Da esuli a francesi
Gli italiani in Francia durante l'età napoleonica (e oltre)

In seguito al crollo delle "Repubbliche sorelle" del 1799 numerosi furono i patrioti italiani che presero la via dell'esilio in Francia. Qui una parte consistente di essi continuò il proprio soggiorno perfino quando il successivo ritorno francese nella penisola avrebbe permesso loro di rientrare in patria. Così, una permanenza all'estero imposta dalla contingenza del tempo si trasformò in un'esperienza prolungatasi per libera scelta. Analizzando tappe e caratteristiche della presenza italiana in Francia in età napoleonica, questo volume offre per la prima volta una diversa lettura del fenomeno, secondo la quale l'esilio fu anche il momento di avvio di una lunga e inattesa esperienza di vita all'estero. Inoltre, un simile studio permette di riflettere sulla longevità politica della prima generazione risorgimentale. Anche oltralpe, infatti, l'impegno dei rivoluzionari italiani fu ben lungi dall'esaurirsi nel 1799 ed ebbe modo di articolarsi attraverso un lavoro istituzionale e un fermento culturale che si rivelarono ideologicamente tutt'altro che neutri.
La pubblicazione del presente volume è stata resa possibile grazie al sostegno, oltre che dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, anche dell’Università degli Studi della Basilicata

è ricercatore in Storia moderna all'Università della Basilicata, dopo essere stato borsista all'Università di San Marino. I suoi studi si concentrano sulla lotta politica nella stagione rivoluzionario-napoleonica. Tra le sue pubblicazioni: "Cesare Paribelli. Un giacobino d’Italia (1763-1847)" (Guerini e Associati, 2013); "'Il più grande male dell'umanità'. Alexander von Humboldt nell'abolizionismo francese dei primi dell'800" (FrancoAngeli, 2021).

Editore: Il Mulino

Pubblicazione online: 2024
Isbn edizione digitale: 9788815413031
DOI: 10.978.8815/413031
Licenza: CC BY-NC-ND

Pubblicazione a stampa: 2024
Isbn edizione a stampa: 9788815390134
Collana: Fuori collana
Pagine: 416

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I CAPITOLI

DOI | 10.1401/9788815413031/p1
Introduzione

Quando l’esilio non si conclude

Quando nella primavera del 1796 le armate repubblicane francesi facevano il loro ingresso nei territori della penisola, Antonio Buttura aveva preso gli ordini sacri da poco meno di due anni e si avviava a una tranquilla vita religiosa da trascorrere nella terra natia, sulle rive del lago di Garda. Eppure, questo giovane originario della provincia veronese di Malcesine che proprio in quei giorni compiva il suo venticinquesimo anno d’età avrebbe vissuto il resto della propria vita in maniera molto diversa rispetto a quanto aveva fino a quel momento immaginato [1] . Di lì a breve, infatti, si sarebbe svestito dell’abito talare per schierarsi a sostegno della causa rivoluzionaria: così, al trasferimento a Venezia, città nella quale subito militò nei circoli patriottici e fu segretario del Congresso Veneto, sarebbe a stretto giro seguito, dopo la stipula del Trattato di Campoformio nell’ottobre 1797, un nuovo cambio di città che questa volta lo portò a Milano, dove intensificò la sua...
Pagine | 11 - 29
DOI | 10.1401/9788815413031/c1
Capitolo primo

La complessa gestione degli italiani in Francia agli albori del XIX secolo

Nella primavera del 1800, ormai a un anno di distanza dal drammatico crollo delle «Repubbliche sorelle» istituite nella penisola a seguito dell’avanzata delle armate francesi del 1796, l’esilio oltralpe dei patrioti italiani sembrava già avviarsi alla conclusione. Lo scioglimento della Commissione per il soccorso ai rifugiati italiani segnò l’avvio di una diversa gestione dell’esilio, che da quel momento non si fondò più sulla strutturale erogazione di sussidi da parte dello Stato francese (per quanto alcune forme di finanziamenti rimasero comunque possibili). Tale scioglimento, inoltre, costituì una tappa problematica non solo per chi, allora, si trovò a dover provvedere autonomamente alla propria sopravvivenza, ma anche per chi, oggi, quelle vicende prova a ricostruire. Nello stesso mese di marzo 1801 in cui a Parigi si scioglieva la Commissione per il soccorso ai rifugiati, a Firenze, dopo settimane di trattative diplomatiche, veniva approvata la pace fra la Repubblica francese e la Corte di Napoli. Si sanciva così il seppur parziale riavvicinamento fra due paesi che, a seguito dell’adesione della Corte borbonica alla «seconda coalizione» anti-francese, avevano combattuto su fronti opposti nel 1799. Ad ogni modo, nel bene come nel male, la coordinazione di questa mobilità non poteva prescindere dall’evoluzione del più generale scenario europeo e dalle relazioni che la Francia napoleonica andava stabilendo non solo con i governi peninsulari direttamente interessati al fenomeno, ma anche con le altre grandi potenze del continente.
Pagine | 33 - 64
DOI | 10.1401/9788815413031/c2
Capitolo secondo

La congiura di Moliterno: un progetto anti-napoleonico nella Francia consolare

Quando nella primavera del 1800 furono avviate le operazioni militari per la formazione della Legione italica in vista del ritorno repubblicano nella penisola, non tutti i rifugiati presenti oltralpe accettarono di buon grado che il relativo comando fosse affidato al cisalpino Giuseppe Lechi. Divisioni regionali e gelosie personali fecero sì che i malumori non solo non mancassero, ma addirittura mettessero in secondo piano le prospettive di una nuova democratizzazione dei territori italiani. Il passaporto vidimato a Moliterno dall’ambasciatore inglese Merry non fu il solo documento sequestrato al principe napoletano a Calais, perché fra le sue carte furono trovate anche diverse lettere che in sede processuale furono giudicate molto compromettenti, pregiudicando definitivamente la posizione degli artefici della cospirazione. Nell’articolo con cui nel gennaio 1803 il «Moniteur» comunicava la scoperta in settembre della congiura di Moliterno si informava che, insieme a quest’ultimo, a essere arrestato a Calais era stato Belpulsi e non, come realmente avvenuto, Dorinda Austen. Un particolare apparentemente di poco conto, che si potrebbe attribuire a un mero errore giornalistico, eppure esso assume una certa rilevanza se si tiene conto che il giorno prima della pubblicazione della notizia la donna era stata liberata e condotta sotto scorta a Calais, dove, questa volta per davvero, si era imbarcata per l’altra sponda della Manica. Ad ogni modo, del gruppo attivo nella Parigi del 1802 fu Fiore l’unico ad avere un destino diverso. Infatti, se Moliterno, Belpulsi e Austen, dopo essere tornati in libertà, ripresero a tramare anche nel 1806, l’avvocato casertano avrebbe concluso il suo confino nella provincia francese solo nella primavera del 1809, nonostante il suo nome fosse stato l’unico a non esser comparso sulla stampa francese.
Pagine | 65 - 92
DOI | 10.1401/9788815413031/c3
Capitolo terzo

Nella capitale culturale d’Europa

Nell’estate del 1801, dalla sua abitazione parigina sita in rue de la Planche il napoletano Nicola Basti, parlando di sé in terza persona, scriveva al ministro della polizia Fouché per chiedergli il permesso di restare nella capitale francese allo scopo di continuare a seguire i corsi dell’istituto di sordomuti dell’abate Cucurron Sicard. Da ormai diversi mesi uno dei più assidui frequentatori delle lezioni tenutesi in rue de Saint-Jacques, egli, giunto in Francia a seguito delle vicende del 1799, motivava la sua richiesta con l’aspirazione ad apprendere nuove tecniche d’insegnamento da diffondere in patria. Fondato negli intensi mesi della primavera 1794 che avevano preceduto la svolta termidoriana, il giornale «La Décade philosophique, littéraire et politique» era stato a lungo il punto di riferimento (e di ritrovo) della corrente repubblicana conservatrice dei cosiddetti idéologues, i quali si erano prima assestati, nella stagione direttoriale, su posizioni di difesa della Costituzione dell’anno III e poi attivati, dopo la svolta del 18 brumaio, nell’animare la principale voce critica, seppur moderata, nei confronti della politica napoleonica. Anche in terra francese i primissimi anni del secolo segnarono quell’importante passaggio da intellettuali-rivoluzionari a intellettuali-funzionari di cui Umberto Carpi ha descritto in pagine memorabili tanto i tratti politico-culturali quanto i drammi esistenziali. Se da un lato la presenza a Parigi del Ministero degli esteri della Repubblica italiana costituì un punto di riferimento importante per il mondo dell’emigrazione peninsulare, dall’altro l’accesso ai suoi uffici si rivelò non sempre dei più facili e comunque costantemente condizionato dal profilo dei soggetti in questione.
Pagine | 93 - 121
DOI | 10.1401/9788815413031/c4
Capitolo quarto

Augusto Hus, una spia dell’«estremo centro»

Il 1802 fu l’anno non solo della formazione della Repubblica italiana nei territori del lombardo-emiliano, ma anche, in settembre, dell’annessione del Piemonte alla Francia. Essa segnava, per i primi dipartimenti napoleonici della penisola, l’avvio di un periodo, poi conclusosi con il crollo dell’Impero nel 1814 e quindi con il ritorno allo status quo ante imposto dal Congresso di Vienna, interamente trascorso alle dipendenze delle decisioni assunte a Parigi. I rapporti che dall’agosto 1804 al gennaio 1806 Augusto Hus redasse «en qualité d’historien des Piémontais» per poi far pervenire alla polizia con una cadenza di circa 3-4 giorni restino una risorsa interessantissima. Tali documenti, infatti, ci permettono di meglio conoscere, e «dall’interno», abitudini personali e contrasti ideologici di un gruppo nazionale, quello dei piemontesi a Parigi agli albori dell’Impero, che, composto di oltre 150 unità, si rivelò tanto eterogeneo sul terreno sociale, quanto frazionato su quello politico. Pur avendo un carattere essenzialmente politico, i resoconti di Hus non mancavano di informazioni di natura sociale, che permettevano di illustrare alla polizia professioni e abitudini degli uomini sorvegliati. i rapporti di cui si è reperita traccia durano fino al gennaio 1806, l’attività spionistica di Hus continuò ben oltre. Del resto, nemmeno la svolta sancita dal crollo imperiale del 1814 lo avrebbe trovato impreparato, dato che egli avrebbe subito provato a legittimarsi agli occhi della restaurata monarchia borbonica allo scopo di ottenere la continuazione della sua carica. Tuttavia, con il passare del tempo per lui i finanziamenti economici e i sostegni politici diminuirono sempre più, come attestato dalla riduzione del salario annuale impostagli nel 1824 dal nuovo ministro degli interni Jacques-Joseph Corbière, della quale si sarebbe non poco lamentato. Ciò nonostante, ancora nel dicembre 1829, ormai postosi a tutti gli effetti al servizio della monarchia borbonica, insisteva sulla necessità di «bien surveiller les cafés et les cabinets dont le libéralisme et le bonapartisme sont connus de la police» e a tal proposito forniva i risultati della sua attività di spionaggio svoltasi nei luoghi dell’opposizione liberale di una Parigi ormai prossima alla rivoluzione del luglio 1830.
Pagine | 123 - 153
DOI | 10.1401/9788815413031/c5
Capitolo quinto

Il (non) ritorno in patria dei rifugiati napoletani nel 1806

In un lontano lavoro degli anni Trenta del secolo scorso, Benedetto Croce, riprendendo il suo antico interesse per i protagonisti della Repubblica napoletana del 1799, presentava uno studio sulla continuazione dell’esilio meridionale in Francia fino al 1806, anno in cui, come noto, la nuova occupazione francese dei territori del Regno, inaugurando il cosiddetto «decennio napoleonico», dava avvio al ritorno degli esuli confluiti oltralpe circa sette anni prima. dati quantitativi sulla consistenza dei napoletani desiderosi di far rientro in patria meritano un’adeguata riflessione, da svolgersi anche alla luce dell’analisi sulle specifiche cause che portarono i singoli rifugiati a interrompere il proprio soggiorno in Francia. Infatti, al contrario di quanto spesso si tende a credere, non sempre il ritorno degli esuli fu il risultato delle loro volontà, non sempre coincise con la realizzazione dell’atteso miraggio di porre fine alla sofferta permanenza all’estero: anzi, in diversi casi esso si rivelò più imposto dalle istituzioni napoleoniche che richiesto dai singoli rifugiati. Nel giugno 1807 il dilatarsi nel tempo delle domande degli esuli indusse lo Stato francese a chiudere definitivamente i rubinetti e interrompere l’elargizione dei sussidi. Furono 18 gli esuli che non lasciarono la Francia nemmeno nel 1806: una cifra certo non particolarmente elevata, ma che risulta comunque significativa se si considera che è attinta dai documenti riguardanti proprio le richieste di ritorno.
Pagine | 157 - 186
DOI | 10.1401/9788815413031/c6
Capitolo sesto

Tra luoghi di sociabilità e iniziative imprenditoriali

Nell’estate del 1807 un prospetto messo in circolazione sulle rive della Senna dallo stampatore Auguste Guitard annunciava l’imminente avvio delle pubblicazioni di un nuovo giornale, «Il Corriere d’Italia», il cui dichiarato obiettivo era quello di «stringere maggiormente i legami tra l’Italia e la Francia». Si trattava della seconda iniziativa giornalistica in lingua italiana che vedeva la luce nella Parigi napoleonica dopo che, come visto, fra 1803 e 1804 il settimanale «La Domenica» era stato dato alle stampe per 12 mesi su impulso di diversi esuli. Negli stessi mesi in cui a Lione prendeva corpo la Società di Rusca, a Parigi un altro italiano con precedenti politici provava a compiere un’operazione simile, seppur maggiormente improntata sul terreno artistico. L’esule romano Francesco Piranesi, figlio del celebre incisore Giambattista, dopo aver installato con il fratello Pietro una calcografia dedicata alla riproduzione di monumenti antichi, proponeva prima di adibire i locali del suo stabilimento parigino a centro di esposizione, poi di istituire a Milano una sorta di Accademia delle belle arti. «Il Corriere d’Italia» non fu l’unico giornale straniero fondato a Parigi nel 1807, perché nell’aprile di quell’anno prese corpo anche un’altra operazione editoriale, quella del mensile inglese «The Monthly Repertory of English Literature». Galignani intensificava le sue pubblicazioni a carattere politico, concentrando i suoi interessi proprio sui protagonisti che avevano portato all’avvio della Restaurazione, in primis quel duca di Wellington che era stato il grande artefice militare del definitivo crollo dell’Impero. In quegli anni, poi, apportava alcuni cambiamenti alle sue iniziative e se nel 1816 apriva a Cambrai una succursale della libreria, due anni più tardi trasformava la rivista mensile in un settimanale, il «Galignani’s Weekly Repertory», poi interrotto nel 1825.
Pagine | 187 - 220
DOI | 10.1401/9788815413031/c7
Capitolo settimo

Classicismo letterario, purismo linguistico e... identità nazionale

Nella sua affascinante ricostruzione degli ambienti letterari italiani in Francia agli inizi del XIX secolo, Mariasilvia Tatti ha fatto giustamente notare come fra i settori al tempo animati dagli esuli vi fosse in particolare quello relativo alla didattica della lingua. Un ambito, questo, che, dall’erogazione dei corsi d’italiano alla pubblicazione di antologie e grammatiche, aveva concrete implicazioni nel nuovo soggiorno, perché permetteva a tali emigranti di sfruttare le proprie conoscenze per costruirsi una «possibilità di affermazione immediata e facile». Nel gennaio 1804, il «Journal des débats», uno dei più importanti periodici letterari parigini noto per le sue posizioni conservatrici, lanciava un duro attacco agli indirizzi di uno dei simboli della cultura italiana quale Dante Alighieri. La polemica serviva soprattutto per criticare quella parte dell’intellettualità francese vicina alla comunità italiana e raccoltasi nella redazione di un altro giornale culturale quale l’ormai qui noto «La Décade». Nella seduta del Corpo legislativo dell’8 gennaio 1810 uno dei due deputati del dipartimento della Dora, il giurista Giambattista Somis, presentava ai suoi colleghi un testo italiano dedicato alla Storia della guerra dell’independenza degli Stati Uniti d’America. Il lavoro era apparso da qualche settimana nelle librerie parigine per i tipi dell’editore Dominique Colas ed egli ne chiedeva l’acquisizione nella biblioteca ufficiale. L’autore era proprio l’altro deputato del dipartimento della Dora, ossia quel Carlo Botta che, come riferito a suo tempo dalla spia piemontese Hus, era giunto a Parigi sin dall’autunno 1804. Ancora nel 1822, cioè a ridosso di soli due anni dalla sua seconda fatica storiografica (quella Storia d’Italia dal 1789 al 1814 che nei decenni a venire molto avrebbe condizionato anche le fortune della Storia della guerra dell’independenza), Botta, nel tornare a riflettere sulla lunga stagione alle spalle, avrebbe attribuito le polemiche di quegli anni a quella che, in un misto di orgoglio e amarezza, definiva la «disgrazia dello scrivere italiano».
Pagine | 221 - 257
DOI | 10.1401/9788815413031/c8
Capitolo ottavo

Scambi culturali fra i due lati delle Alpi

Nella sua ricostruzione dei rapporti fra Italia e Francia nel primo quindicennio del XIX secolo, Gilles Bertrand ha sottolineato come quella stagione sia stata determinante nell’elaborazione di una «histoire partagée» tra i due paesi. La presenza francese, infatti, certo non mancò di assumere tratti progressivamente autoritari, ma fu al tempo stesso accompagnata da una penetrazione di istanze e sensibilità italiane anche nel contesto transalpino. Nel settembre 1800, pochi mesi dopo il ritorno repubblicano nella penisola sancito in giugno dalla battaglia di Marengo, Pierre-Louis Ginguené, da poco rientrato a Parigi dalla sua missione diplomatica a Torino, interveniva sulle pagine de «La Décade» per invitare i suoi connazionali a trarre giovamento anche sul piano culturale dal riavvio dei rapporti politici fra Italia e Francia. Che la presenza italiana in Francia molto abbia incentivato il contatto fra i due paesi è dimostrato non solo dalla mobilità in entrata e in uscita degli uomini della penisola, ma anche dai ruoli di concreta responsabilità che alcuni di essi svolsero in seno alle istituzioni transalpine. La loro funzione di mediazione culturale, infatti, si articolò certo attraverso corsi d’italiano e pubblicazioni di opere letterarie, ma anche mediante incarichi di responsabilità in organismi ufficiali. Apparsa agli inizi del 1811, l’Iconographie grecque conseguì presto un grande successo, dato che già in febbraio fu trionfalmente recensita dal governativo «Moniteur», che le dedicò un lungo commento redatto dalla penna di un altro componente dell’Institut National quale l’antiquario Aubin-Louis Millin. Tuttavia, almeno per quanto riguarda la redazione di Visconti, il progetto iniziale sarebbe rimasto incompiuto, perché ai tre volumi consacrati all’antichità greca sarebbe seguito, nel 1817, solo il primo tomo dell’Iconographie romaine.
Pagine | 259 - 288
DOI | 10.1401/9788815413031/c9
Capitolo nono

Quando crolla un Impero

Nell’estate del 1814 l’Europa tutta sembrava ormai definitivamente tornata allo status quo ante e a Parigi un Borbone era stato da poco ripristinato sul trono di Francia dopo che il 31 marzo le forze della «sesta coalizione» erano riuscite a fare il loro ingresso in città. Qui, tra l’altro, ancor prima del trionfale ritorno di Luigi XVIII avvenuto il 3 maggio, le grandi potenze monarchiche avevano obbligato l’uomo che nel corso dei precedenti tre lustri aveva non poco condizionato gli equilibri geopolitici del tempo a ritirarsi mestamente in una piccola isola del Mediterraneo vicina a quella da cui proveniva. Se il crollo dell’Impero nella primavera del 1814 innescò subito movimenti sospetti fra Italia e Francia causando l’arrivo oltralpe di nuovi cittadini della penisola, le vicende politiche di quei mesi videro anche un significativo coinvolgimento degli italiani già residenti nell’Esagono. Nelle modalità più svariate e con finalità anche molto diverse fra loro, alcuni di questi non persero l’occasione per ritornare sulla scena pubblica e così provare a indirizzare, secondo le proprie convinzioni e nei limiti delle rispettive capacità, il corso di quelle vicende. Quel lunedì 20 marzo 1815 a Parigi si sarebbe dovuta tenere la prima della nuova gestione del Théâtre-Italien, la cui direzione era stata da qualche mese affidata alla marchigiana Angelica Catalani, soprano fra i più apprezzati in Europa che a seguito del crollo napoleonico si era installata nella capitale francese sotto la spinta delle allettanti proposte fattegli dalla nuova classe dirigente borbonica. Se resta comunque da approfondire l’ipotesi di un Grassi segretamente al servizio delle armate francesi, ci sembra tuttavia innegabile come proprio il suo impegno degli anni Novanta volto a favorire una penetrazione repubblicana in Sicilia costituisca un elemento centrale del suo intero percorso politico. Un impegno, questo, che, sommato alla non marginale circostanza per cui egli avrebbe trascorso in Francia gran parte della sua esistenza, merita di essere tenuto in considerazione anche a proposito dell’analisi delle sue ultime fatiche intellettuali, quelle pubblicate negli anni Venti sull’assetto geopolitico del Mediterraneo.
Pagine | 291 - 325
DOI | 10.1401/9788815413031/c10
Capitolo decimo

Uno studio sulle naturalizzazioni degli italiani agli albori della Restaurazione

Dopo il crollo dell’Impero, la vera questione per le cancellerie europee (e per il nuovo governo francese) era la regolamentazione non tanto dei confini dei paesi sconvolti dal torrente rivoluzionario-napoleonico, quanto della nazionalità dei cittadini stranieri residenti oltralpe. Infatti, se già il Trattato di Parigi del 30 maggio 1814 aveva imposto alla Francia un ritorno ai confini della fase precedente il 1792, più incerta restava la situazione per gli uomini e le donne provenienti dagli ormai soppressi dipartimenti francesi oltreconfine, ossia da quei territori a lungo parte integrante dell’Impero, ma nel frattempo ritornati sotto la giurisdizione delle vecchie monarchie. Al di là dei dati quantitativi, lo studio dei dossier di naturalizzazione permette di effettuare ulteriori riflessioni anche, più nello specifico, sulle modalità con cui furono prima concepite e poi gestite le domande, ossia sui fattori giudicati dai singoli petizionari come maggiormente meritori di essere valorizzati e sui criteri usati nelle relative valutazioni dalle istituzioni ministeriali. Se da un lato l’alta percentuale di naturalizzazioni accordate sul totale delle domande effettuate autorizza a considerare la politica delle restaurate istituzioni transalpine decisamente propensa all’inserimento del personale straniero nelle proprie strutture, dall’altro un simile dato non deve indurre a sminuire la complessità di quei processi decisionali, che spesso, anche quando si conclusero favorevolmente, richiesero per il loro compimento un periodo piuttosto consistente. Diversa, ma comunque legata a questioni relative al profilo personale del petizionario, era la causa del rifiuto impartito a Guglielmo Cerise, giacobino della prima ora nel Piemonte degli anni Novanta poi arruolatosi anch’egli nell’esercito napoleonico.
Pagine | 327 - 363
DOI | 10.1401/9788815413031/c11
Capitolo undicesimo

Nella Francia di Luigi XVIII: un réseau tutt’altro che estinto

Nell’ottobre del 1815, la polizia parigina segnalava l’arrivo in città di due ex ufficiali napoleonici, descritti come «uniquement occupés d’achats de chevaux et de voitures». Si trattava del piemontese Rossetti e del napoletano Caracciolo, entrambi stabilitisi all’hotel des Princes, sito in quella rue de la Loi che già agli albori del secolo era stata fra le strade più frequentate dagli esuli peninsulari. Tuttavia, nonostante le loro legittime professioni, i due furono espulsi a stretto giro con motivazioni che esulavano dalle loro responsabilità individuali e che riguardavano piuttosto valutazioni legate al loro passato e al nuovo contesto politico. Fra coloro i quali facevano ritorno in Francia agli albori della Restaurazione vi era anche quell’Antonio Buttura da cui queste pagine hanno preso le mosse e che, giunto oltralpe come esule, aveva concepito sin dagli albori del secolo «le dessein de [s]’y établir». E nonostante proprio la circostanza del suo allontanamento ostasse al requisito dei dieci anni consecutivi di permanenza oltralpe, il Ministero della giustizia approvava la richiesta in considerazione del lodevole rapporto redatto dalla Prefettura della Seine, che, dopo averne ricordato tanto i servizi diplomatici quanto i lavori letterari, lo descriveva come meritevole della «bienveillance du gouvernement». Marzo 1821: mentre in Piemonte prendeva corpo la rivoluzione che avrebbe momentaneamente portato il reggente Carlo Alberto a concedere una nuova Costituzione e mentre nel Regno di Napoli l’invasione austriaca segnava il dissolvimento delle rivendicazioni di libertà scoppiate l’estate precedente, a Parigi una delle animatrici dei salotti letterari del tempo, Émilie Roland, scriveva all’ex generale napoleonico Claude Marie Meunier per commentare le notizie provenienti dall’altro lato delle Alpi. dalle segrete tecniche di corrispondenza ai concreti protagonisti di quelle trame, dalle informazioni conservate negli schedari di polizia al carattere indipendentista e costituzionale che animò tali rivendicazioni, appare evidente la continuità che legò i movimenti degli albori degli anni Venti a quanto aveva preso corpo sin dal Triennio per poi riemergere a far data dal 181481. E in questo scenario, il lungo contatto che, anche grazie al prolungato soggiorno oltralpe degli esuli del 1799, la penisola aveva instaurato con la Francia sin dai tempi della rivoluzione fu a dir poco cruciale.
Pagine | 365 - 399