Matteo Colleoni (a cura di)
Territori in bilico
DOI: 10.1401/9788815374240/c3
In questo modo il concetto di coesione sociale si allarga molto. A livello analitico, il rischio è la confusione tra i fattori che possono favorire o inibire la coesione, i fattori che ne costituiscono l’essenza e i suoi effetti. Seguendo il primo
{p. 38}filone di studi, una definizione più stretta può aiutare, le dimensioni della disuguaglianza (nelle sue diverse declinazioni) possano essere un driver, un fattore che promuove o inibisce la formazione di coesione [Vergolini 2011], così come la diversità e le politiche attraverso cui è gestita.
A livello politico, la società coesa finisce per diventare sinonimo di «società giusta», alla quale tendere, con un problema però: quando la società non è omogenea, come quella in cui viviamo, e si articola a diverse scale, chi decide quali sono i valori comuni e l’appartenenza comune? A quale scala fare riferimento? Come evidenziano Kearns e Forrest
un quartiere molto coeso (in cui vi è sentimento di appartenenza, riconoscimento, condivisione di valori e alta socialità tra i vicini) potrebbe benissimo essere in conflitto con altri quartieri a loro volta molto coesi, contribuendo così a formare un tessuto urbano altamente frammentato [2001, 2128].
Lo stesso esempio può essere riportato alla scala regionale, per cui aree metropolitane molto coese al loro interno potrebbero essere in conflitto producendo una regione altamente frammentata, e così via. Sappiamo bene che le identità non sono esclusive, piuttosto stratificate ai diversi livelli. Sul piano politico, si avverte, comprensibilmente, l’esigenza di definire valori che facciano riferimento alla tolleranza, al bene comune e alla diversità come risorsa così da oltrepassare la questione dell’appartenenza, dell’identità e dei valori comuni.
La questione richiama da vicino il dibattito sul capitale sociale bonding e bridging proposto da Putnam [2000], ma anche il capitale sociale primordiale e organizzativo razionale di Coleman [1990]. Il primo tipo si riferisce a legami forti e poggia su una comune appartenenza, un comune sentire e tende a rinforzare l’identità interna del gruppo, ma anche la sua chiusura. Il secondo si apre a relazioni deboli che collegano circoli diversi promuovendo una maggiore circolazione di informazioni, confronto e innovazione. Secondo Putnam, il primo tipo non è in grado di innescare un circuito virtuoso di sviluppo sul territorio, mentre il secondo {p. 39}aiuta maggiormente l’innescarsi di circoli virtuosi. Anche Coleman, seppur in modo diverso, identifica il capitale sociale primordiale come l’esito di una specifica struttura sociale (preindustriale) in cui si privilegia appartenenza, condivisione di valori e densità di relazioni. Il capitale sociale organizzativo razionale è invece l’esito di una comunanza di interessi e privilegia i legami deboli [1]
. Bagnasco e Trigilia, pur da strade diverse, evidenziano la coesistenza di questi due tipi di capitale sociale e dei loro meccanismi generativi, mettendo in guardia però che da solo, il capitale sociale, non innesca un bel nulla ed è la combinazione di fattori economici, politici e sociali che, nella loro interazione e combinazione, possono dar vita a circoli virtuosi di sviluppo.
Prima di procedere e vedere le relazioni tra i concetti, vi è un punto che è importante sottolineare in riferimento al concetto di coesione sociale. La maggior parte degli studi che misura la coesione sociale fa riferimento a survey rappresentative della popolazione, esse permettono infatti di misurare con un certo grado di precisione le dimensioni individuate e soprattutto monitorarne l’andamento nel tempo [Dragolov et al. 2013; Venturini e Graziano 2016]. Fiducia, appartenenza, partecipazione vengono rilevate a livello di individui. Senza questa possibilità non si potrebbe parlare di coesione sociale in un territorio (ai diversi livelli) e/o in un gruppo.
Tuttavia, come evidenziano Chan e colleghi, la definizione di coesione non fa riferimento solo agli individui e ai loro sentimenti/azioni, ma anche a gruppi, organizzazioni e istituzioni che compongono quel territorio: «I membri della società non sono limitati agli individui, includono anche i vari gruppi, organizzazioni così come le istituzioni che fanno una società» [2006, 290]. Le organizzazioni assumono infatti autonomia di fini e azioni rispetto ai singoli individui. Ci {p. 40}sembra questo un punto molto importante. Le dimensioni individuate in precedenza restano valide, ma occorre applicarle agli attori collettivi, dunque guardare alla fiducia, al senso di appartenenza alla condivisione di un progetto, alla volontà di far parte del territorio e alle azioni messe in atto per tradurre nella pratica questi atteggiamenti. Possiamo dire che la creazione di reti cooperative integrate per la realizzazione di un obiettivo è una manifestazione di tali atteggiamenti, ma questa è anche la definizione di capitale sociale comunemente data nella sua versione relazionale [Trigilia 2005; Bagnasco 1999; Andreotti 2009]. Il capitale sociale diventa, nel nostro approccio, una dimensione costitutiva della coesione sociale, che pur trovando le sue fondamenta negli attori locali e nella loro capacità di agire in modo coordinato, può riferirsi anche a un contesto territoriale a seconda che i soggetti coinvolti siano inseriti in reti di relazioni cooperative più o meno diffuse.
Riprendendo nuovamente la definizione di Chan e colleghi [2006], la coesione è uno stato che concerne sia le reti verticali sia orizzontali; considerando gli attori intermedi, le reti verticali fanno riferimento alla capacità di intessere relazioni e collaborazioni con attori che operano a scale istituzionali e territoriali più alte, mentre le reti orizzontali fanno riferimento alle stesse capacità ma con altri attori del territorio di riferimento.
Abbiamo individuato dunque la relazione tra coesione e capitale sociale [2]
, evidenziando che non sono sinonimi, il primo è un concetto più ampio del secondo, lo include. Inoltre, il primo si riferisce necessariamente a un’entità macro, il capitale sociale, come la resilienza, è invece un attributo individuale che può essere riferito anche a un territorio dove questo non è però la semplice somma dei comportamenti individuali. Il capitale sociale implica una dimensione relazionale, il fatto cioè che gli attori collettivi, e nella fattispecie i corpi intermedi, si mettano in rete con un obiettivo.
A questo punto possiamo spostarci sull’ultimo concetto da noi introdotto: quello di resilienza. Anche in questo {p. 41}caso non faremo una rassegna, ma è utile richiamare le diverse accezioni che vengono individuate in letteratura per chiarire il nostro punto. Sono tre le prospettive che la letteratura ha evidenziato in riferimento al concetto di resilienza [Cheshire et al. 2015; Martin-Breen e Anderies 2011; Barrett et al. 2020].
La prima è una prospettiva ingegneristica e si riferisce alla capacità di un sistema di tornare all’equilibrio precedente dopo uno shock: più rapidamente il sistema torna al punto di equilibrio precedente, più il sistema è detto resiliente. La seconda è la prospettiva cosiddetta ecologica e in questo caso i sistemi, dopo uno shock, non tornano all’equilibrio precedente, piuttosto si adattano ed evolvono. Qui però l’attenzione è posta sulla magnitudo dello shock che un sistema può reggere prima di cambiare struttura e trovare una nuova configurazione o avviare un nuovo percorso. Si tratta di grandi shock che possono produrre cambiamenti. I processi di deindustrializzazione, la crisi del 2008 e la pandemia da Covid-19 possono ben essere ritenuti shock di tale magnitudo da innescare cambiamenti e quindi richiedere resilienza da parte degli attori individuali e collettivi. La terza prospettiva si definisce evoluzionista e si differenzia sostanzialmente dalle due precedenti perché non individua un momento in cui il sistema è in equilibrio, ma enfatizza il cambiamento, l’instabilità e la complessità continua. In questa prospettiva, vi è un processo graduale di cambiamento piuttosto che shock esterni inaspettati, dunque i sistemi si trasformano e si adattano continuamente per rispondere agli stress e ai vincoli.
Naturalmente, nelle scienze sociali prevalgono le ultime due prospettive. Dal nostro punto di vista, le società sono in continua evoluzione e il cambiamento e/o adattamento è costante, ma in questi casi non vi è probabilmente bisogno di scomodare il concetto di resilienza che può invece essere utile per comprendere che cosa accade nei momenti di grandi crisi, per esempio la deindustrializzazione, la crisi economico-finanziaria del 2008 e quella pandemica da Covid-19. Nella nostra prospettiva, che, come abbiamo visto pone l’accento sui corpi intermedi delle società locali, si {p. 42}può parlare di strategie di resilienza quando vi sono delle azioni coordinate da parte di un insieme di attori che mirano a governare la crisi e a individuare e realizzare percorsi condivisi di uscita da queste. In quei territori in cui vi è coesione sociale e in cui vi è capitale sociale, è maggiormente probabile che si trovino anche strategie di resilienza da parte degli attori locali.
Abbiamo guardato a una parte importante della questione della coesione, gli attori del territorio e la loro capacità di azione/coordinata, occorre altresì capire come queste si intrecciano con le politiche e gli strumenti a disposizione. Il dibattito sociologico e politologico degli ultimi decenni ha infatti messo in luce l’importanza dei fattori istituzionali e organizzativi che possono contribuire in maniera determinante alla creazione di capitale sociale e di coesione sociale nei territori. Tanto l’esistenza capillare sul territorio di forti organizzazioni civiche, compresi partiti politici e sindacati [Skocpol 2003; Tarrow 1996], quanto la presenza di istituzioni locali capaci di dar voce e far partecipare anche le componenti sociali più deboli del territorio [Culpepper 2005; Fung e Wright 2003], diventano fattori decisivi nel produrre capitale sociale locale. Già nella formulazione di capitale sociale di James Coleman [1990] emergeva come la fiducia nelle relazioni cooperative locali fosse un elemento strettamente legato alla configurazione organizzativa e situazionale nella quale le relazioni sono immerse.

2. Il ruolo della governance locale

L’obiettivo di far crescere la coesione e lo sviluppo di un territorio è da sempre centrale per i governi, soprattutto a livello locale e diventa cruciale in un periodo di sempre maggiore esposizione dei territori a dinamiche economiche e sociali che hanno scala globale, dunque non manovrabili dai soli governi locali e assai poco governabili anche dalla scala nazionale.
In tale scenario, i governi locali si muovono sempre più in un ambiente normativo ispirato all’idea di governance an
{p. 43}ziché di government [Rhodes 2000; Newman 2001] nel quale la mano pubblica non ha più il diretto controllo di molte leve della regolazione, è piuttosto regista, dove riesce, di una pluralità di attori pubblici e privati dotati di ampi margini di autonomia. Ciò significa non solo che i governi locali hanno maggiori limiti nella capacità di imporre misure ed erogare servizi, ma che lo stesso processo decisionale delle policies locali non è più composto dal solo attore pubblico bensì da un network più o meno formale e più o meno inclusivo di soggetti che in modo esplicito o implicito esprimono le proprie preferenze, in termini di interessi, visioni del mondo e idee stesse della regolazione [Blanco et al. 2011].
Note
[1] Questa tensione interna ai concetti di coesione e capitale sociale richiama ovviamente quella più tradizionale tra agire di comunità e agire di società che devono essere intesi come ideal tipi weberiani e per questo utili, sapendo che nella realtà i due sono profondamente intrecciati e non si escludono [Weber 2014].
[2] Per una rassegna si veda Andreotti [2009].