Matteo Colleoni (a cura di)
Territori in bilico
DOI: 10.1401/9788815374240/c2

Capitolo secondo Lo sviluppo locale: temi e problemi del rapporto tra economia e territorio
di Valentina Pacetti

Abstract
Il capitolo affronta il modello taylor-fordista di organizzazione industriale e di come la fabbrica di inizio secolo descriva in modo emblematico il modo in cui le città si siano confrontate con l’affermarsi di un modello produttivo che per un certo periodo è stato senza dubbio egemone. Nelle fasi di maggiore successo del fordismo diventano infatti evidenti alcune direttrici del rapporto tra politica ed economia che si traducono in un rapporto variamente interpretato tra la città e la fabbrica (o le fabbriche). Di conseguenza, le risposte alla crisi sono per un certo periodo di carattere organizzativo, poi di livello settoriale, e infine di livello territoriale, con politiche che riguardano le città e le regioni piuttosto che le imprese (come emerge anche dalla regolamentazione dei fondi strutturali europei).

Introduzione

Per individuare le direttrici dello sviluppo economico territoriale italiano degli ultimi decenni è indispensabile muovere dalla crisi della grande impresa, che lascia spazio a due fenomeni che, pur nella loro profonda diversità, hanno condotto alla «riscoperta del locale»: i percorsi di declino industriale (e/o deindustrializzazione) e l’emergere dei distretti industriali e dei sistemi di piccola impresa.
Entrambi i percorsi disegnano nuove geografie di benessere economico e di inclusione sociale, e prevedono nuovi e diversi ruoli delle politiche (nazionali, locali ed europee): le esperienze di deindustrializzazione mettono in discussione il paradigma fordista, e con esso un sistema di inclusione basato sull’occupazione e sul ruolo della fabbrica; la «scoperta» dei sistemi di piccola impresa contribuisce, d’altra parte, a portare in primo piano il ruolo del radicamento delle attività economiche all’interno di sistemi sociali e di comunità locali.
Tra le sfide che sono oggi poste alle politiche locali troviamo senza dubbio la gestione di una transizione non ancora del tutto compiuta verso la società dei servizi, che deve tenere conto anche del retaggio di un passato industriale fatto di spazi non solo da «riempire», ma da riprogettare. Dall’altro lato, la crisi dei distretti industriali che hanno accompagnato il successo del made in Italy nel mondo richiede il ripensamento dei vantaggi competitivi territoriali, e l’introduzione di nuovi strumenti, come quello dei contratti di rete, introdotti dal legislatore solo nel 2009.
Restano aperte questioni importanti, come la riconfigurazione delle scale territoriali pertinenti, il ruolo della {p. 18}transizione ecologica, il rapporto tra reti lunghe e governo del territorio nel riposizionamento delle città.

1. Dal fordismo al «postfordismo»: economie, società, territori

Può apparire paradossale, ma uno dei modi più efficaci per affrontare il tema del rapporto tra economia e territorio è quello di muovere dall’analisi del modello produttivo che più di tutti ha negato (o ha cercato di negare) il ruolo dello spazio. Nella sua epoca di maggior splendore, il modello taylor-fordista di organizzazione industriale si propone come one best way, ovvero come lo strumento migliore per rendere efficiente l’utilizzo delle risorse, tecnologiche e umane. La proposta di Taylor è legittimata dal metodo scientifico che per la prima volta viene applicato all’organizzazione del lavoro. E la sua scientificità è quindi alla base dell’idea che quello specifico modo di organizzare la produzione possa e debba essere adottato ovunque: il modello proposto da Taylor e applicato da Ford con l’avvento della catena di montaggio diventa l’obiettivo di qualsiasi impresa a partire dall’inizio del Novecento.
Gli osservatori più attenti hanno sottolineato, adottando una prospettiva tipicamente sociologica, che il modello era tutt’altro che indifferente al luogo in cui si andava affermando: negli Stati Uniti di inizio secolo era disponibile un mercato di sbocco ampio e relativamente omogeneo, capace di assorbire la produzione di massa di beni standardizzati; ma, soprattutto, il modello organizzativo proposto da Taylor era efficace nel mettere a sistema il contributo dei molti lavoratori poco qualificati che quel mercato del lavoro offriva [Trigilia 1999]. Ciononostante, il successo della nuova organizzazione, ne fa un modello da seguire, in modo del tutto indifferente al contesto spaziale delle imprese.
Non solo. Oltre ad affermarsi come sistema organizzativo universalmente valido, il modello fordista finisce per agire sullo spazio, dandogli la forma ad esso più adatta, agendo su di esso in termini concreti quanto in termini simbolici. La fabbrica di inizio secolo descrive in modo emblematico {p. 19}il modo in cui le città si sono confrontate con l’affermarsi di un modello produttivo che per un certo periodo è stato senza dubbio egemone. Nel periodo d’oro del fordismo, «grande» vuol dire moderno e all’avanguardia: compaiono stabilimenti enormi, progettati per ospitare i grandi macchinari delle catene di montaggio e le grandi masse di lavoratori necessari per farle funzionare senza interruzioni. In Italia, uno dei simboli del gigantismo industriale è lo stabilimento Fiat di Mirafiori, costruito, per volere di Giovanni Agnelli proprio sul modello delle grandi fabbriche americane [1]
. Nell’inaugurazione del 1939, la fabbrica viene esaltata per i suoi numeri straordinari, che proclamavano la capacità di perseguire l’ideale dell’innovazione di quel periodo: un’area complessiva di 1 milione di metri quadrati dedicati alla produzione di autoveicoli, ma anche motori per l’aviazione, con una capacità produttiva che comprendeva anche la fusione dei metalli; ben 22.000 operai; capannoni che occupavano 500 metri di lunghezza e 700 di larghezza; 6 chilometri di gallerie sotterranee e 11 di binari ferroviari [Berta 1998]. Una rappresentazione simile possiamo ricostruire delle aree industriali milanesi, come quella compresa tra Greco e Sesto San Giovanni, dove all’inizio del Novecento la Pirelli, da sola, arriva a dare lavoro a tredicimila persone e ad occupare una superficie di oltre 700.000 metri quadrati. Nella stessa zona, altri 200.000 metri quadrati sono occupati dagli stabilimenti della Breda, che dal 1903 aveva collocato in questa zona la sua produzione di carrozze ferroviarie, locomotive elettriche e a vapore, caldaie, macchine agricole e utensili. Ma è lo stesso spazio in cui si insediano, nello stesso periodo, la Ercole Marelli e le acciaierie Falck, dando vita ad uno dei poli industriali più importanti a livello nazionale.
Le fabbriche del fordismo hanno bisogno di grandi spazi da colonizzare, e sorgono quindi alla periferia delle città, se {p. 20}non in aperta campagna. Ma le città, alimentate dall’inurbamento della popolazione che da quelle fabbriche viene attirata, crescono progressivamente fino ad inglobarle. Tra la città e la fabbrica si sviluppa così una sorta di simbiosi, e l’affermarsi della fabbrica fordista viene accompagnato dalla nascita della città fordista.
Il modello organizzativo che sostiene la produzione di massa è il primo nella storia capace di condizionare la configurazione di un intero sistema sociale. Lo fa in primo luogo a livello nazionale, con l’affermarsi di politiche keynesiane che hanno lo scopo esplicito di sostenere la domanda, alimentando il circolo virtuoso di capacità di spesa-produzione-occupazione. All’occupazione nelle fabbriche fordiste lo Stato affianca forme di welfare finalizzate a sostenere il lavoratore in caso di malattia e poi di vecchiaia. Ma lo fa anche a livello locale, dove si instaurano rapporti nuovi tra economia e politica, con le città che si fanno spesso carico di sostenere l’ambiente sociale nel quale crescono le fabbriche. Gli esempi di questa simbiosi sono svariati, e vanno dal modello illuminato dell’Ivrea degli Olivetti a quello della città-fabbrica fordista che disegna una Torino grigia come lo smog delle sue ciminiere. Il caso di Milano è ancora diverso, perché la vivacità del tessuto imprenditoriale la trasforma più in una città delle fabbriche (fabbriche diverse che seguono vocazioni diverse) che non in una città-fabbrica. È una città industriale, ma che sfugge alla chiusura della monocultura di prodotto. Il fordismo dissemina comunque lo spazio urbano e periurbano di stabilimenti enormi, con i quali i decenni successivi hanno dovuto fare i conti.
Nelle fasi di maggiore successo del fordismo diventano evidenti alcune direttrici del rapporto tra politica ed economia che si traducono in un rapporto variamente interpretato tra la città e la fabbrica (o le fabbriche). Facendo riferimento ad uno dei casi che meglio hanno interpretato il modello della città fabbrica, questo rapporto è stato descritto come caratterizzato da «separatezza e dominio» [Pichierri e Pacetti 2008]: la separatezza è ben rappresentata dal muro perimetrale delle fabbriche, che disegna un confine visibile e impermeabile, anche quando la città {p. 21}raggiunge e ingloba stabilimenti sorti ai suoi confini. Si tratta di una separazione che è prima di tutto fisica, ma che descrive una distanza anche più profonda. La distanza è infatti prima di tutto una distanza metaforica, data dal fatto che l’ecosistema interno ai confini e quello esterno sono governati da sistemi differenti: la fabbrica «vive di regole, di modi e di tempi propri» [ibidem, 76] e risponde ad una propria autorità, diversa da quella che coordina il resto della città. Se la città non può entrare dentro le fabbriche, che vivono secondo schemi propri, le fabbriche possono però condizionare la città, perché è la città ad adeguarsi alle necessità della produzione fordista, e mai il contrario. Una delle espressioni più visibili di questo adeguamento, che diventa talvolta «dominio», è quella della sincronia tra la città e la fabbrica: i tempi dell’una si disegnano su quelli dell’altra, ma anche i servizi (si pensi ad esempio ai trasporti) sono disegnati in funzione dei ritmi e dei turni della produzione, come pure, più in generale le politiche urbanistiche, formative, e così via.
Quello che qualcuno ha definito il «dominio» della fabbrica sulla città riguarda in primo luogo il sistema economico locale, che cresce con una sempre minore diversificazione. La presenza della grande impresa definisce progressivamente la «vocazione industriale» del sistema economico locale, favorendo la crescita di attività collegate a quelle della grande fabbrica (con l’evoluzione dei sistemi di fornitura, che diventano sempre più complessi) e lasciando poco spazio ad attività davvero lontane da quelle manifatturiere. La città finisce per definire la propria identità sulla base della vocazione industriale, e questo forse a livello di autorappresentazione prima ancora che di rappresentazione esterna.
La produzione di massa comincia però a perdere efficacia, e con essa entra in crisi il modello fordista. La crisi del fordismo è tanto dirompente quanto il fordismo era stato capace di impregnare di sé il funzionamento delle città e delle società locali. Non si tratta solo di ristrutturare le fabbriche o i metodi di produzione, ma di immaginare e progettare un rapporto diverso tra la fabbrica e la società locale.
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Note
[1] Prima della costruzione dello stabilimento di Mirafiori, Fiat aveva inaugurato la produzione a catena nella fabbrica del Lingotto. Mirafiori vuole però dare piena espressione ai dettami del fordismo, lasciando che le linee di produzione si sviluppino in orizzontale, occupando gli ampi spazi disponibili fuori dalla città.