Matteo Colleoni (a cura di)
Territori in bilico
DOI: 10.1401/9788815374240/c2
Il percorso di allontanamento dal fordismo è però lungo e complesso, e per molto tempo è stato difficile leggere la trasformazione in atto: a partire dagli anni Settanta e per gran parte dei decenni successivi il problema non è stato
{p. 27}quello di costruire un sistema alternativo a quello della produzione di massa, ma piuttosto quello di «riaggiustare» [2]
la produzione industriale in modo da renderla più flessibile e adeguata alle trasformazioni dei mercati. Le produzioni flessibili non hanno però bisogno di stabilimenti giganteschi né di masse enormi di lavoratori, e la trasformazione assume i connotati del declino industriale e della deindustrializzazione.
Declino industriale e deindustrializzazione non sono certo sinonimi, ma viaggiano insieme nelle letture del mondo produttivo come nella progettazione delle politiche [3]
. La deindustrializzazione resta per molto tempo un processo da combattere o quantomeno da arginare [Pichierri 1989], e il declino a sua volta «evoca da subito grandi quadri epocali» [Berta 2004, XI]. Come la crisi, il declino rileva una generalizzata deterioration of performance [Hirschman 1970], ma mentre nel primo caso l’andamento negativo degli indicatori è concentrato in un tempo limitato, e consente di formulare strategie di reazione, nel caso del declino il peggioramento è di lungo periodo, più lento ma più inarrestabile [Pichierri 2002].
Se per un certo periodo l’attenzione riguarda le difficoltà delle imprese, che a volte diventano addirittura permanently failing organisations [Meyer e Zucker 1989], con il tempo il declino industriale è sempre più strettamente associato al declino dei sistemi territoriali locali che ospitano le industrie coinvolte: si parla sempre più spesso di regional decline, talvolta di urban decline [Pichierri e Pacetti 2016] [4]
.{p. 28}
Vengono quindi portati in primo piano problemi legati a un determinato sistema territoriale: quelli occupazionali e quelli di una struttura industriale obsoleta, ma anche quelli del degrado urbano che spesso accompagna l’abbandono delle aree industriali. A partire dagli anni Ottanta, quindi, le politiche pubbliche cominciano ad essere caratterizzate dalla territorializzazione dei problemi industriali. Questo riguarda in primo luogo le politiche europee, che cominciano significativamente a parlare di «aree a declino industriale».
Come lo sviluppo industriale aveva preso forma nella grande fabbrica fordista, il declino è ben rappresentato da aree industriali dismesse, che diventano oggetto di dibattito e di varie forme di progettazione. Spesso si punta sulla riutilizzazione di tali aree in chiave industriale, con qualche forma di reindustrializzazione che preveda la transizione verso settori più floridi e adatti al territorio. Più di recente emergono casi di riconversione qualificata, con una crescente presenza di attività intellettuali, o persino ricreative e turistiche.
Fino alla crisi del 2008, deindustrializzazione e terziarizzazione sono viste come l’inevitabile effetto dello sviluppo economico: mantenere un settore industriale esteso era considerato anacronistico e poco coerente con il percorso dell’innovazione tecnologica e dei mercati [Espon 2021]. Dopo la crisi, però, si scopre che le aree metropolitane con una base industriale ancora forte erano più resilienti [Espon 2020]. Questo perché i territori urbani sono ancora capaci di ospitare imprese moderne e innovative, sia per la presenza di servizi all’avanguardia per la produzione, sia per la diffusione di tecnologie digitali che hanno trasformato sensibilmente il modo di produrre, lasciando spazio ad una «produzione intelligente» [Berta 2014] in cui le fabbriche sono sempre più snelle: piccole, silenziose, sostenibili, capaci di realizzare prodotti customizzati. Il ricorso al buy è sempre più esteso e la componente immateriale del prodotto è sempre più importante, perché «il manufatto industriale incorpora una quota crescente di servizi, dall’immagine all’after-care» [Pichierri e Pacetti 2016, 34].{p. 29}

3. Governance, regolazione, beni collettivi locali per la competitività

La riscoperta del ruolo dello spazio nella spiegazione dello sviluppo economico ha portato alla tematizzazione di quelli che sono stati chiamati «beni collettivi locali per la competitività» [Crouch et al. 2001; Trigilia 2005]: fattori capaci di favorire il successo delle imprese sul territorio che sono indissolubilmente legati al territorio. Si tratta di risorse che riguardano ambiti come la formazione e il mercato del lavoro, ma anche di risorse legate all’innovazione e al trasferimento tecnologico, oltre a varie forme di infrastrutturazione del territorio, che giocano un ruolo anche nella possibilità di internazionalizzazione delle imprese [Pichierri 2002; Pacetti 2008]. Ragionare sui meccanismi di produzione e sull’accessibilità di queste risorse è un modo per comprendere le radici della maggiore o minore competitività dei territori, intesa come capacità di rendere competitive le attività che si sviluppano entro i loro confini [5]
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L’attenzione si sposta allora sui meccanismi che portano alla produzione dei beni collettivi rilevanti per il territorio, e sugli attori coinvolti in tali processi. In un sistema distrettuale, ad esempio, le risorse fondamentali per la competitività delle imprese, come l’innovazione e la formazione professionale, sono prodotte dalla comunità locale, e radicate in tradizioni e culture spesso di origini lontane nel tempo, ma giocano un ruolo, soprattutto in tempi più recenti, anche alcuni attori pubblici locali, come scuole e centri di ricerca. Nelle città di origine fordista, la grande impresa ha spesso svolto una funzione importante nella {p. 30}produzione di risorse come il trasferimento tecnologico, la formazione e l’internazionalizzazione delle imprese di determinati settori (in particolare per le aziende fornitrici, ma non solo), lasciando in secondo piano le azioni della politica. In altri casi, invece, l’attore pubblico si è trasformato in protagonista economico, controllando settori strategici e costruendo fabbriche per accelerare lo sviluppo delle aree meno industrializzate. Queste situazioni hanno prodotto effetti diversi, che possono essere letti proprio a partire dal ruolo dei diversi attori, pubblici e privati, nella regolazione delle economie locali.
Riflessioni di questo tipo, anche se condotte con una strumentazione teorica apparentemente differente, hanno accompagnato la trasformazione delle maggiori città italiane. Con riferimento al caso di Torino, ad esempio, Gallino scrisse che le difficoltà che la città affrontava alla fine degli anni Ottanta erano legate ad una ipertrofia del sistema economico rispetto agli altri sottosistemi sociali, in particolare rispetto a quello politico [Gallino 1990]. Anche senza adottare la prospettiva funzionalista che tiene insieme la proposta di Gallino, la metafora è particolarmente efficace per descrivere i contesti che, come abbiamo visto nei primi paragrafi di questo capitolo, si sono sviluppati attorno ad una produzione industriale capace di condizionare, se non di modellare, vari aspetti della vita sociale (dall’urbanistica, alla formazione, dai trasporti agli altri servizi pubblici locali…).
Molto più di recente, e certo con un obiettivo esplicativo ben più circoscritto, nella discussione sul ruolo della città di Milano nello sviluppo del settore moda, i tentativi di gestione e di regolazione dei meccanismi e degli effetti delle attività economiche sul territorio urbano sono stati interpretati come espressione della volontà del sistema politico locale di recuperare un ruolo non ancillare nei confronti del sistema economico [d’Ovidio e Pacetti 2019]. L’elenco degli esempi potrebbe essere lungo. Ci preme però sottolineare che analisi di questo genere, che spesso si sviluppano all’interno della prospettiva della governance locale, hanno il merito, dal nostro punto di vista, di portare {p. 31}in primo piano una discussione critica della corrispondenza tra i confini spaziali e quelli delle attività sociali che su quegli spazi prendono forma (si veda ad esempio Calafati [2009]). Riflettere sulla maggiore o minore coerenza tra i confini amministrativi e quelli dei sistemi locali concreti è indispensabile per costruire strumenti di regolazione del territorio efficaci.
Può allora essere interessante recuperare una definizione di sistema locale costruita su tre livelli [Pichierri 2002], che ci aiuta ad osservare i territori con tre sguardi complementari. Secondo questa proposta, accanto ad un primo livello dato dalla omogeneità interna del territorio, è importante tenere conto sia della sua identità (l’immagine percepita da soggetti interni o esterni allo spazio in esame, che può dipendere da aspetti economici, culturali, linguistici, ecc.), sia della sua capacità di presentarsi come attore collettivo. Quest’ultimo livello apre la discussione alle tematiche della regolazione locale e della possibilità delle diverse scale territoriali di generare forme di governance adeguate alle problematiche da affrontare.
Porre lo sguardo su alcuni territori che troviamo ai margini dell’area metropolitana milanese può allora essere un modo non scontato di affrontare la questione: fino a che punto i sistemi locali corrispondono ai confini amministrativi che li circoscrivono o li attraversano? Il confronto tra confini amministrativi e aree funzionali delle città metropolitane [6]
suggerisce di guardare con attenzione proprio alle aree meno centrali, quelle che possono restare in bilico tra meccanismi e livelli di regolazione diversi. Per riflettere sul rapporto tra coesione sociale, sviluppo sostenibile e sistemi di regolazione, può essere quindi utile spostare lo sguardo su questi territori, analizzandone la omogeneità interna, ma anche interrogandosi sulla loro identità e sulla loro capacità di interagire con i soggetti delle politiche locali e dei processi globali locali.
Note
[2] Strategie di riaggiustamento industriale è il titolo di un volume curato da Marino Regini e Charles Sabel nel 1989, nel quale si propone di concentrare l’attenzione sui diversi assetti istituzionali in grado di favorire i percorsi di ristrutturazione industriale e l’emergere di nuovi modelli flessibili di produzione.
[3] Per una trattazione più articolata della nascita e dell’utilizzo dei due termini, si veda Pichierri e Pacetti [2016].
[4] Come abbiamo notato altrove, l’associazione tra declino industriale e declino del territorio «è particolarmente evidente nel caso di un tipo di sistema locale definito old industrial area, in cui l’aggettivo old si riferisce al periodo in cui hanno prosperato in quella regione industria pesante e miniere» [ibidem, 30].
[5] Vale forse la pena di ricordare che competitività e attrattività dei territori non sono la stessa cosa, e che ai due processi fanno riferimento politiche diverse: mentre l’attrattività dipende da attività di marketing e in genere dal minor costo di spazi e manodopera, la competitività è legata appunto ai beni collettivi, ossia alla presenza sul territorio di risorse capaci di rendere competitive le imprese, in genere grazie ad investimenti pubblici e privati in formazione professionale, ricerca e sviluppo, trasferimento tecnologico, servizi per l’internazionalizzazione, eccetera [Pacetti 2006].
[6] La questione, che costituisce uno dei nodi tematici della ricerca, viene affrontata nei capitoli 5 e 6 dal punto di vista teorico, metodologico ed empirico.