Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/p3

Introduzione

La discussione dell’ultimo decennio attorno agli interventi del legislatore in materia retributiva, alle rigidità legali condizionanti la struttura del salario, all’interpretazione giurisprudenziale di quelle rigidità, in ipotesi tale da alterare gli equilibri fissati dalle parti collettive, ha costituito un momento essenziale della più generale riflessione giuridica sul ruolo della legge e del contratto nella regolamentazione dei rapporti di lavoro.
Non è difficile dare conto dell’affermazione. In effetti, è proprio con le normative approvate dal parlamento fra la fine del 1976 e gli inizi del ’77 che si è cominciato a incrinare il consolidato canone giuslavoristico secondo il quale alla legge competerebbe la funzione di dettare regole minime di tutela, derogabili dall’autonomia privata (individuale o collettiva) solo a favore del lavoratore, introducendosi nell’ordinamento inedite figure di discipline legali standard, bilateralmente inderogabili, o, addirittura, derogabili soltanto in senso peggiorativo [1]
.
A fronte di un rovesciamento di prospettiva, sicuramente di grande rilievo, lo sforzo riconoscibile nella maggior parte della dottrina è stato quello di avvalorare, sia pure con gradi di consapevolezza e soprattutto di propensione alla sistematizzazione assai diversi [2]
, le tendenze emergenti, con ciò obbiettivamente assecondando preoccupazioni diffuse fra le parti sociali, largamente ispi{p. 8}rate, come si vedrà, dalla ricerca di strumenti di contenimento delle dinamiche salariali.
La convinzione da cui muove questo libro è che l’enfasi prevalente anche nell’opinione giuridica abbia portato ad accostare la complessa problematica indotta dalle esigenze di trasformazione delle strutture retributive con un approccio parziale e, complessivamente, deviante: relegando ai margini del dibattito questioni che avrebbero meritato un’attenzione assai maggiore; affrontandone altre secondo moduli interpretativi prevalenti della cui fondatezza è lecito dubitare.
In questo senso si può comprendere perché il tentativo di delineare elementi di una possibile, rinnovata configurazione del sistema salariale prenda avvio da una riflessione sull’art. 36 Cost., derivandone una proposta di introduzione nell’ordinamento di meccanismi legali di determinazione del salario minimo. La tematica, com’è noto, è stata da sempre, fatte salve isolate eccezioni che saranno ricordate, negletta dall’analisi giuslavoristica. Rispetto ad essa inadempienze del legislatore e disattenzione sindacale si sono coniugate, col risultato di privare il nostro ordinamento del lavoro di uno strumento ampiamente conosciuto nei più disparati contesti di relazioni industriali.
In una stagione di accentuato interventismo legislativo in materia retributiva un mutamento della tradizionale inclinazione del legislatore nei confronti della specifica problematica sarebbe stato altamente auspicabile. Se di esso non v’è traccia alcuna, ciò è dipeso dal fatto che il segno di quell’attivismo è stato vistosamente unidirezionale, tralasciandosi, in tal modo, ancora una volta, di predisporre una disciplina la cui opportunità, anzi necessità costituzionale, era già stata affermata dai giudici della Consulta quasi venticinque anni or sono [3]
.
La sottolineatura della tematica del salario minimo, all’interno del dibattito sulla revisione delle politiche salariali, si impone, com’è ovvio, non soltanto per la rilevanza della questione in sé, ma anche per i nessi con la problematica più generale ch’essa presenta, nonché per le possibili, diversificate finalizzazioni di una normativa legale in proposito.
Le molteplici, ipotizzabili, implicazioni di un intervento legislativo sui minimi salariali saranno analizzate nel capitolo primo e {p. 9}nella parte finale del terzo.Sin da ora, peraltro, preme richiamare l’attenzione sulla circostanza che l’esigenza di una disciplina legale in materia non sarebbe meno pressante anche se riguardata soltanto nella prospettiva, più limitata, dell’attuazione di una direttiva costituzionale. Si dirà più avanti delle insufficienze della soluzione giudiziale nell’applicazione del principio della retribuzione sufficiente. Il forte radicamento di tale soluzione ha sicuramente contribuito, nonostante la sua evidente parzialità, a far obliterare l’opportunità di disporre di un referente legislativo più solido. Senonché non può trascurarsi di considerare che recenti indirizzi della Cassazione hanno posto in risalto palesi oscillazioni, la cui ombra potrebbe finire col proiettarsi su un orientamento che si riteneva, complessivamente, consolidato. Quando si afferma, infatti, che il diritto a percepire una retribuzione sufficiente a soddisfare i bisogni vitali deve essere inteso non in termini assoluti e costanti, ma ammettendosi anche scostamenti temporanei al di sotto della soglia minima purché successivamente compensati, alla fine di un periodo di riferimento predeterminato, mediante apposito meccanismo di conguaglio [4]
, si offre della nozione di minimo salariale un’interpretazione elastica, alquanto indeterminata, che potrebbe risultare accettabile soltanto se avvalorata da conformi indicazioni del legislatore, peraltro difficili da immaginare, nel senso indicato, sol che si abbia presente il profilo normativo delle discipline legali straniere. D’altro canto, l’opinione secondo la quale alla norma costituzionale si dovrebbe dare applicazione «ricercando, in un mercato il più ampio possibile, il “prezzo” più basso possibile, registrato dalla contrattazione collettiva» [5]
per una data mansione, a prescindere dalla tariffa, eventualmente più alta, fissata nel contratto collettivo relativo alla categoria di appartenenza del lavoratore, si muove sicuramente in una logica affine a quella della legislazione sui minimi. In assenza di un preciso pa- {p. 10}rametro legale di riferimento, comunque, anche tale operazione interpretativa non può non ritenersi arbitraria: un’indebita surrogazione di funzioni proprie del legislatore, il cui risultato ultimo potrebbe essere soltanto quello di indurre ulteriori incertezze e contraddizioni nella giurisprudenza in materia.
Nessun referente più sicuro a quest’ultima, d’altro canto, potrebbe ritenersi offerto dalla legge 26 febbraio 1986, n. 38, con la quale si sono estese al settore privato le modalità di indicizzazione precedentemente concordate fra governo e confederazioni sindacali per le retribuzioni dei pubblici dipendenti. I caratteri di tale normativa saranno discussi in seguito. Già adesso, peraltro, va rilevato che, nonostante una frettolosa lettura potrebbe indurre a conclusioni di segno diverso, neppure la nuova disciplina contiene una sanzione della misura minima del salario, né presenta alcuno dei connotati tipici delle normative legali in proposito [6]
, risultando, ben diversamente, finalizzata alla definizione di criteri applicabili all’indicizzazione di tutti i livelli retributivi.
Nell’affrontare l’insieme di problemi che si agitano attorno all’istituto retribuzione a partire da una riflessione sulle modalità più conseguenti di attuazione della direttiva costituzionale sul salario minimo, non v’è soltanto il tentativo di recare un contributo al dibattito sulla «riforma del salario». V’è anche, come si sarà già inteso, un richiamo a uno schema, per così dire, tradizionale di relazioni tra le fonti nella regolamentazione dei rapporti di lavoro.
La medesima ispirazione potrà rintracciarsi nel prosieguo della trattazione, laddove si analizzeranno la variegata tipologia degli elementi costitutivi della struttura dei salari e i giochi di reciproche interferenze fra gli stessi. La tormentata (e forse eccessiva) controversia a proposito della cosiddetta onnicomprensività retributiva sarà ricostruita cercando di operare una razionalizzazione, {p. 11}in qualche modo, «interna» alle linee interpretative emergenti in giurisprudenza, anziché una totale negazione delle stesse, secondo l’impostazione, allo stato, dominante [7]
; tenendo conto, comunque, dei dati ricavabili dall’insieme della contrattualistica.
Quanto a questi ultimi, si tenterà di dimostrare che, nella maggior parte dei casi, un’interpretazione puntuale delle clausole collettive porta ad individuare parametri di calcolo delle competenze indirette e differite ampiamente «comprensivi», sottolineandosi anche il ruolo della giurisprudenza nell’evoluzione delle discipline contrattuali. In ogni caso — ed è questo il nodo della specifica problematica — sarà ribadita la soggezione anche dell’autonomia collettiva ai criteri posti, con riferimento a determinati istituti retributivi, da norme inderogabili di legge. L’affermazione, come si potrà verificare, non sarà indiscriminata. Si cercherà di distinguere attentamente, infatti, nell’ambito degli svariati emolumenti che concorrono a formare il complessivo trattamento retributivo, quelli la cui quantificazione è da ritenere pienamente disponibile per l’autonomia collettiva, da altri, rispetto ai quali sembra di dover sostenere la sussistenza di vincoli legali quanto alla determinazione dei rispettivi parametri di calcolo. Solo nella seconda ipotesi, ovviamente, si porrà un problema di conflitto fra discipline contrattuali e normative legali, con esiti differenziati a seconda del diverso grado di «resistenza» individuabile in queste ultime.
Si potrebbe obiettare, in verità, che l’insieme di questioni evocate solo forzatamente potrebbe essere inteso «come un metro significativo di misura del più generale tema dei rapporti tra legge e contrattazione» [8]
, se non altro perché la dottrina che, più argomentatamente, ha sostenuto la legittimità di un’ampia delega all’autonomia collettiva quanto alla definizione della nozione di retribuzione, non nega che «il contratto collettivo, come ogni altro atto di autonomia privata, è assoggettato alla disciplina della
{p. 12}legge e non può a questa derogare se non a favore del lavoratore» e neppure che esistano in materia «criteri o principi generali dettati dalla legge» [9]
. L’affermazione di principio, peraltro, finisce con l’essere svuotata di contenuto allorché risulta completata dal rilievo che quei criteri possono, al più, «assolvere esclusivamente ad una funzione sussidiaria o, se si vuole, di integrazione o di interpretazione del contratto collettivo...» ma «... non possono certo incidere sulle determinazioni dell’autonomia collettiva...» e che «ritenere il contrario significherebbe snaturare il complesso equilibrio che, di volta in volta e caso per caso, è realizzato dalla contrattazione collettiva» [10]
. Come dire, appunto, che, a fronte di determinazioni delle parti collettive di significato inequivocabile, seppure contrastanti con criteri di origine legale, questi ultimi possono essere vanificati.
Note
[1] Ci si riferisce, com’è ovvio, al decreto-legge 11 ottobre 1976, n. 699, convertito in legge 10 dicembre 1976, n. 797 (recante «disposizioni sulla corresponsione degli aumenti retributivi dipendenti da variazioni del costo della vita»), nonché al decreto-legge 1° febbraio 1977, n. 12, convertito in legge 31 marzo 1977, n. 91 (recante «norme per l’applicazione dell’indennità di contingenza»).
[2] Esatti rilievi in proposito in Mariucci, La contrattazione collettiva, Bologna, il Mulino, 1985, p. 399 ss.
[3] Cfr. Corte cost., 19 dicembre 1962, n. 106, in «Foro it.», 1963, I, c. 18.
[4] Cfr. Cass., 21 giugno 1983, n. 4267, in «Giust. civ.», 1984, I, p. 3153, con riferimento ad una fattispecie di retribuzione erogata mediante il sistema c.d. della percentuale di servizio. In precedenza Cass., 20 maggio 1976, n. 1825, in «Giust. civ. Rep.», 1976, v. Lavoro (rapporto di), 736, aveva escluso la possibilità di una compensazione o di una media fra differenti salari minimi percepiti dal singolo in un certo arco di tempo, affermando che al principio di retribuzione sufficiente si deve dare applicazione costante. Nello stesso senso si v. Pret. Roma, 23 aprile 1979, in «Temi rom.», 1979, p. 70.
[5] Ventura, Il principio di eguaglianza nel diritto del lavoro, Milano, Giuffré, 1984, p. 279, con riferimento a Cass., 14 febbraio 1983, n. 1123 (inedita).
[6] Fra l’altro non sembra condivisibile neanche l’affermazione corrente secondo la quale l’intervento del legislatore avrebbe comportato un’estensione erga omnes della disciplina della scala mobile. Ai sensi dell’art. 1, comma 1°, della legge n. 38/1986, infatti, il sistema di indicizzazione salariale concordato per i rapporti di lavoro pubblico risulta applicabile anche ai datori di lavoro privati «appartenenti a categorie per le quali sono stati stipulati accordi o contratti collettivi nazionali, che prevedano meccanismi di adeguamento automatico della retribuzione per effetto di variazioni del costo della vita». Se il riferimento all’appartenenza a una categoria ha da essere inteso come espressivo dell’intenzione di valorizzare il vincolo associativo con una data associazione sindacale, è evidente che di estensione erga omnes, in termini tecnici, non possa parlarsi.
[7] Non mancano, peraltro, analisi più equilibrate: si v. Ventura, Intervento, in Aa.Vv., Problemi giuridici della retribuzione, Milano, Giuffré, 1981, p. 174 ss.; più recentemente Ghezzi e Romagnoli, Il rapporto di lavoro, Bologna, Zanichelli, 1984, p. 252 ss.; Mariucci, op cit., p. 418 ss.; e soprattutto D’Antona, Le nozioni giuridiche della retribuzione, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1984, p. 269 ss. (quest’ultimo condivisibile nell’impostazione di fondo, non sempre nelle soluzioni prospettate in riferimento ai singoli problemi).
[8] Mariucci, op. cit., p. 401.
[9] Le citazioni da Persiani sono rispettivamente in Legge, giudice e contratto collettivo (1977) ora in I nuovi problemi della retribuzione, Padova, CEDAM, 1982, p. 2 e in II tramonto del principio dell’omnicomprensività della retribuzione e il problema dei poteri del giudice sulla contrattazione collettiva, in «Giur. it.», 1984, I, 1, c. 1560.
[10] Persiani, op. loc. ult. cit. Conseguentemente il dissenso di questo autore rispetto al più recente orientamento delle Sezioni Unite in materia (su cui v. ampiamente infra, cap. II), che pure appare innegabilmente mosso da una volontà «liberalizzante» della nozione giuridica di retribuzione, è motivato dall’osservazione che comunque, rispetto a determinate ipotesi, la Cassazione continua ad affermare l’esistenza di criteri legali inderogabili dall’autonomia privata. Cosicché il nuovo indirizzo, pur ritenuto «un’importante evoluzione delle giurisprudenza lavoristica, non appare, però, ancora sufficiente ad invertire la tendenza dei giudici a sovrapporsi all’autonomia collettiva» (ivi, c. 1566).