Matteo Colleoni (a cura di)
Territori in bilico
DOI: 10.1401/9788815374240/c3
La vicenda di questi strumenti è stata ampiamente studiata [Barbera 2005; Bassoli e Polizzi 2011; Pellizzoni 2005; Pichierri 2002; Trigilia 2005] e se ne sono messi in luce i nodi di fondo, in particolare la centralità dell’attore pubblico nei processi di governance. Gli enti locali (comunali, provinciali e regionali) cioè, pur non esercitando più in maniera esclusiva e isolata la funzione di governo, grazie alla natura lasca di tali arene, mantengono una ampia discrezionalità sia sul come indirizzare il lavoro delle arene, sia sul contenuto delle politiche che in tali arene si discutono. Esse controllano infatti le principali leve che determinano il processo partecipativo: la leva economica, che determina la possibilità che le politiche discusse nelle arene di governance raggiungano la massa critica necessaria ad avere un impatto effettivo sui destinatari a cui sono rivolte e può essere decisiva anche come sostegno ai processi stessi di partecipazione, per esempio attraverso la creazione di segreterie organizzative o strumenti di comunicazione e coordinamento tra gli attori; la leva della definizione degli obiettivi e dei significati dei processi di governance attivati, che include la possibilità di attivare significati condivisi tra i partecipanti [Weick 1995] e di generare un senso di appartenenza ad una mission comune [Bassoli 2010]; leva del controllo sui modi e tempi di funzionamento delle arene negoziali e partecipative. I governi locali hanno affrontato questi nodi in modalità assai eterogenee e spesso anche differenti tra un settore e l’altro, in base alle caratteristiche del singolo policy network locale [Rhodes 2006]. Ciò ha portato questi strumenti ad avere esiti non univoci sul piano nazionale, in termini di processi di sviluppo e di raccordo degli attori locali. In diversi territori essi hanno avuto la capacità di innescare effettivamente processi cooperativi e di generare così strategie comuni per generare patrimoni comuni che si sono consolidati nel tempo: nuovi distretti produttivi nel caso delle attività economiche, con la creazione di alcuni beni collettivi per la competitività; assetti stabili di co-programmazione e co-progettazione nel caso delle politiche sociali; rivitalizzazione di alcuni quartieri popolari nel caso della riqualificazione urbana. Ciò è avvenuto anche
{p. 48}in casi nei quali non vi era da una tradizione previa di collaborazione tra gli attori locali. D’altra parte, tali strumenti sembrano non aver retto alla prova del tempo lungo e la stagione della programmazione negoziata e partecipata degli anni Novanta e Duemila si può dire si sia ormai chiusa. Due fattori sembrano aver concorso a questo superamento. In primo luogo essi hanno visto frequentemente un utilizzo in chiave opportunistica da parte di molti attori locali, cioè volto prevalentemente alla distribuzione di risorse aggiuntive ma senza riuscire a superare la frammentazione delle traiettorie individuali delle varie organizzazioni. Anche laddove gli strumenti erano stati utilizzati in forma più virtuosa, questi hanno avuto una fortuna spesso contingente, cioè dovuta alla presenza di leadership locali, particolarmente capaci di generare fiducia nella strategia collettiva anziché quella del singolo attore ma al tempo stesso fragili poiché legate alla contingenza politico-elettorale o dal destino personale dei leader territoriali [Barbera 2001]. In secondo luogo, a questa fragilità degli esiti si è sommato il cambio di stagione politico-economica che ha seguito la crisi economica del 2008 e la conseguente stagione di austerità che ne è scaturita. Essa infatti ha fatto ridurre l’attitudine dei governi nazionali e regionali a investire in strumenti di governance il cui effetto non è misurabile nel breve periodo e dunque li ha indotti a privilegiare un tipo di spesa pubblica più volto ad adottare strumenti per tamponare le crisi.
Nel decennio successivo al 2008, dunque, i territori hanno dovuto fronteggiare la crisi e le sue conseguenze senza basarsi su forti programmi o strumenti nazionali. Essi si sono trovati così a dover individuare in modo sostanzialmente autonomo le proprie strategie e i propri modelli di azione. Ciò non ha corrisposto ad un venir meno dell’attenzione al tema dell’aggregazione degli attori per costruire sinergie e alleanze territoriali. Anzi, nel contesto italiano è semmai cresciuta la consapevolezza, tra gli osservatori e almeno una parte importante degli attori locali, specialmente quelli del mondo del Terzo settore e filantropico, della necessità di mettere in campo nuove forme di investimento sul binomio tra impresa e territorio [Bonomi e Pugliese 2018; Symbola {p. 49}2016]. Ciò che è venuto meno è però la spinta normativa, dentro ad un contesto di governance multilivello, di risorse e di accompagnamento che consentisse ai territori anche meno attrezzati di avere uno slancio e una relativa omogeneità di dinamiche locali.
Nella nuova fase, l’attenzione è stata posta anzitutto sul tema del riconoscimento della possibilità di ricostruire una vocazione di luogo [Venturi e Zandonai 2019] nei territori, non tanto come riscoperta di tradizioni locali di lungo periodo, che pur vengono viste come preziosi patrimoni da non disperdere, quanto come nuovo intreccio sinergico tra popolazioni e organizzazioni che sul territorio sono presenti storicamente e quelle che possono esservi attratte. È anzi proprio la nozione di attrattività dei luoghi uno degli elementi fondamentali di queste strategie: non si tratta cioè solo di tenere insieme ciò che già esiste ma di saper creare valore aggiunto economico e sociale dall’afflusso di attori vecchi e nuovi, sia in forme permanenti che temporanee, con l’idea che anche queste ultime possano fare da volano per forme di sviluppo locale di medio-lungo periodo. Non a caso, in questa fase, a emergere frequentemente è la denominazione e l’immagine dell’hub, cioè del luogo che attrae in uno stesso spazio più attività e più popolazione e proprio in virtù di questa compresenza cerca e sfrutta sinergie locali e sovralocali [Markusen 1996; Currid 2006; d’Ovidio e Pacetti 2020]. Tale attenzione all’attrattività però non corrisponde all’idea di pura competitività economica, basata sulla leva della presenza di condizioni fiscali o di densità di fattori produttivi. Essa si basa piuttosto su intrecci sistematici tra ragioni di crescita del valore economico con ragioni di benessere sociale, nei quali siano coltivate le esigenze sociali della comunità locale, tramite investimenti nei servizi e nei luoghi del welfare e allo stesso tempo le esigenze di impresa e di costruzione di opportunità di lavoro. Sovente questo intreccio viene accostato al termine di innovazione sociale, a indicare il contemperare le istanze di innovazione economica, e quindi di crescita, con le istanze sociali dei territori [Barbera 2019]. Per quanto tale termine risulti assai vago e utilizzato in modi molto differenti dai diversi soggetti, è {p. 50}significativo di uno spostamento del fuoco dell’attenzione dalla dimensione dello strumento pattizio e programmatorio alla dimensione più spontanea e «dal basso» delle nuove strategie di sviluppo dei territori. Inoltre, in questo scenario stanno emergendo anche nuovi tipi di attori che si prefiggono una mission di sviluppo locale. Tra questi merita di essere evidenziato il crescente ruolo svolto dalle fondazioni di origine bancaria, le quali, pur non agendo specificamente nell’area del sostegno all’attività di impresa, utilizzano le loro risorse per svolgere una funzione di raccordo e di promozione dello sviluppo dei territori nell’area sociale e culturale, contribuendo così a orientare i processi di identità e di appartenenza tra gli attori locali [Arrigoni et al. 2020; Burroni et al. 2017].

4. Resilienza o resa?

Di fronte alle crisi sistemiche come quelle che hanno attraversato i Paesi europei negli ultimi quindici anni possono emergere risposte assai diverse. La difficoltà dei sistemi economici locali nel reggere all’onda d’urto della crisi, aggiunta alla più generale crescita della concorrenza economica globale, con conseguenze in termini di precarizzazione sociale, e talora di caduta nella povertà, di consistenti fasce di popolazione, possono facilmente generare reazioni individuali, tanto delle famiglie quanto delle imprese o delle organizzazioni della società civile: emigrazioni, pendolarismo e aumento della dipendenza funzionale dai grandi centri urbani, delocalizzazioni produttive, vendita dei patrimoni locali ad attori stranieri e riduzione della propensione degli attori locali a investire energie nella valorizzazione economica, sociale e culturale del territorio. La pura sommatoria di tante reazioni individuali, lungi dal costituire una strategia collettiva territoriale, rischia di produrre frammentazione e ulteriore indebolimento dei territori. Di fatto, un tale esito corrisponde ad una sostanziale resa, come territorio, di fronte alla crisi. Ma un tale scenario non è l’unico esito possibile. Come abbiamo visto in passato, i territori possono {p. 51}diventare anche luoghi di costruzione di strategie collettive di sviluppo locale. Tali strategie, facendo leva proprio sulle sinergie possibili tra i diversi attori pubblici e privati, possono rendere il territorio capace di resilienza, cioè non di adattamento passivo ma di reazione attiva e coordinata, cioè capace di individuare traiettorie comuni di uscita dalla crisi che implicano non lo smantellamento delle sue risorse bensì una loro trasformazione e ricombinazione creativa. Riconoscere le tracce emergenti dell’uno o dell’altro scenario sarà l’oggetto dell’indagine empirica svolta nella seconda parte di questo volume.
Note