Andrea M. Maccarini (a cura di)
Character skills e didattica digitale
DOI: 10.1401/9788815374615/c1
Ragionare su queste domande implica due grandi nuclei generativi del discorso. Il primo tratta l’impatto della crisi dal punto di vista dell’apprendimento scolastico-disciplinare e della rilevanza economica dell’istruzione. Sotto questo profilo, il notevole effetto negativo sugli apprendimenti è già stato ampiamente dimostrato [16]
. Sul piano economico, tale perdita di conoscenze e competenze – cioè di capitale umano – si tradurrebbe, secondo stime autorevoli, in un calo del PIL nazionale quantificabile nell’1,5% per ogni anno fino alla fine del secolo [Hanushek e Woessman 2020] [17]
. A livello individuale, naturalmente, ciò significherà perdite di reddito lungo tutto l’arco della vita lavorativa, minori opportunità e chances di vita in generale e maggiori
{p. 22}diseguaglianze, ancora difficili da quantificare, ma molto probabilmente di vaste proporzioni.
Il secondo polo di analisi, quello che qui c’interessa più da vicino, riguarda lo sviluppo umano dei giovani. Da questo punto di vista, le evidenze sono per ora assai più indirette. In parte, ciò dipende fatalmente dall’oggetto di osservazione. È concettualmente facile (benché tecnicamente complesso nelle raffinate operazioni di misurazione) esaminare il gap di competenze in matematica (o in altre materie) dovuto alla chiusura delle scuole, e poi proiettare questa carenza sul quadro del capitale umano a livello aggregato. D’altro canto, invece, interpretare gli effetti del grande evento pandemico sui sistemi psichici e sullo sviluppo psico-sociale dei giovani è naturalmente più complicato. Si può, certo, osservare un aumento di ansia e depressione. Gli studi recenti sono concordi nel cogliere un forte incremento di questi stati [18]
. Al di là della produzione scientifica, la realtà dei servizi psichiatrici e psicoterapeutici sul territorio restituisce un’immagine molto netta di adolescenti e giovani in crisi profonda, benché spesso silenziosa (per ora); una marea di disagio che sale, una problematica per il momento sottovalutata o soverchiata da altre priorità – reali o apparenti – ma che minaccia di portare i suoi danni nel lungo periodo. L’accumularsi di fattori di stress – si dice, ovviamente: dopo la pandemia la guerra! – è un’ulteriore spinta nella stessa direzione. Tuttavia, in primo luogo, l’analisi di queste situazioni gravi, ma temporanee non consente immediatamente previsioni certe sugli effetti a lungo termine. Inoltre, e soprattutto, la questione è più ampia e multidimensionale rispetto al manifestarsi di disturbi e patologie, che rappresentano la punta di un iceberg. Il benessere e il malessere psichico e sociale dei giovani, la loro capacità di cercare e trovare il proprio posto nel mondo, di relazionarsi positivamente con sé stessi e con gli altri entro le sfere sociali in cui si svolgono le loro vite, di attribuire senso alle proprie esperienze e di pensare sensatamente {p. 23}al loro futuro, facendo progetti e dando forma al proprio percorso di vita in relazione a essi – tutto ciò va molto oltre la sola prevalenza di ansia e depressione (che ovviamente rimane un indicatore importante) e costituisce non una «variabile», o un insieme di variabili, ma un nodo problematico di eccedente complessità, anche per la sua proiezione nelle nebbie del «lungo periodo» in cui si situano alcuni dei life outcomes più rilevanti. Il punto è tentare di capire che cosa ne sia delle traiettorie biografiche dei giovani, fluttuanti in un ambiente sociale instabile e con pochi punti di riferimento; della loro generatività e capacità di futuro tra ritiro e impegno, tra perdita e recupero di senso, tra percezione apocalittica e ingaggio individuale-performativo. Ciò che ci riguarda in questa sede è più specificamente quale ruolo possa avere in tutto questo l’esperienza scolastica. Parlando di character skills e di riflessività intendiamo attaccare questo fronte problematico da un particolare versante, consapevoli di poter soltanto cominciare a gettare una luce parziale su alcune delle sue dimensioni. La questione sottostante è se la tecnologia rappresenti prevalentemente un mostro che ora, nelle varie forme assunte dal classware, sta invadendo anche la scuola, dopo essere già divenuto dominante in altre dinamiche e sfere di vita sociale e personale, oppure se non si aprano con essa anche e specialmente possibilità d’insegnamento/apprendimento positive [Koehler e Mishra 2009; Mishra e Koehler 2006]. L’attenzione va dunque al nesso tra due attori e nuclei tematici in sé rilevanti: da un lato la tecnologia, dall’altro i giovani alunni, con le loro conoscenze e competenze, intese queste sia nel senso specifico, sia in quello generalizzato di «ciò di cui le persone sono capaci» [Boltanski 2009].

3. L’«imperativo riflessivo»: alunni adolescenti e didattica a distanza nella scuola che cambia

Parlare di giovani alunni e delle loro competenze e riflessività non deve indurre a un equivoco. La nostra ricerca non li ha studiati come categoria a sé stante, individuata come {p. 24}coorte nata in un determinato torno di tempo e dotata in quanto tale di un certo «capitale» di competenze e capacità riflessive. Dal punto di vista sociologico, abbiamo considerato le competenze socio-emozionali e le forme della riflessività come proprietà che emergono dalle relazioni – con sé stessi, con gli altri, con le dimensioni simboliche, materiali e pratiche del mondo. In altri termini e per dirla in breve, ciò significa che se i giovani sono come sono è perché il mondo degli adulti li socializza-ed-educa in un certo modo. Dunque anche il senso di essere una generazione, di saper generare il proprio futuro, la definizione dei propri problemi e il modo di affrontarli nascono e si svolgono in relazione alle altre generazioni. È nel contesto delle generazioni compresenti che bambini e adolescenti hanno sperimentato un nuovo modo di fare scuola, una diversa socialità, talora anche una riscoperta di un modo di essere e stare nel mondo che per certi tratti era già appartenuto ad altre generazioni; ma nel contempo anche forte disagio, senso di isolamento, perdita di progettualità e di obiettivi per il futuro. Se si vuole porre seriamente il problema dell’esistenza o no di una ipotetica «generazione Covid» occorre studiare i processi di socializzazione che favoriscono od ostacolano l’emergere di un «nesso generazionale» e con ciò la maturazione eventuale di comuni atteggiamenti e orientamenti culturali alla vita e al futuro, in questa specifica situazione di catastrofe della socialità [19]
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Naturalmente educatori, dirigenti e insegnanti, genitori e amici sono tutti protagonisti di tali processi – benché non i soli, com’è ormai del tutto scontato nella società della comunicazione [20]
. Per una teoria della socializzazione non deterministica, ma orientata alla riflessività, sia le caratteristiche dei soggetti e il loro approccio all’interazione, sia le relazioni in sé sono dunque il nocciolo della questione [21]
. Entro questa cornice, anche le narrazioni e interpretazioni che il mondo adulto offre sono importanti per i giovani e richiedono la loro rielaborazione creativa [Corsaro 2020]. Sotto questo profilo, le molteplici narrazioni intorno alla pandemia generate da diversi attori sociali sono a oggi descrivibili come chaos narratives [Frank 1995]: non lineari, frammentate e disordinate, talora contraddittorie, ma implicanti comportamenti adattivi/contro-adattivi, insidie, fallimenti, incertezze, cambi di direzione [Cozzi e Diasio 2017]. Gran parte dei media ha consegnato a bambini e adolescenti l’idea che la pandemia, la scuola a distanza e la limitazione della socialità costituissero una perdita irreparabile, che li avrebbe marchiati a vita. Il mercato del lavoro si sarebbe ricordato di loro come «quelli che non hanno fatto la maturità; quelli che sono stati tutti comunque promossi». In realtà, il nostro studio è partito dall’ipotesi che l’esperienza della perdita non vada necessariamente qualificata in termini soltanto negativi, {p. 26}ma vada osservata nel quadro di una «terapia del possibile» [Cometti 1996]. Le biografie degli individui, in ogni tempo, sono disseminate di trappole, incidenti, imprevisti, eventi spiazzanti e sfidanti. La cosiddetta «generazione Covid» non è dunque sostanzialmente diversa da altre che hanno subito guerre, migrazioni, crisi economiche o politiche. In tutti questi casi non si ha a che fare con meccanismi automatici; la differenza decisiva sta nel modo – strutturalmente e culturalmente condizionato, ma non determinato – in cui si re-agisce, si elabora la difficoltà, si accoglie la sfida. Un esempio riguarda il fattore tempo: durante la pandemia il tempo ha, apparentemente, iniziato a fluire in modi diversi rispetto a quanto accadeva prima, in una oscillazione continua tra la polarità del tempo vuoto da lasciare scorrere rimanendo a guardare nell’inerzia e il tempo libero da occupare, riempire, arricchire; il tempo durante la pandemia ha di conseguenza acquisito nuovi significati, che stanno tra lo scivolamento verso la perdita inesorabile che non si sa contrastare e la riappropriazione del tempo per sé, speso nell’investimento in nuove conoscenze e competenze, e nella (ri)scoperta di nuove e vecchie passioni. Il tempo lungo di esposizione alla pandemia e l’incertezza rispetto al suo epilogo sta agendo infine sulle scelte e sulle prospettive individuali, spingendo in direzione dell’immobilismo/incertezza paralizzante per alcuni e della intraprendenza/scoperta per altri. Nel caso di giovani e adolescenti, questa gamma di vincoli-e-possibilità ha preso una forma polarizzata: più casa, più famiglia, più noia, più ansia e incertezza su chi si è e dove si sta andando, ma anche più iniziativa, più curiosità e soprattutto più tempo riflessivo. Ipotizziamo dunque che i giovani esposti alla pandemia in una fase della vita caratterizzata dalla definizione identitaria non siano stati soltanto annientati dal virus e dai suoi effetti sociali. Talvolta, il momento attuale potrebbe addirittura giocare a loro vantaggio, svolgendo il ruolo d’incubatore e acceleratore di energie, capacità, progettualità, orientamenti al futuro. Non per tutti l’anno di scuola con il Covid è stato un «anno di riposo e oblio».
Le considerazioni svolte fino a questo punto spiegano in che senso l’evento della pandemia possa essere definito
{p. 27}come un imperativo riflessivo. Tale formula indica un fatto che genera discontinuità e incoerenza profonde nel corso di vita delle persone e pertanto non può essere affrontato semplicemente sulla base delle norme, delle pratiche e degli habitus precedenti, ma sollecita le capacità riflessive a elaborare nuove risposte pratiche e nuovi significati per le proprie esperienze [22]
. In tale contesto, anche le competenze sociali ed emozionali assumono un ruolo di crescente rilevanza, come operatori specifici che facilitano od ostacolano l’adattamento creativo e la resilienza delle persone in condizioni di rapido cambiamento ed elevata complessità. Il condizionamento strutturale/culturale e la ri-socializzazione alla nuova situazione sono mediati da queste capacità, che qualificano l’azione sociale e concorrono a spiegare come dal medesimo contesto e dalla stessa pressione sociale si generino traiettorie biografiche divergenti. Le strategie di coping, di risposta alle sfide, i processi di maturazione, autonomizzazione e assunzione di responsabilità, la possibilità di esprimere una visione sensata di sé e dei propri piani di vita per il futuro dipendono in misura rilevante da queste proprietà.
Note
[16] Per l’Italia si vedano i dati, chiari e drammatici, emersi dalle prove INVALSI del 2021: https://invalsi-areaprove.cineca.it/index.php?get= static&pag=materiale_approfondimento.
[17] Questa percentuale è una media riferita ai paesi OCSE, calcolata sul periodo di chiusura delle scuole nella sola «prima ondata» pandemica del 2020 e supponendo che non vi siano ulteriori chiusure. Naturalmente, i vari paesi saranno variamente posizionati attorno a questa media, a seconda della maggiore o minore durata della loro chiusura e di altre variabili, quali per esempio la dotazione tecnologica e la qualità della didattica erogata a distanza.
[18] Nella vasta letteratura già accumulatasi sul tema, che non possiamo discutere qui, si veda per esempio la meta-analisi di Racine e colleghi [2021].
[19] Qui la nostra ricerca si connette al dibattito teorico ed empirico sul tema delle generazioni. In particolare, si situa all’incrocio tra le classiche analisi di Karl Mannheim [1928; trad. it. 1974] e la loro critica. Parlare di «generazione Covid» sembra echeggiare l’idea di generazione intesa come insieme di persone esposte a un medesimo contesto storico-sociale, alle stesse idee, eventi e «contenuti di vita», da cui risulta – attraverso un «nesso generazionale» – lo sviluppo di comuni modi di sentire, di pensare e di agire, e potenzialmente di certe forme di agire collettivo. Tale effetto è, naturalmente, più forte e profondo quando l’esposizione a eventi di vasta portata avviene nell’età in cui la propria identità è in fase di formazione. Il lavoro di Donati e Colozzi [1997] ha a suo tempo mostrato efficacemente come e perché le generazioni in questo senso risultino sempre più difficili da identificare e forse non esistano più. Ora, la potenza del fenomeno pandemico sembra rilanciare in un certo senso tale possibilità, in forme ancora da comprendere. La nostra interpretazione tiene conto di questa possibile evoluzione. Ma rimane vero, in ogni caso, che la costituzione di «nessi», articolati in «unità» generazionali – per dirla sempre con Mannheim – può essere colta soltanto attraverso le relazioni con le generazioni compresenti, che mediano tali complesse transazioni. Queste relazioni sono, perciò, al centro delle nostre analisi.
[20] Occorre però ricordare che anche i social media e l’intera nube comunicativa che avvolge ormai completamente le nostre vite non è semplicemente un fenomeno naturale, ma un fatto socio-culturale che dipende da specifici «architetti» e dal design che essi esprimono. Benché sganciato dal livello dell’interazione faccia a faccia, essi fanno comunque parte di quel «mondo adulto» con cui i giovani si confrontano.
[21] Non è certamente questa la sede per fare il punto sulla teoria della socializzazione. Un’utile rassegna, ancora attuale, si trova in Maccoby [2007]. Il riferimento a una teoria «orientata alla riflessività» rimanda a una prospettiva esemplificata in Archer [2015]. Su questo tema ci permettiamo di rinviare anche alle considerazioni svolte in Maccarini [2017].
[22] L’espressione «imperativo riflessivo» compare nel lavoro di Margaret Archer per designare un effetto centrale delle situazioni di rapida trasformazione sociale e culturale, introducendo la sua teoria della riflessività personale. Si può argomentare che tale concetto sia applicabile a vari livelli di organizzazione sociale, dall’interazione all’organizzazione fino ai sistemi sociali più complessi. La stessa nozione di potenzializzazione, a cui abbiamo accennato sopra, è strettamente connessa a questa condizione di «necessità riflessiva». L’interpretazione della pandemia come imperativo riflessivo è qui ripresa da una conversazione con Mark Carrigan (Università di Manchester) e da un lavoro comune in corso di elaborazione.