Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c5

Capitolo quinto Per una riflessione su continuità e discontinuità del colonialismo fra gli antichisti

Abstract
Il capitolo finale si apre sul tema della periodizzazione del colonialismo italiano, partendo dal presupposto dell'impossibilità d'individuazione di una data conclusiva riconosciuta unanimemente. In seguito vengono approfonditi gli aspetti di continuità e discontinuità con il passato concernenti la valutazione dell'esperienza coloniale; se da un lato all'antichistica del dopoguerra vennero a mancare esempi di opposizione al colonialismo, dall'altro il progressivo smantellamento dell'apparato coloniale italiano influì considerevolmente sulle ricerche degli studiosi.
La romanità è un’idiozia, una delle strozzature, il papavero che addormenta gli imbecilli.
«Li mobilita direi.»
Chi? Le coorti degli universitari inneggianti al fuoco di Vesta su per le scale dei casini?
V. Pratolini, Allegoria e derisione
Ragionando sulla periodizzazione del colonialismo italiano, Nicola Labanca ha messo in luce l’impossibilità di trovarvi una data conclusiva unanimemente riconosciuta. Se ci si sposta infatti dal campo politico-diplomatico, cioè dalla perdita effettiva dei territori d’oltremare fra 1947 (trattati di Parigi) e 1949-1950 (risoluzione ONU), per interrogare la sensibilità degli attori coinvolti nel processo coloniale, allora la situazione può cambiare in maniera notevole [1]
. Ai fini della ricerca qui condotta, è allora il caso di chiedersi in quale momento sia avvenuta la decolonizzazione negli studi classici italiani e, anche all’interno di questa ridotta cornice, occorrerà operare delle distinzioni a seconda della collocazione politica, della condizione generazionale e della rete accademica e sociale dei soggetti coinvolti.
È bene precisare fin da subito che quanti fra gli antichisti italiani avevano mostrato uno sguardo critico verso il colonialismo scomparvero prima del dopoguerra. Achille Coen ed Ettore Ciccotti erano entrambi – il che non è privo di interesse – uomini formatisi nell’Ottocento e partecipi degli ideali risorgimentali; il primo morì nel 1921, il secondo {p. 194}nel 1939. Per di più, non avendo alcuno dei due creato una scuola, la loro voce non riecheggiò negli anni successivi e nessuno fu interessato a rievocarne le opere. La figura di Ciccotti fu in realtà riscoperta dalla storiografia marxista negli anni Settanta, ma solo per i suoi studi sulla schiavitù antica; la sua opposizione al colonialismo non riscosse invece grande interesse. Anche chi, come Mariella Cagnetta, volle in quel torno di tempo occuparsi proprio dei rapporti fra scienza dell’antichità e colonialismo, lo fece essenzialmente nel desiderio di indagare le modalità attraverso cui gli studiosi sostennero il regime [2]
. L’espressione di idee o di atti contrari alle politiche fasciste non rientrava fra gli ambiti principali della sua indagine e l’anticolonialismo degli antichisti italiani restò una pagina di storia ignorata e oggi ancora da scrivere.
All’antichistica del dopoguerra non si offrivano quindi esempi di opposizione al colonialismo e quanti continuarono ancora ad esprimersi sull’argomento furono sostanzialmente gli stessi studiosi che erano stati attivamente coinvolti nelle varie iniziative di sostegno alle politiche coloniali del regime. Questa identità di soggetti crea una evidente continuità fra la storia dell’Italia fascista e repubblicana – del resto ben evidente anche in altri campi di studio [3]
–, ma il progressivo smantellamento dell’apparato coloniale italiano non mancherà di orientare le loro ricerche, generando anche forti fattori di discontinuità.
Nel seguito di queste brevi riflessioni conclusive tenteremo quindi di ripercorrere rapidamente alcune delle posizioni espresse dagli stessi studiosi che sono stati oggetto di esame {p. 195}nei precedenti capitoli, tentando di leggere i cambiamenti provocati nelle loro ricerche alla luce dei mutamenti politici.

1. Gaetano De Sanctis e la fine delle colonie italiane

Nella galleria dei personaggi fin qui evocati, Gaetano De Sanctis è l’unico che abbia preso parte all’intera parabola del colonialismo italiano. Nella sua autobiografia, scritta negli ultimi anni della sua vita, vi è un breve capitolo iniziale di natura tematica dedicato a La guerra coloniale. Esso si apre appunto sul ricordo di Dogali vissuto da De Sanctis all’età di diciassette anni. È in quel frangente che, anche per reazione all’ambiente familiare papalino e antiunitario in cui era cresciuto, egli si convinse che, al pari delle altre nazioni europee, anche all’Italia avrebbe dovuto essere riconosciuta la possibilità di avere delle colonie quali vivi presidi di civiltà contro la barbarie. Questa concezione del colonialismo come manifestazione di potenza, necessaria a magnificare la ancora giovane nazione, si saldò al suo profondo cattolicesimo e a una concezione missionaria dell’intervento in Africa che gli fecero anche sviluppare una visione del fenomeno interamente positiva, a condizione che i soggetti in atto si comportassero degnamente. L’Europeo doveva svolgere il ruolo di umano civilizzatore, non quello di fiero e violento conquistatore; il colonizzato invece doveva mostrare di meritare tale grazia accettando il suo ruolo subalterno e adeguandosi alle richieste dei «padri bianchi» [4]
. All’interno del fenomeno trovavano {p. 196}quindi realizzazione due aspetti – gloria nazionale e spirito umanitario – talmente cari al De Sanctis da fargli considerare l’espansione coloniale come «il problema vitale della nuova Italia» e, quindi, il «centro» spirituale cui informare l’insieme della sua vita [5]
.
E per realizzare il sogno coloniale italiano, De Sanctis, in effetti, si impegnò in prima persona e mai mutò la sua posizione di incondizionato favore a politiche che andassero in tale direzione. Già nel 1901-1902, cioè nel periodo in cui gli equilibri internazionali sembrarono permettere un’espansione in quella regione da parte dell’Italia, aveva cercato, insieme a Federico Halbherr, di promuovere una missione archeologica in Cirenaica [6]
, ma i presupposti necessari a tale spedizione, come ricordato, maturarono solo nel 1910, quando De Sanctis «amava anche dirsi nazionalista», secondo una tarda testimonianza di Giorgio Levi Della Vida [7]
. Ancora nel 1935, lo studioso si schierava a sostegno della guerra in Etiopia [8]
e componeva, senza poi pubblicarla, una lettera aperta a Churchill, insieme al quale era stato insignito del dottorato honoris causa ad Oxford nel 1930, sostenendo l’«ingiustizia» delle sanzioni [9]
. Non ritenne quindi di dover far mancare il suo sostegno a quello che considerava come un atto di civilizzazione, anche se voluto da un regime che {p. 197}lo aveva emarginato ed espulso dall’accademia per non aver prestato giuramento di fedeltà.
La perdita delle colonie rappresentò quindi ai suoi occhi l’interruzione di una missione positiva che l’Italia stava compiendo in Africa. Lo ricordò nel gennaio 1951 durante una seduta parlamentare, dove si trovava per effetto della nomina di senatore a vita promulgata dal presidente Einaudi l’anno precedente. L’argomento della discussione quel giorno era molto ampio. Si discuteva della politica estera italiana: del suo riarmo nel contesto dell’alleanza atlantica, in particolare, e del nuovo quadro di equilibri internazionali, in generale. De Sanctis, ormai ottuagenario e non vedente, prese la parola per un breve intervento. Condizionato anche del pensiero della sorte toccata alla Corea, anzitutto mise in chiaro la sua posizione in favore del riarmo e del patto atlantico. Il resto dell’intervento lo dedicava invece a discutere della sua sfiducia nell’ONU, che imponeva all’Italia un trattato di pace umiliante e la sottrazione delle sue colonie, senza considerare il grande lavoro compiuto in quelle regioni. Disse infatti De Sanctis:
Soprattutto si poteva non espellerci dall’Africa settentrionale, riconoscendo in tal modo l’opera di civiltà da noi compiuta in Africa, di cui mi glorio di essere stato anch’io un pioniere. Noi abbiamo trovato la Cirenaica in uno stato di assoluta barbarie. La legge vigente era la lotta fra le tribù, cioè vigeva la legge del più forte. E per la prima volta dopo l’invasione araba, per la prima volta dopo secoli, l’Italia faceva opera di civiltà. Questa opera di civiltà è ormai interamente distrutta e complice di questa distruzione si è fatta vergognosamente l’ONU [10]
.
Le colonie si perdevano, ma restava molto del sentimento che aveva accompagnato la loro conquista. Oltre a questa opposizione nazionalistica verso gli organismi internazionali [11]
, restava vivo in De Sanctis anche il senso della «missione di civiltà». Si è visto quanto egli insista su questo tema per lui cruciale nel corso del suo intervento parlamentare, senza
{p. 198}tuttavia portare alcun argomento che permetta effettivamente di leggere l’azione italiana in questo senso, né riconoscere, in maniera autocritica, le numerose deviazioni rispetto a quella pretesa «opera di civiltà». Il suo discorso prendeva corpo nel contesto di una battaglia politica ancora viva, seppure agli sgoccioli, che rivendicava il possesso italiano delle colonie non fasciste (delimitazione vaga e pretestuosa, come dimostra il caso della Libia, riconquistata e ampliata in età fascista); ammettere gli errori avrebbe indebolito la richiesta in partenza.
Note
[1] N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, il Mulino, 2002, p. 434.
[2] Un solo riferimento a Ciccotti, rapido e in nota, vi è nel suo Antichisti e impero fascista (p. 133, nota 17).
[3] In generale, sull’argomento cfr. A. Del Boca, Le conseguenze per l’Italia del mancato dibattito sul colonialismo, in «Studi piacentini», 5, 1989, pp. 115-128; L. Pastorelli, Una precoce decolonizzazione. Stampa e ambienti coloniali italiani nel secondo dopoguerra, in «Studi piacentini», 28, 2000, pp. 65-95; A.M. Morone, I custodi della memoria. Il Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, in «Zapruder», 23, 2010, pp. 24-38; V. Deplano e A. Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli Italiani, Milano-Udine, Mimesis, 2014; Giù le maschere. Le decolonizzazioni e la contemporaneità, «Zapruder», 59, 2022.
[4] Questa visione umanitaria e razzisticamente caratterizzata del colonialismo è attestata, negli anni Trenta, da testi privati e alcuni scritti di finzione recentemente pubblicati: A. Amico, «I buoni storici sono cattivi romanzieri?». Il sogno letterario di Gaetano De Sanctis, in «Rationes Rerum», 3, 2014, pp. 191-227 (riferimento ai «padri bianchi» a p. 221); G. De Sanctis, Il diario segreto (1917-1933), a cura di S. Accame, Firenze, Le Monnier, 1996, in part. p. 209; Id., Andromaca, Tivoli, Tored, 20222. Essa emerge poi variamente nella sua scrittura storica come è stato variamente messo in luce; cfr. P. Treves, Chiarimento e conferma, in «Athenaeum», 44, 1966, pp. 152-154; G. Bandelli, Imperialismo, colonialismo e questione sociale in Gaetano De Sanctis (1887-1921), in «Quaderni di Storia», 12, 1980, pp. 83-126; M. Pani, Gaetano De Sanctis e l’imperialismo antico, in L. Gasperini (a cura di), Scritti sul mondo antico in memoria di Fulvio Grosso, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1981, pp. 475-491; S. Accame, Il «colonialismo» di Gaetano De Sanctis [1984], in Id., Scritti minori, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1990, vol. III, pp. 1357-1363; C. Franco, Il «Dopoguerra antico» di Gaetano De Sanctis (1920), in «Storiografia», 26, 2022, pp. 29-67.
[5] G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 9-13.
[6] Cfr. supra, cap. II, nota 1.
[7] Testimonianza di De Sanctis [1957], in G. Levi Della Vida, Aneddoti e svaghi arabi e non arabi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp. 362-366.
[8] Rende conto di questa sua posizione in una lettera all’allievo Treves (in F. Mocellin, Piero Treves e Demostene: un antichista durante il fascismo, tesi, Venezia, 2017-2018, pp. 135-136).
[9] A. Amico, Gaetano De Sanctis. Profilo biografico e attività parlamentare, Tivoli, Tored, 2007, pp. 148-149.
[10] APS, 13 gennaio 1951, pp. 22024-22025.
[11] Cfr. Cagnetta, Antichisti e impero, pp. 94-95.