Re(l)-azioni
DOI: 10.1401/9788815410795/p1
Al ruolo delle pratiche agricole, seppur con diverse prospettive, si rivolgono invece i contributi di Allolio e Ferretto, e Carucci. Come Cerutti, anche Allolio e Ferretto sembrano voler riconoscere alla marginalità la capacità di proporre innovazione. Nel caso da loro preso in esame, il Piemonte con un focus più mirato al Monferrato casalese, questa capacità di innovazione nelle aziende di agricoltura sociale è un modello alternativo rispetto alla produzione agricola capitalista, che denota la capacità di integrare nell’orizzonte aziendale un fine solidale, di creare nuovi
¶{p. 17}significati identitari per residenti storici e nuovi venuti, di diversificare le imprese agricole incrementandone la solidità, di migliorare la qualità di vita nelle aree rurali da un punto di vista lavorativo, formativo, di welfare (anche se, come le stesse autrici ammettono, si tratta di «un fenomeno diffuso a numeri ancora troppo contenuti per poterne misurare un impatto»).
Alessandro Carucci rimane in Piemonte, ma focalizza la propria attenzione sulla Val Maira, un’area tanto marginale (anzi, un «margine» tanto remoto) da rimanere fuori dai processi di trasformazione e sfruttamento dei «poli» dell’industria e della società «fossile». Come Cerutti, Pigozzi e Borrelli, Allolio e Ferretto, anche Carucci cerca di individuare «segnali di ripresa» e forme di innovazione capaci di scaturire dalle aree interne. A tal fine, l’azione da cui parte l’analisi è il progetto «Percorsi Occitani», destinato ad aprire la valle a chi viene dall’esterno, ri-funzionalizzandone l’infrastruttura sentieristica e implementando un circuito di ospitalità diffusa e ricettività direttamente gestito dai membri della comunità locale. Di questi, molti sono neo-rurali. Per approfondire l’analisi, Carucci segue le vicende neo-rurali/neo-agricole di persone che sono andate a vivere in Val Maira, riprendendo attività agricole e pastorali tradizionali. L’analisi gli consente di riconoscere queste vicende come progettualità proattive indirizzate a una ricerca e a una riappropriazione di autonomia, realizzazione personale e benessere soggettivo capaci di tradursi al contempo in nuove relazioni di cura e presa in carico del territorio nel suo complesso: stili di vita che – a cominciare dal ripensamento delle attività agro-silvo-pastorali e di quelle turistiche nelle loro declinazioni slow e sostenibili – divengono contributi per una rinnovata relazione con il territorio presso cui si è scelto di risiedere, contribuendo a rinnovarne il senso di luogo e l’identità in chiave sempre più «emancipata» e sempre meno «marginale». Se le prime due aziende prese in esame prevedono l’integrazione delle attività agricole con la ricettività turistica, la terza, la più fortemente innovativa, si basa sulla scelta di ripensare il rapporto fra esseri umani e ambiente. Non solo il proprietario della terza azienda ¶{p. 18}esaminata coltiva secondo il metodo biodinamico, ma propone una relazione con la terra in cui non ci sono piante infestanti, ma solo piante spontanee, e dove non solo le forme viventi che entrano in coproduzione (come le api o i lombrichi) meritano di essere rispettate, ma anche quegli insetti che possono essere nocivi per le coltivazioni vengono semplicemente spostati, e non uccisi.
Ai danni, e alle minacce, della modernizzazione si rivolge invece il capitolo di Benetti, Toso e dell’Agnese. Il caso di studio si presenta esemplare da molteplici punti di vista. Si tratta di una zona (un gruppo di comuni nell’Alto Monferrato astigiano) caratterizzata da produzioni vitivinicole di alta qualità, capital-intensive, capaci di attrarre manodopera straniera e sfortunatamente non sempre sostenibili; nel contempo, proprio per le qualità paesaggistiche legate alla coltivazione della vite, la zona è soggetta a un processo di patrimonializzazione (dal 2015 fa parte della World Heritage List Unesco) che ne accentua la capacità attrattiva in termini turistici, nonostante la presenza di residui di passate forme di industrializzazione, talora imponenti. Agricoltura «ricca» e turismo, se da un lato hanno attratto migranti e neo-rurali e incentivato il fenomeno delle seconde case, non hanno impedito l’invecchiamento della popolazione e l’allontanamento dei giovani. In questo quadro altamente complesso, si innesca un conflitto socioambientale, legato al progetto di un impianto di essiccazione fanghi, che se apparentemente si dimostra capace di innescare relazioni, prima assenti, fra i diversi rural users, viene poi smorzato dalla scarsa democraticità con cui viene gestita la dinamica associativa da parte delle componenti istituzionali. L’azione dunque, in questo caso, non si è mostrata sufficiente a creare relazioni, nonostante una vivace partecipazione, almeno all’inizio, a un gruppo WhatsApp arrivato a contare oltre un centinaio di iscritti e a essere teatro di polemiche assai vivaci.
Il ruolo dei social media, e più in generale dei vantaggi (talora presunti) che le connessioni Internet possono portare nelle aree a domanda debole, è oggetto di analisi degli ultimi due capitoli.¶{p. 19}
Gian Luigi Corinto esamina il caso della Versilia, divisa fra area costiera altamente turisticizzata e aree interne, cercando di verificare come i social network possano contribuire alla costruzione di reti sociali caratterizzate da un radicamento territoriale. A tal fine, presenta i risultati ottenuti da un’indagine condotta tramite interviste, che, prive di uno schema prestabilito, si sono svolte come conversazioni sui temi della disomogeneità spaziale delle comunità della Versilia e dell’uso del social media. Particolare attenzione viene rivolta a Facebook, le cui pagine e gruppi consultati sono pubblici e visibili, e WhatsApp, le cui chat sono invece private e agibili solo dopo invito. Come risponde un intervistato, «di certo queste applicazioni aiutano a mettere a punto strategie e azioni condivise; quindi, ci aiutano a far crescere e coltivare il capitale sociale; quindi, penso che in tal senso senza dubbio producano territorio».
Uno sguardo più critico caratterizza l’ultimo contributo del volume. Teresa Graziano si interroga, infatti, proprio sulle narrazioni contemporanee, che alimentano uno storytelling secondo cui la smartness e la partecipazione tecnologica possano funzionare «come panacea per il superamento dei divari». In proposito, l’autrice prende in esame la «galassia discorsiva» sulla smartness territoriale in relazione ai processi e alle azioni di innovazione che riguardano le aree rurali con specifico riferimento al comparto agricolo (Smart Agri-Food), al paradigma teorico-operativo dello Smart Village così come codificato nelle politiche europee e, infine, in relazione ai nuovi flussi del lavoro (smart workers e nomadi digitali). I divari, tuttavia, rimangono, secondo Graziano, proprio a causa della domanda debole che caratterizza le aree rurali, dove «l’assenza di una connessione a banda larga omogenea e diffusa è riconducibile a una massa critica di potenziali utenti non sufficiente a giustificare l’erogazione del servizio». Ciò avviene ancora, nonostante lo Smart Village rientri nelle dimensioni programmatiche delle politiche europee e nazionali di coesione territoriale.¶{p. 20}
Note