Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1

Capitolo primo Un obelisco per Dogali fra le Termopili e il Cremera

Abstract
Il saggio esamina il rapporto tra storia antica e ideologia coloniale italiana, approfondendone le conseguenze. Questo primo capitolo si concentra sulla descrizione della tragedia di Dogali e la mitizzazione dei suoi caduti. Il processo avviene attraverso l'analogia storica con due noti episodi della storia antica: l'eroica resistenza dei trecento spartani alle Termopili e l'epica battaglia avvenuta sul fiume Cernera tra i trecentosei membri della gens Fabia e i Veienti.
«Io gusto poco Roma antica, la grandiosità delle vecchie pietre…»
«Oh non dica così…»
In fondo, era d’accordo con lui; ma le pareva che stesse bene mostrarsi un poco scandalizzata.
F. De Roberto, L’illusione
Il 22 febbraio 1887, quando il piroscafo San Gottardo entrò nel porto di Napoli trasportando i feriti di Dogali, la folla era in trepida attesa. La notizia della disfatta subita dagli Italiani in terra africana il 26 gennaio era stata inizialmente comunicata in maniera confusa, ma fra il 6 e il 7 febbraio la dinamica dello scontro era stata chiarita grazie alla diffusione del rapporto di Carlo Genè, generale di stanza in Abissinia. Si venne allora a sapere di come alcuni reparti dell’esercito italiano, per un totale di poco più di 400 soldati, erano stati presi d’assalto dalle truppe di Ras Alula nel corso di una manovra di spostamento. L’intera colonna era stata sconfitta, lasciando circa duecento morti sul campo.
Fino a quel momento l’euforia coloniale era rimasta circoscritta a certi ambienti mercantili e ai membri più accesi delle cerchie africaniste, senza avere avuto larga presa sulla popolazione. Fu, tuttavia, proprio l’arrivo di quei soldati e la pronta glorificazione di quelli che presto divennero i «martiri» e gli «eroi» di Dogali a far pendere la bilancia nell’altro senso. Al risultato contribuirono gesti istituzionali dal forte impatto, come la raccolta fondi per le famiglie dei caduti, patrocinata dal re Umberto I in persona, o la celebrazione, con ampio dispiego del tricolore, di esequie pubbliche per i soldati scomparsi. Più di tutto, però, fu lo sfruttamento retorico del conflitto a {p. 18}rendere quell’evento la colonna su cui avrebbe poggiato per anni l’intera impalcatura ideologica del colonialismo italiano. Notizie sui fatti di Dogali, biografie degli ufficiali caduti, continui riferimenti alla barbarie abissina affollano le pagine degli organi di stampa fra febbraio e marzo. Al fine di adattarsi meglio a una narrazione che si addicesse all’eroismo dei soldati, i contorni stessi della battaglia sfumarono negli inverosimili toni di un’epica continuamente raccontata, che ad ogni nuova messa in scena aumentava i dettagli e rinforzava la sua capacità affabulatoria. Il numero dei componenti del battaglione fu presto portato alla cifra tonda di cinquecento soldati, quello dei sopravvissuti azzerato. Gli Italiani sarebbero rimasti fermi di fronte all’orda abissina, resistendo fino a compiere il sacrificio estremo. I corpi dei caduti rimasti sul campo di battaglia, deturpati dal nemico, sarebbero stati ritrovati «in ordine come fossero allineati». Così si espresse il capitano Tanturri nel suo resoconto degli eventi, con parole del tutto inadatte a descrivere realisticamente l’accaduto, ma presto assurte a motto del fiero comportamento dei soldati italiani. L’amplificazione retorica fu talmente pervasiva che l’evento divenne mito e attraverso di esso l’Italia scoprì la sua identità coloniale.
Facendo leva sul riguardo dovuto all’esercito e ai caduti, mutò l’atteggiamento della popolazione di fronte alla politica coloniale italiana e alcuni elementi presenti in occasione dello sbarco dei feriti a Napoli mostrano il cambiamento del paradigma. Anzitutto, vi è la folla, una turba di trecentomila persone estasiate, che si adegua obbediente all’ordine di fare silenzio per non turbare ulteriormente i già fragili reduci al momento del loro passaggio in strada. La maggioranza del paese mostrava così di sostenere ormai la presenza italiana in Africa, anche se non mancavano gruppi di avviso diverso. Il dissenso in effetti esisteva, ma, a partire da allora, poté essere espresso solo con molte cautele, pena l’essere equiparato a un affronto contro l’onore della nazione e il prestigio del suo esercito. E, sebbene Andrea Costa qualificasse proprio tali elementi quali «frasi altisonanti» pronunciate «per far passare la merce molte volte avariata» [1]
, la posizione dei {p. 19}socialisti non solo sarà nettamente minoritaria, ma inizierà a indebolirsi proprio in quel frangente. Mancava infatti la capacità di reagire alle accuse di antipatriottismo e di scarsa considerazione per i «piccoli eroi» di Dogali che tali tesi si portavano dietro [2]
.
A dimostrare la compatta unione del paese di fronte alla tragedia di Dogali vi è poi il sostegno della Chiesa, elemento completamente nuovo nell’Italia del Non expedit. A fianco alle autorità politiche, al porto di Napoli era presente anche il cardinale Sanfelice che benedisse i feriti, prima che questi fossero accompagnati all’Ospedale della Trinità. La Chiesa iniziò così a cambiare il suo atteggiamento inizialmente critico nei confronti delle battaglie africane, preparando in tal modo il terreno alla auspicata conciliazione con lo Stato italiano che proprio in quell’anno sembrava doversi realizzare. La sintonia fra autorità politiche ed ecclesiastiche permise l’organizzazione nei vari comuni d’Italia di funzioni funebri in ricordo dei concittadini caduti. Si trattò di liturgie pubbliche dal forte impatto emotivo, accompagnate da discorsi solenni per mezzo dei quali il tema della presenza italiana in Africa giunse nelle realtà cittadine e nelle aree provinciali dell’intera nazione.

1. L’invenzione dell’Italia coloniale: epitaffi per i caduti

In un testo che ha segnato un momento importante nella storiografia sull’Atene classica, Nicole Loraux si concentrava sull’analisi degli epitaffi per i caduti che si tenevano regolarmente nella città greca. La studiosa mostrava che, facendo leva sul sentimento emotivo di tali occasioni, si stabilizzavano nei discorsi funebri dei topoi ricorrenti che la città via via introiettava come i propri valori cardine. In quelle occasioni, insomma, si «inventava» Atene.
Qualcosa di sostanzialmente simile accadde in Italia fra la seconda metà di febbraio e la prima metà di marzo {p. 20}del 1887. L’Africa, che fino ad allora era stata una terra lontana, tutt’al più dal fascino esotico, divenne viva fonte di interesse e oggetto di un desiderio mascherato, a seconda delle circostanze, sotto le forme del dovere civile, della necessità di vendetta o dell’esigenza di trovare uno sfogo alla difficile situazione interna. Ben più che il fatto stesso di Dogali, sono le celebrazioni che si tennero per i feriti e le commemorazioni dei caduti a generare questo spostamento. Gli oratori che, nelle «cento città» d’Italia, presero la parola per elogiare i soldati morti eroicamente sul campo ebbero a loro disposizione un arsenale retorico già approntato dalla stampa, ma saranno proprio loro a completarne la diffusione nell’intera penisola, potendo raggiungere anche strati sociali normalmente esclusi dalla lettura dei quotidiani. Alcuni temi si imposero allora all’opinione pubblica con una tale insistenza da diventare certezza condivisa e fornire una lettura nazionale omogenea dell’evento. I caduti di Dogali erano stati degli eroi, capaci di combattere fino allo stremo contro un nemico infido. Ad essi erano stati negati la vittoria e il ritorno in patria, ma fu concessa la gloria, per riprendere le parole adoperate da Giovanni Pascoli in una coppia di versi scritta in greco antico e utilizzata per la composizione di una cartolina illustrata a commemorazione dell’evento [3]
.
Tale processo di mitizzazione dei caduti passa naturalmente anche attraverso l’analogia storica e in particolare attraverso il riferimento a due episodi maggiori della storia antica: la eroica resistenza dei trecento spartani di fronte all’invasore persiano alle Termopili nel 480 a.C. e la non meno epica battaglia ingaggiata nel 477 a.C. dai trecentosei membri della gens Fabia sul fiume Cremera contro l’esercito etrusco dei Veienti. Da un lato, vi è dunque un conflitto che nasce per esigenze di difesa contro i Persiani, i barbari per eccellenza, che minacciano di imporre alla Grecia il loro potere politico e i loro dissoluti modi di vita. Dall’altro, un episodio militare che nasce invece dal tentativo di espansio{p. 21}ne dei Romani nella penisola, ma che è presentato come il risultato di un attacco proditorio scagliato dagli Etruschi, altro popolo considerato inferiore sul piano morale e civile; etrusco era infatti Tarquinio il Superbo, il re che aveva violentato Lucrezia e dalla cui destituzione era nata la repubblica romana. L’analogia si sprigiona naturalmente da quelli che sono gli aspetti militari che in maniera più immediata accomunano i tre conflitti – piccolo corpo di soldati-eroi di fronte a un esercito di gran lunga più imponente –, ma si porta dietro anche la caratterizzazione ideologica degli episodi antichi, facendo di Dogali uno scontro di civiltà e un atto eroico svolto in difesa dell’Italia.
Tali furono gli episodi storici maggiormente rievocati nel corso dei funerali svoltisi per commemorare i caduti in terra d’Africa ed è possibile avere un’idea molto precisa dei toni e dei temi cui allora si fece ricorso grazie alla pronta pubblicazione delle orazioni funebri. Opuscoli contenenti tali discorsi proliferarono al punto da costituire un piccolo genere letterario a sé stante, con i suoi luoghi comuni e le sue immagini ricorrenti [4]
. Un numero considerevole di tali scritti fu poi prontamente raccolto all’interno del volume Dogali e l’Italia, pubblicato a Napoli (Stab. Tip. Ferrante) in quello stesso anno per le cure di Augusto De Cesare e Augusto Pulce Doria. Non si saprebbe dire molto di costoro, ma più noto è l’autore della nota introduttiva al volume, Rocco De Zerbi. In quel testo, il fondatore de «Il Piccolo», deputato vicino alla Destra e acceso sostenitore dell’espansionismo italiano, non si sottrasse al gioco dell’analogia, elogiando la «memoria di quei forti che seppero far rivivere le gesta delle Termopili». Del resto, nel giorno dell’arrivo dei feriti a Napoli, egli stesso si era già servito anche dell’altro riferimento storico più in voga e parlato dei reduci come «pronipoti dei Fabii», richiamando anche dei versi attribuiti a Tirteo secondo cui il valoroso «è pari a’ semidei» [5]
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{p. 22}
Note
[1] APCD, 3 febbraio 1887, pp. 2018-2019.
[2] L’espressione «piccoli eroi» fa da titolo a un fortunato articolo di Matilde Serao («Corriere di Roma», 21 febbraio 1887).
[3] A. Traina e P. Paradisi (a cura di), Appendix Pascoliana, Bologna, Pàtron, 20082, n. 14 (εἴθε μὲν ἀμφότερον νίκην καὶ νόστον ὀπάζοις / εἰ δ’ἕν, Ζεῦ, δώσεις κῦδος ὄπαζε μόνον).
[4] Un elenco vasto, ma ancora incompleto, è in G.C. Stella, Dogali (26 gennaio 1887), Ravenna, G.C. Stella, 1987.
[5] Testo pubblicato su «Il Piccolo» e riprodotto in C. Antona-Traversi, Sahati e Dogali, Roma, Antona-Traversi, 1887, p. 93; cfr. P. Vigo, Annali d’Italia. Storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX, Milano, F.lli Treves, 1911, vol. V, p. 18. Il testo poetico evocato è oggi attribuito a Callino (fr. 1 West). Sull’uso di Tirteo, cfr. anche infra, nota 11.