Re(l)-azioni
DOI: 10.1401/9788815410795/c5
Le differenti rappresentazioni simboliche dei luoghi contribuiscono a costruirli, sono potenzialmente performative [Dematteis 2021], ma al tempo stesso non sono neutrali. All’interno di ciascuna rappresentazione dei luoghi è presente una visione, nei testi letterari, geografici, nelle canzoni, nei film, nei canali di informazione o pagine Facebook, ma non tutte le visioni acquisiscono la stessa forza. Come Squarcina [2009] ci fa notare, le carte geografiche, ad esempio, diffuse e percepite nel senso comune quale strumento di oggettiva descrizione della realtà, offrono in fondo un punto di vista sul mondo che fa emergere alcuni luoghi e scomparire degli altri, determina un centro e una direzione nel territorio rappresentato. Il «potere demiurgico della
¶{p. 108}carta» che si cela dietro l’utilità pratica, simbolica, didattica [ibidem] contribuisce alla costruzione di convenzioni che fanno parte della nostra relazione con i luoghi. Il fatto è che l’immaginario comune tende a essere polarizzato sui sensi di luogo che ha assorbito e che continua a reiterare attraverso molteplici mezzi. Nell’ottica invece dell’affermazione della coesistenza di molteplici sensi di luogo, soprattutto per quei luoghi che dalla rappresentazione mainstream sono tagliati fuori o univocamente rappresentati, passa attraverso pratiche educative che facciano emergere la diversità nel rapporto con i luoghi. In questo la scuola, centrale nella costruzione della nostra relazione con i luoghi, assume un ruolo chiave.
3.2. Scuole, abitanti e sensi di luogo molteplici
La scuola, soprattutto quella primaria, capillarmente diffusa sul territorio e anello basilare nella costruzione degli apprendimenti, è uno dei primi contesti in cui l’idea di sé stessi e del mondo inizia a prendere forma. In quegli anni si sviluppano velocemente percezioni dello spazio noto, così come l’immaginazione dell’altrove. Questo luogo del vissuto di ciascuno partecipa in modi diversi alla nostra relazione con i luoghi: sia perché fornisce apprendimenti che li riguardano, sia perché ricopre un ruolo centrale nel sistema di spazi nel quale cresciamo. Fedele alla sua doppia natura di istituzione dello Stato ma anche di luogo fisico coinvolto nella vita di una comunità, la scuola è sia strumento di diffusione della base ideologica comune della società, sia oggetto fisico, parte della storia e della cultura di una specifica realtà locale. Ciascun istituto scolastico si connette orizzontalmente con il resto del sistema di istruzione nazionale, che assorbe direttive europee e dialoga con il mondo, e verticalmente con il contesto locale nel quale è situato. Tuttavia, sembra che l’aspetto riguardante la trasmissione di saperi già consolidati e di principi che il senso comune ritiene fondamentali sia molto più centrale nell’educazione scolastica rispetto alla produzione di saperi situati, legati all’esperienza. A partire dagli anni Duemila si è affermato con forza nelle politiche ¶{p. 109}riguardanti la scuola quanto il legame tra istituti scolastici e prossimità fosse importante nella formazione degli studenti, ma anche nella coesione sociale all’interno delle comunità locali. Sempre maggiore autonomia è stata concessa alle singole istituzioni scolastiche per sperimentare percorsi di apprendimento dai contenuti differenziati a seconda del contesto. Tuttavia, la scuola sembra non essere riuscita a liberarsi da un’impostazione piuttosto tradizionalista che partecipa non poco alla trasmissione di rappresentazioni semplificate, anche rispetto ai luoghi.
In diverse occasioni i geografi hanno sottolineato come l’insegnamento della geografia scolastica si configuri come l’insegnamento della disciplina geografica, l’esercizio di un potere, descrizione di un unico punto di vista [Squarcina 2009]. Lo strumento stesso del sussidiario, nel tentativo di essere più esaustivo possibile in uno spazio contenuto, finisce per riprodurre stereotipi di luogo e privilegiare ciò che nel senso comune è visto come bello [Martegani 2009]. I libri di testo sono lo strumento utilizzato per parlare dell’ambiente e della natura, ma rischiano di essere proiezione di una sola idea di mondo che lascia indietro punti di vista e modalità alternative [Calandra 2009]. Lo stile educativo che sembra caratterizzare l’insegnamento rispetto ai luoghi è quello che intende l’istruzione come passaggio di conoscenze dal libro allo studente, dall’insegnante al discente, dimenticando l’intima e necessaria relazione tra processo di apprendimento, esperienza ed educazione [Dewey 1949]. Non è ancora consuetudine la pratica di promuovere l’esperienza dei luoghi a partire da quelli più prossimi, fatta attraverso i corpi in movimento e l’elaborazione da parte di bambine e bambini di rappresentazioni proprie, utili poi nella costruzione anche dei luoghi più lontani.
Eppure, in particolar modo nei contesti più marginali rispetto al sistema economico e sociale globale, la scuola può essere quello spazio in cui iniziare a costruire un equilibrio nuovo tra la consapevolezza di doversi misurare con dinamiche globali e l’elaborazione dell’eredità dei luoghi nei quali cresciamo. Occorre però accettare il valore della diversità a partire da quella delle scuole stesse. Gli istituti ¶{p. 110}scolastici situati in aree scarsamente popolate, difficilmente accessibili, interessate da forti dinamiche di spopolamento e abbandono, subiscono la stessa fatica dei luoghi nei quali abitano ad affermare il proprio valore all’interno di un sistema di istruzione che chiede loro di essere come tutte le altre. Senza voler ovviamente negare la necessità di fornire gli stessi livelli di apprendimento delle scuole dei maggiori centri urbani, c’è da tenere in conto che queste scuole assumono forme particolari proprio per le caratteristiche del territorio nel quale si trovano. Piccoli numeri di studenti e di insegnanti, pluriclassi, servizi ridotti sono caratteristiche comuni nelle scuole dove gli abitanti sono pochi, eppure il loro essere fuori dal comune non impedisce a queste scuole di costituire un presidio fondamentale per le comunità locali, di poter sperimentare stili didattici innovativi, di implementare servizi studiati sulla base di precise necessità. Trovare strategie per resistere è a volte per queste scuole una necessità per contrastare il rischio di chiusura, ma può essere occasione per pensare modi diversi, e non per questo meno validi, di fare apprendimento e di relazionarsi con i luoghi, in sostanza di fare scuola. E allora proprio a partire dall’apprendimento legato all’esperienza, dalla costruzione di narrazioni alternative dei luoghi ai rapporti profondi con l’ambiente locale, si può costruire una strategia in grado di valorizzare insieme le scuole e le aree più marginali.
Questa prospettiva può tradursi, nell’ambito dell’insegnamento della geografia, in percorsi didattici di educazione del/al territorio [Zanolin e Giorda 2019; Dematteis e Giorda 2013; Giorda e Puttilli 2011] centrati sulle esplorazioni nell’intorno più prossimo alla scuola, fatto di luoghi e persone note, portando il corpo nell’apprendimento geografico [Malatesta 2011] e coltivando i sensi di luogo molteplici di bambine e bambini.
4. La geografia (dei bambini) a scuola
Ho potuto sperimentare, nell’ambito della mia ricerca di dottorato un percorso che coinvolge attivamente i sensi ¶{p. 111}di luogo di bambine e bambini nella rappresentazione di contesti marginali nel sistema economico sociale globale, come può essere, in alcune sue parti, la montagna abruzzese. Nelle prossime pagine proverò a raccontare l’esperienza fatta, collegandola ai ragionamenti fin qui portati avanti.
4.1. Tra ricerca partecipata e didattica curriculare
Prima di procedere con i contenuti e gli esiti dei laboratori realizzati, vorrei portare la riflessione sulla tematica dell’incrocio, in percorsi come quello che sto per descrivere, tra pratica di ricerca e pratica educativa. Interessante, dal mio punto di vista, è considerare come il lavoro di ricerca possa essere utile a generare conoscenze condivise con i partecipanti già dalla fase della raccolta dati sul campo e a introdurre elementi di innovazione sui quali i partecipanti possano costruire in futuro qualcosa indipendentemente dall’azione del ricercatore. Questo diventa particolarmente rilevante nel caso in cui i partecipanti sono bambine e bambini e quando la ricerca si svolge all’interno delle scuole. Nel mio caso, quando ho pensato di coinvolgere direttamente gli alunni delle scuole per raccogliere dati a me utili, mi sono chiesta sul piano etico se fosse giusto impegnare il loro tempo nella ricerca. Ho provato quindi a ragionare su cosa la partecipazione allo studio avrebbe potuto lasciare loro. La raccolta dati è stata allora strutturata come un percorso didattico, che avrebbe permesso ai partecipanti di approfondire ed elaborare conoscenze geografiche sui propri contesti di vita. Insieme agli insegnanti delle scuole partecipanti, abbiamo voluto inserire i laboratori all’interno della didattica curriculare delle classi, utilizzando alcune delle ore di insegnamento della geografia. Questo mi ha permesso di condividere con le scuole il riconoscimento del valore educativo di una didattica della geografia legata all’esperienza, oltre che di proporre alle scuole piccoli spunti di riflessione sui possibili modi di fare scuola.
Uno di questi riguarda l’approccio degli adulti al lavoro con i bambini e la distribuzione del potere nell’attività ¶{p. 112}educativa. Fino alla metà del Novecento gran parte della ricerca che coinvolgeva i bambini è stata impostata lavorando dal punto di vista degli adulti sui bambini, rischiando però di perdere la possibilità di esaminare aspetti importanti dell’esperienza vissuta dagli stessi [Burke 2005]. A partire dagli anni Settanta, il cambio di paradigma influenzato dalle epistemologie costruttiviste, ha portato la ricerca qualitativa verso pratiche più inclusive e confini più labili tra ricercatore e partecipante. Questo ha implicato un coinvolgimento sempre più attivo di bambine e bambini nella pratica di ricerca, operando lentamente un passaggio verso una modalità di lavoro con i bambini [ibidem]. Per fare in modo che questi possano davvero assumere un ruolo attivo nella ricerca, c’è però bisogno di ragionare sul come creare le condizioni perché ciò avvenga. In questo vanno tenute in conto le distanze esistenti tra il mondo degli adulti e quello dei bambini, in primo luogo dal punto di vista delle asimmetrie di potere che la società solitamente assegna a questi due gruppi, ma anche per le differenze nei modi di pensare, agire e rappresentare il mondo.
Ai fini della ricerca era per me importante cogliere nel profondo idee e percezioni dei bambini sulla propria quotidianità. Per fare ciò, c’era bisogno che questi fossero in condizione di esprimere liberamente sé stessi, abbassando il livello di autorità di cui solitamente gli adulti dispongono, soprattutto nel contesto scolastico. Nell’educazione scolastica, infatti, è consuetudine la netta separazione tra docenti e dirigenti adulti, che gestiscono il funzionamento della macchina scolastica e sono incaricati di organizzare e trasmettere i saperi, e i gruppi di studenti, solitamente destinatari del sapere, con poca possibilità di decidere sul funzionamento della scuola e sulla didattica. Nelle scuole primarie poi, la giovane età degli studenti – seppur limitando forse la conflittualità che nei gradi di istruzione superiore si viene a creare tra giovani e meno giovani – definisce un netto confine tra il ruolo degli adulti e quello dei bambini. I bambini sono quindi piuttosto abituati a stare all’interno di queste regole, adeguando comportamenti e giudizi al volere degli adulti, o a quello che pensano essere il volere degli
¶{p. 113}adulti. Da ricercatrice che entra nel mondo della scuola, e che ha bisogno di mettere in discussione la consuetudine per ottenere dati veritieri, ho cercato di concedere gradi maggiori di libertà ai bambini [Cele 2006] rispetto alle loro abitudini e di prendere parte attivamente alle attività facendo assieme. La sfida è imparare come questi utilizzano, si relazionano e riflettono sui fenomeni, sforzandosi di comprendere quali siano le differenze tra bambini e adulti e come sia possibile metterle in comunicazione per generare mutuo apprendimento [ibidem]. Mettere in discussione l’idea che un adulto, che entra in classe e si incarica di un’attività, possa non assumere il ruolo del maestro ordinatore ha richiesto specifiche attenzioni. Una di queste è stata lavorare fin da subito sulla consapevolezza dei bambini del ruolo che avrebbero assunto nella ricerca e sugli obiettivi del lavoro da fare insieme, e cioè studiare una materia cui i maggiori esperti non erano i maestri ma i bambini stessi. Comunicare questo passaggio agli adulti è stato a volte più complesso. Alcuni dei docenti hanno scelto di prendere parte alle attività di laboratorio assieme ai bambini, sperimentando dei rapporti nuovi e più alla pari, confrontandosi all’interno di un unico gruppo in cui si lavorava spalla a spalla. Quando ciò non è accaduto, e i docenti hanno preferito assumere un ruolo di supporto alla tenuta della classe, sono stati comunque affascinati dall’assistere a un’attività inconsueta. In pochi casi gli adulti hanno assunto un atteggiamento di controllo nel lavoro dei bambini, che hanno comunque dimostrato di saper essere ottimi difensori della propria autonomia.
Note