democrazia (ebook, 2020); Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne del nuovo millennio (con C. D’Elia, 2017, II ed. 2021).
Abstract
Il primo patogeno a diffusione globale, responsabile della pandemia di Covid-19, ha colpito le società di larga parte del pianeta, in modalità traumatica, nella loro capacità di preservare e riprodurre la vita. Da alcuni decenni, soprattutto a partire dal crollo economico-finanziario del 2008, comunque da ben prima dello scoppio della pandemia di Covid-19, nei Paesi anglofoni si parla di «crisi della cura». L’espressione ha origine nella letteratura filosofica e sociologica femminista che da tempo segnala gli effetti concomitanti di deprivazione di sicurezza sociale e sfruttamento delle capacità relazionali in contesti di mercato. Ri-Make è stato uno spazio autogestito che, fino allo sgombero del luglio 2022, aveva sede in un ex liceo recuperato all’uso comune. Il fine con cui nasce è quello di attuare pratiche mutualistiche nel quartiere in cui era situato, come forma di risposta ai bisogni fondamentali in alternativa alla logica assistenzialista sia delle istituzioni, sia delle associazioni del settore privato. Questo approccio si è rivelato particolarmente importante durante la pandemia, quando i bisogni alimentari, lavorativi e psicologici delle persone sono drasticamente aumentati, spesso senza trovare risposta presso la rete dei servizi territoriali. In questo contributo ci si è soffermati a indagare i modi in cui un concetto come quello di cura, che si è imposto come un significante d’uso comune nel discorso politico e quotidiano durante la pandemia di Covid-19, assuma significati radicalmente critici e trasformativi all’interno di pratiche localizzate di solidarietà e costruzione di comunità. I tre casi di studio analizzati in queste pagine sono accomunati dall’uso politico che fanno di questa nozione, per inscrivere le pratiche messe in atto in una comprensione relazionale dei soggetti e delle collettività.

1. Introduzione

Il primo patogeno a diffusione globale, responsabile della pandemia di Covid-19, ha colpito le società di larga parte del pianeta, in modalità traumatica, nella loro capacità di preservare e riprodurre la vita [Ghandeharian e FitzGerald 2022]. Per questo, fare esperienza della pandemia ha significato innanzitutto misurarsi con un vasto e diffuso bisogno di cura: di cura sanitaria per corpi esposti all’attacco di un virus sconosciuto, ma anche di cura per le situazioni di fragilità economica, sociale, psicologica, educativa e relazionale che i lockdown prolungati hanno causato o aggravato [Serughetti 2020].
Non solo quindi «sicurezza», come mostrano in questo volume Mazzone, Quassoli, Di Molfetta e Campini, ma anche «cura» è divenuto un significante largamente circolante nel discorso pubblico, sia in ambito nazionale, sia internazionale. Si può ricordare, per esempio, che il primo decreto-legge emanato dal governo italiano per rispondere all’emergenza sanitaria e sociale, del 17 marzo 2020, è stato battezzato «Cura Italia». In un discorso tenuto all’Istituto universitario europeo di Firenze, a maggio 2021, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha richiamato la lezione di don Milani: «I care, we care, questa credo che sia la più importante lezione che possiamo imparare da questa crisi». {p. 150}
Allo stesso tempo, però, la pandemia ha posto di fronte a un’evidenza: mentre molteplici bisogni sono emersi in tutta la loro gravità, la risposta politica dei governi si è rivelata quasi ovunque insufficiente, specialmente nei Paesi che hanno più gravemente disinvestito, negli ultimi decenni, nelle misure di protezione sociale. La consapevolezza di questa mancanza è racchiusa nell’affermazione lapidaria che apre il Manifesto della cura del Care Collective, gruppo interdisciplinare di studiose e studiosi con sede a Londra: «In questo mondo l’incuria regna sovrana» [Care Collective 2021, 17].
Nell’emergenza si sono infatti manifestate in misura ingigantita le conseguenze delle politiche che, nei decenni a cavallo del nuovo millennio, hanno operato il rimodellamento dei sistemi sanitari in base a logiche imprenditoriali di efficienza, la flessibilizzazione dei contratti di lavoro, la riduzione dei servizi di welfare per categorie fragili come le persone anziane, minori e disabili.
Hanno assunto una visibilità inedita anche condizioni strutturali e di lungo corso che fanno capo a quella che Nancy Fraser ha chiamato la «contraddizione socio-riproduttiva» del capitalismo [Fraser 2017, 13]: la dipendenza del lavoro produttivo da quello di riproduzione sociale, la divisione sessuale del lavoro in entrambe le sfere e l’intersezione delle diseguaglianze di genere, classe, nazionalità, status migratorio nell’organizzazione delle prestazioni essenziali di cura. L’urgenza dei bisogni vitali ha evidenziato la ricaduta sproporzionata di tali prestazioni su categorie le cui attività in forma gratuita e retribuita godono, in tempi ordinari, di un riconoscimento sociale scarso o nullo, quali donne e persone migranti [Arruzza 2020].
Ciò significa che il tema della cura si è imposto nel discorso politico insieme alla consapevolezza delle carenze nella sua organizzazione ed erogazione, che rivelano la sua svalutazione culturale e marginalità politica, anche all’interno delle democrazie più avanzate. In altre parole, la crisi del Covid-19, con le sue conseguenze sanitarie, sociali ed economiche, può essere descritta come una «crisi della cura».
In questo contributo intendiamo, innanzitutto, proporre quella della crisi della cura come lente per interpretare gli {p. 151}effetti sociali della pandemia. In secondo luogo, illustrando alcune pratiche localizzate di auto-organizzazione che hanno fatto un uso politico del concetto di cura nel contesto dell’emergenza sanitaria, rifletteremo su come la messa al centro dei bisogni e delle attività riproduttive possa contemporaneamente promuovere le condizioni per una vita dignitosa, stimolare la partecipazione politica e trasformare le comunità in modo più egualitario.

2. Una crisi che viene da lontano

Da alcuni decenni, soprattutto a partire dal crollo economico-finanziario del 2008, comunque da ben prima dello scoppio della pandemia di Covid-19, nei Paesi anglofoni si parla di «crisi della cura» (care crisis o crisis of care) per descrivere e denunciare il moltiplicarsi di carenze nella capacità dei sistemi pubblici di welfare di rispondere ai bisogni di salute e benessere di vasti settori della popolazione [Fraser 2017; Dowling 2022].
L’espressione ha origine nella letteratura filosofica e sociologica femminista che da tempo segnala gli effetti concomitanti di deprivazione di sicurezza sociale e sfruttamento delle capacità relazionali in contesti di mercato. Varie autrici [inter alia Hochschild 1997; Ehrenreich e Hochschild 2002; Morini 2010; Calloni 2012; Tronto 2013; Fraser 2017; Casalini 2018] hanno evidenziato come, in corrispondenza con l’ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro retribuito, la privatizzazione e l’individualizzazione della cura, la riduzione del welfare pubblico e l’estensione delle logiche di mercato all’intero ambito dei servizi alla persona, abbiano provocato l’impoverimento della capacità dei singoli e delle collettività di fornire e ricevere cura; e come questo logoramento si estenda al rapporto con l’ambiente non umano [Fragnito e Tola 2021].
Questa condizione, prima che una necessità dettata dall’esigenza di contenere la spesa pubblica, è la conseguenza di un’impostazione ideologica, la traduzione politica e sociale dell’ordine discorsivo del neoliberismo [Dowling 2022]. {p. 152}
In tutti i Paesi in cui, a partire da quei decenni, la razionalità neoliberista si è affermata come egemone, la riduzione delle tasse alle imprese e ai ricchi, unita alle politiche di privatizzazione delle risorse pubbliche e comuni, alla deregulation dell’economia e all’esternalizzazione dei servizi, ha significato lo smantellamento del welfare state e la precarizzazione del mercato del lavoro, anche nel comparto della cura [Harvey 2005]. Con risvolti nocivi sui sistemi per la salute, l’educazione, l’infanzia, la vecchiaia, la disabilità, e conseguente ricaduta del costo della riproduzione sociale sulle famiglie, quindi sul lavoro non pagato, o sottopagato, delle donne [Fraser 2017].
Le conseguenze dannose si estendono, più ampiamente, ai legami sociali e alle forme di partecipazione delle persone alla vita della propria comunità [Tronto 2013]. La crisi della cura provoca infatti anche effetti di ritrazione delle persone nel privato, e l’abbandono dello spazio pubblico. Questo, a sua volta, alimenta sentimenti di privazione e paura, che accentuano, anziché mitigare, le radici del malessere individuale e collettivo, ovvero l’oblio dell’interdipendenza e il disimpegno verso gli altri [Nussbaum 2020].
Quello di neoliberismo, del resto, è un concetto che non si limita a indicare un progetto economico. Si deve intendere, al contempo, come una razionalità, un modo di produzione dei soggetti, un discorso capace di dissimulare efficacemente le condizioni di precarietà materiale attraverso l’enfasi sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale [Brown 2015].
Applicata all’organizzazione della cura, questa razionalità si traduce, secondo Joan Tronto [2017], nell’ingiunzione a prendersi cura di sé stessi agendo in modo razionale e responsabile. La risposta ai bisogni fondamentali è un compito del singolo, non della società. Se ci sono bisogni di cura che non si possono soddisfare da soli, le soluzioni vanno trovate nel mercato. Se non ci si può permettere soluzioni di mercato, allora bisognerà contare sulla famiglia, o su organizzazioni di beneficenza.
Nancy Fraser parla di un’organizzazione «dualistica» della riproduzione sociale (o, potremmo dire, dell’attività di {p. 153}cura): «mercificata», cioè affidata a lavoratrici domestiche, per lo più migranti e malpagate, per coloro che possono permettersela, e «privatizzata», quindi destinata a ricadere sulle risorse familiari, cioè sul lavoro non retribuito delle donne, per coloro che non possono [Fraser 2017, 39].
La cura è infatti ancora oggi largamente un affare di donne, svolto sia in forma non retribuita a casa propria, sia in forma retribuita nelle case altrui. Non è solo un insieme di attività scarsamente riconosciute perché relegate nell’ambito domestico e privato, ma anche un mercato aperto al lavoro povero e migrante, in cui ai bisogni non corrisposti dai sistemi sociali rispondono lavoratrici straniere, spesso costrette a situazioni lavorative inaccettabili dal punto di vista dei diritti e delle tutele, e a loro volta ridotte all’impossibilità di curare i figli e i familiari a carico nel Paese d’origine [Hochschild 2000; Marchetti, Cherubini e Garofalo Geymonat 2021].
È questo insieme di elementi a provocare lo stato di incuria che la pandemia ha posto in speciale rilievo, nel momento in cui ha amplificato, insieme alla vulnerabilità dei corpi e degli ecosistemi, anche i bisogni essenziali che, per essere soddisfatti, necessitano di persone e strutture capaci di cura. Assumere la prospettiva della cura può, di contro, costituire il rovesciamento più radicale del discorso economico, politico e morale del neoliberismo [Molinier 2019; Serughetti 2022].

3. Una questione politica

La più ampia definizione del concetto di cura, in ambito filosofico, è quella che hanno proposto Joan Tronto e Bernice Fisher, scrivendo che la cura (caring) è
un’attività della specie [a species activity] che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro «mondo» in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della vita [Tronto 2013, 19].
{p. 154}
Note