Andrea M. Maccarini (a cura di)
Character skills e didattica digitale
DOI: 10.1401/9788815374615/c1
Un’altra, importante implicazione può essere colta attraverso l’idea di potenzializzazione. Un mondo imprevedibile, rapido e in cui le possibilità di esperienza e azione si moltiplicano è anche un mondo in cui non è possibile istituire aspettative certe e occorre prepararsi a «diventare tutto». Le identità e le strutture sono quindi costrette a rendersi sempre più flessibili e disponibili all’autotrasformazione, utilizzando il cambiamento esterno non come sfida a cui {p. 11}resistere, ma come opportunità per ripensare continuamente il nocciolo essenziale della propria mission, sviluppandola lungo una certa linea direttrice, ma modificando in profondità orizzonte, forme e strutture della sua realizzazione e gestendo in modo flessibile i propri confini. Ciò comporta tra l’altro un continuo esercizio d’immaginazione, rivolto a sé stessi, con le proprie identità e pratiche, guidato dalla possibilità di essere e realizzarsi sempre «diversamente». Certo, questa tendenza interferisce con un tratto culturale che viene da lontano, intrecciandosi strettamente con i processi d’individualizzazione e con la gamma di possibilità espressive a essi legate. La possibilità di «diventare tutto» fa parte, in questo senso, della liberazione dell’individuo dai legami ascrittivi e della sua autoimmaginazione che tende a espandere la propria sfera di esperienza, di azione e di autorealizzazione identitaria. Rendere massimamente flessibile questo processo – secondo la formula «dream of everything you can become, and become everything you dream of» [5]
– può anche rappresentare lo zenit di questa costellazione societaria. Laddove l’imprevedibilità sociale cresce oltre una certa soglia, tuttavia, il medesimo processo viene tradotto dal codice del desiderio a quello della necessità. Vivere in una condizione di «aspettative crescenti» – come è stato per le prime generazioni nate dopo la Seconda guerra mondiale – è diverso da vivere in un mondo «senza aspettative». Questa situazione rende più acuta la crisi della continuità e della congruità dei contesti di vita entro cui le persone sono socializzate: come la teoria sociologica ha osservato da tempo, l’emergere continuo di situazioni nuove mette in crisi l’azione di routine, provocando l’espansione della riflessività [6]
. Le persone possono sempre meno trovare
{p. 12}nelle varie agenzie di socializzazione una guida normativa coerente per le loro azioni. Di conseguenza, devono sempre più basarsi sulla propria riflessività personale, sulla propria capacità di valutare i propri progetti di vita in relazione al mondo che cambia. La necessità di selezionare tra molteplici esperienze e azioni possibili genera il bisogno di efficacia progettuale e decisionale.
In ultima istanza, dunque, i giovani devono oggi affrontare un orizzonte di vita per molti versi paradossale: «devono» predisporsi a rimanere costantemente aperti a «diventare tutto» – s’immagina anzi che debbano «naturalmente» desiderarlo – ma diviene sempre più problematico il senso di questo «tutto», cioè delle varie opzioni e delle differenze tra esse. Diviene sempre meno accessibile un quadro culturale più ampio che ecceda l’individuo e il suo benessere psico-fisico [7]
. La condizione, per molti, si approssima a quella di una performatività senza orientamento [8]
. Questo spiega anche l’ulteriore torsione riflessiva per cui molti giovani devono poi essere motivati a essere motivati, il che parla del grande disagio in cui si trovano.
La riflessione sui bisogni educativi emergenti, oggi, deve ripartire da qui. Essa è frequentemente declinata sottolineando la rilevanza dell’imparare a imparare – e a dis-imparare, cioè poi a sciogliere i nodi di habitus mentali, per esempio professionali, ormai divenuti problematici rispetto alla necessità di produrre innovazione. L’aspetto meta-cognitivo è senz’altro importante, ma sarebbe un grave errore farne un focus di attenzione pressoché esclusivo. Più radicalmente, il punto è capire se, e perché, ciò che s’impara ha anche un valore in sé, al di là dell’utilità funzionale ad apprendere qualcos’altro. Di conseguenza, il punto è perché si dovrebbe {p. 13}essere motivati a imparare, tout court. Transitare direttamente da un’idea umanistico-classica a una puramente funzionalista di educazione implicherebbe una visione molto riduttiva dell’orizzonte sociale e culturale in cui viviamo.
La questione delle character skills si situa, oggi, all’interno del perimetro disegnato da queste tensioni strutturali e culturali. Esse non costituiscono, di per sé, alcun meccanismo automatico. Spetta a una cultura il compito di pensarle e proiettarle sul piano delle pratiche educative. Possono senz’altro essere concepite come un «modo nuovo» di pensare il soggetto umano in quanto tale, cioè in modo totalizzante. Chi sostenesse questo finirebbe per stirare questo strumento oltre i suoi limiti, illudendosi di poter semplicemente dissolvere i legami di alcuni atteggiamenti e comportamenti umani fondamentali – come la cooperazione, la perseveranza, l’attaccamento a obiettivi, la fiducia, l’apertura mentale, la capacità di comprendere gli altri eccetera – con le culture che da sempre li (ri)generano. Ciò che i sistemi educativi possono aspettarsi dalla riflessione sulle SES non è avere a disposizione una «nuova» fonte che costituisca il senso delle cose, ma una risorsa pratica per dischiudere tale senso. Conoscere meglio le qualità socio-emozionali di alunni e alunne, entrare in sintonia con esse, stimolarne lo sviluppo, può servire a mediare l’accesso ai contenuti, ai significati, insomma all’insieme del mondo naturale, sociale e pratico con cui le persone non possono – anche solo per ragioni di pura sopravvivenza – non entrare in relazione.
In ultima analisi, dunque, l’orizzonte che dà senso a questo discorso consiste in un’idea di educazione come capacità di relazione sensata. Parlare di SES significa, allora, entro questa formula, porre l’accento sull’aspetto della capacità. Costituire una forma vitale e progettuale (sensatamente orientata al futuro) di relazione con sé stessi, con gli altri e con il mondo è il nocciolo, il cuore dell’educazione. Implica sviluppare attaccamento per, e investimento di sé nel mondo. Implica sviluppare «premure», nel duplice senso di «ciò che urge» e di «ciò che sta a cuore», il che diventa possibile se la propria relazione col mondo è radicalmente percepita come sensata. E ciò accade – il mondo «ci dice qualcosa» e {p. 14}con esso diventa possibile «entrare in risonanza» – ancora una volta attraverso relazioni [9]
.
Ma tutto questo accade nella società che abitiamo, in cui relazioni e comunicazioni sono intensamente mediate dalla tecnologia, in cui il declino demografico renderà la fraternità/sororità un’esperienza sempre più rara e in cui l’amicizia stessa è alla difficile ricerca di tempi e spazi possibili; in cui, infine, una cornice culturale comune appare sempre più evanescente e problematica, tra le società nazionali e all’interno di esse, tra le grandi entità geo-culturali come nella vita quotidiana, e al tempo stesso s’intensifica l’interazione – l’avvicinamento [10]
– con altri profondamente diversi. Per tutte queste ragioni, quella capacità di relazione sensata non può essere appresa spontaneamente, «sul campo», ma deve spesso essere imparata intenzionalmente, attraverso processi espliciti: in un certo senso «come il latino» [11]
. Se questo comporta il rischio di una certa artificialità, che sta alla creatività educativa evitare, appare anche una strada obbligata per una scuola che non intenda scivolare nell’incomunicabilità tra le generazioni e in ultima analisi nella marginalità culturale.{p. 15}

2. Il nesso fondamentale: didattica digitale, «character skills», riflessività

La ricerca presente parte da questo background teorico e incorpora le premesse che abbiamo brevemente delineato. Si tratta ora d’illustrare il suo oggetto specifico, la sua articolazione, le domande che la generano, gli aspetti e i luoghi del processo educativo/socializzativo che ne costituiscono il campo di gioco. Ciò implica portare il discorso sul nesso fra trasformazioni della scuola, didattica digitale e competenze socio-emozionali.
In tutto il mondo il vento della pandemia ha colpito crudamente sistemi, strutture e culture educativi, accelerando cambiamenti, evidenziando problemi, qualche volta provocando crolli. In Italia, il complesso istituzionale della scuola si trova oggi esposto all’osservazione e alla critica, senza la protezione di tradizioni e canoni ancora dotati di una qualche validità indiscussa o almeno ampiamente condivisa. Il presente volume affronta un aspetto specifico, ma cruciale di questo grande e complesso «fatto sociale»: il senso e l’impatto del passaggio alla didattica a distanza (DAD). Essa – successivamente nella forma della cosiddetta «DDI» (didattica digitale integrata) – è stata praticata a partire dalla prima ondata pandemica della primavera 2020 e poi durante tutto l’anno scolastico 2021-2022, con una logica di stop and go, e ha rappresentato un’inedita discontinuità nelle biografie educative di alunni e insegnanti, modificando profondamente le relazioni all’interno e tra questi gruppi.
Vivere in emergenza sanitaria o in contesti altamente all’erta, come sta ancora accadendo nella maggior parte dei paesi del mondo, ha rilanciato con forza il tema della DAD e del ruolo della tecnologia nell’educazione scolastica, con urgenza e in modalità parzialmente diverse dal passato. Se per lungo tempo essa è stata intesa come strumento residuale negli interventi didattici rivolti alle fasce d’età dell’obbligo e del postobbligo, o è stata utilizzata in specifici contesti (prevalentemente per la formazione degli adulti, attraverso i MOOC), la situazione pandemica ha invece fatto entrare a {p. 16}forza la didattica digitale nel mondo della scuola, in modo trasversale agli ordini e gradi.
Le conseguenze sono state molteplici. In primo luogo, a seguito della pandemia e delle misure di protezione della salute pubblica, è temporaneamente scomparsa tutta una dimensione materiale della vita scolastica e con essa un lessico: «vado a scuola, esco da scuola, quello è il mio banco, vieni alla cattedra per l’interrogazione, aspetto l’intervallo, facciamo merenda in cortile, quando arriva la ricreazione»; sono tutte espressioni cadute, almeno temporaneamente, in disuso e sostituite da altre, del tipo: «non riesco a connettermi, togli l’audio, condivido lo schermo, troverete le dispense nel cloud». Quanto agli aspetti organizzativi, per quanto riguarda sia i docenti, sia gli studenti, le dotazioni sono divenute essenziali; non a caso la loro mancanza o insufficienza ha contribuito a incrementare le disuguaglianze nelle opportunità educative. Inoltre, le competenze tecnologiche sono divenute determinanti onde riuscire a realizzare una didattica efficace e a fruirne in modo adeguato. In breve, al livello dell’organizzazione il cambiamento ha preso forma su tre piani: rispetto ai luoghi, ai metodi di insegnamento/apprendimento e rispetto alle relazioni educative.
Anzitutto, per oltre un anno la scuola non è più stata un luogo fisico: non più quella scuola, a quell’indirizzo, con quelle aule, quel cortile, quei banchi. È entrata a casa di ciascuno, o per meglio dire si è svolta da casa di ciascuno, non con istitutori a domicilio, ma con insegnanti che entrano a forza attraverso lo schermo del PC dentro cucine affollate, camere da letto da rassettare, balconi, divani. La dematerializzazione dell’edificio scuola pone la prima sfida nella dimensione dello spazio: gli alunni devono sapersi organizzare, imporsi regole nuove, voler continuare a fare scuola davvero; gli insegnanti devono trovare nuovi modi per fare lezione, uscire dalla zona di comfort di anni di scuola svoltisi dentro le aule per far diventare aula una stanza qualsiasi, nella domesticità privata di ogni alunno. La mancanza di un luogo fisico definito amplifica la disuguaglianza, aggiungendosi a quella derivante dalle competenze digitali e dal possesso dei dispositivi cui si faceva cenno poc’anzi:
{p. 17}mostra case piccole e affollate da una parte e case ampie, lussuose, confortevoli, magari troppo grandi per chi le abita, dall’altra; evidenzia le differenti dotazioni tecnologiche, più o meno aggiornate oppure obsolete; sottolinea la differenza nelle risorse e nei consumi culturali delle famiglie.
Note
[5] Un’interessante teoria della potenzializzazione come necessità funzionale percepita in ambito organizzativo si trova in Andersen e Pors [2016]; per una prima applicazione al campo dell’educazione si veda Andersen, Knudsen e Sandager [2022], da cui riprendo anche la formula qui citata.
[6] Questo è ciò che in vari lavori Archer [per es. 2009] ha definito l’imperativo riflessivo. Tornerò su questo punto in un successivo paragrafo del presente capitolo.
[7] In questo senso la situazione culturale contemporanea corrisponde, sotto certi aspetti, all’idea di «terapeutica» elaborata dal grande (e dimenticato) Philip Rieff [1966]. Tornerò altrove su questo argomento. L’assenza di riferimento a un quadro culturale più ampio presenta dei riscontri empirici che saranno sottolineati nei capitoli terzo e quinto di questo volume.
[8] Quello dell’orientamento è a sua volta un tema di grande rilevanza, che in questo volume potremo soltanto sfiorare.
[9] Sul filo di questa argomentazione diventa rilevante la connessione tra l’idea di educazione come relazione sensata, la nozione di character skills e una teoria dell’educazione come «risonanza» [Rosa 2016, 402-419; Rosa e Endres 2016]. L’educazione come relazione sensata rappresenta in sé un’idea non nuova, che rimanda a una visione complessiva del sociale come relazione. Su questo si veda per esempio Donati [1991; sul fenomeno educativo soprattutto cap. 7].
[10] Questa espressione allude all’idea di una società «senza esterno», in cui vengono meno le distanze simboliche e sociali – benché possano essere imposti distanziamenti fisici. Su questo mi permetto di rinviare a un mio contributo [Maccarini 2019].
[11] Questa singolare espressione è emersa – piuttosto curiosamente – in una delle nostre interviste con insegnanti e in una lunga intervista – profilo biografico di Margaret Archer – il cui lavoro sociologico è una delle fonti d’ispirazione di questo studio. La riprendo qui, nel significato specifico che dovrebbe essere chiaro, dato il contesto discorsivo.