Matteo Colleoni (a cura di)
Territori in bilico
DOI: 10.1401/9788815374240/c2
La produzione di massa comincia però a perdere efficacia, e con essa entra in crisi il modello fordista. La crisi del fordismo è tanto dirompente quanto il fordismo era stato capace di impregnare di sé il funzionamento delle città e delle società locali. Non si tratta solo di ristrutturare le fabbriche o i metodi di produzione, ma di immaginare e progettare un rapporto diverso tra la fabbrica e la società locale.
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Dalla crisi del fordismo non emerge un nuovo modello produttivo alternativo, ma una varietà di modelli e di possibilità, una serie di «modi» per essere flessibili: dal modello giapponese per le grandi fabbriche alla specializzazione flessibile delle piccole imprese, dalla produzione diversificata di qualità alla multinazionalizzazione, e così via. Il fatto che si parli ancora oggi di «postfordismo» deriva proprio dall’impossibilità di individuare una nuova one best way: i modelli sono molti, sono spesso alternativi e a volte costretti a convivere; nessuno di loro è in grado di affermarsi e disegnare di sé il mondo come avevano fatto le fabbriche di inizio Novecento.
I modelli organizzativi e produttivi che popolano il postfordismo hanno però qualcosa in comune: non possono più prescindere dallo spazio, e sembra che prendano forma forme di concentrazione dei diversi tipi di produzione in diversi contesti territoriali. Le piccole imprese specializzate si concentrano in certe regioni italiane, le medie imprese tecnologicamente all’avanguardia si sviluppano in Germania, la produzione snella nasce in Giappone. Ciascuno di questi territori è in grado di alimentare la produzione con elementi diversi, con risorse che sono sempre, anche se in vario modo, locali.
Alla crisi del fordismo si affianca quindi la riscoperta del locale, vale a dire la necessità di fare i conti con il ruolo che il territorio gioca nella competitività delle imprese. Il successo dei distretti industriali è senza dubbio l’aspetto più noto e macroscopico di questo processo, ma anche la trasformazione delle grandi fabbriche e la gestione dell’uscita dal fordismo hanno aiutato, anche se in modo più silenzioso e graduale, a spostare lo sguardo sul locale.

2. La (ri-)scoperta del locale: casi di successo e casi di declino

La sociologia economica italiana è stata segnata in modo forte dalla scoperta del modello distrettuale, emerso in concomitanza con la crisi del fordismo. Come molti autori hanno sottolineato, i distretti non nascono negli {p. 23}anni Settanta, ma vengono in quel periodo riportati alla luce dagli osservatori, italiani e stranieri [Becattini 1989; Brusco 1989; Bagnasco 1977; Trigilia 1986; Piore e Sabel 1987] proprio come possibile alternativa alla produzione di massa. Lo studio dei distretti industriali porta in primo piano il ruolo della società locale, perché la competitività del sistema produttivo non si può spiegare se non a partire dalle relazioni economiche e non economiche che permeano le comunità locali.
Meno ovvio ma altrettanto importante è il percorso che conduce alla riscoperta del locale attraverso lo studio del declino industriale. È stato Angelo Pichierri [2002] a precisare che esistono due percorsi diversi che segnano l’emergere della dimensione spaziale nelle riflessioni di chi si occupa del rapporto tra economia e società: lo studio dei casi di successo come i distretti industriali, ma anche lo studio del declino dei precedenti modelli produttivi. La riflessione sull’uscita dal fordismo, infatti, con la ricerca di strumenti per arginare e per gestire la crisi della grande impresa, attraversa fasi che vedono una crescente rilevanza della dimensione territoriale. Il declino riguarda infatti, almeno agli occhi di operatori e osservatori, prima la singola impresa, poi un intero settore e infine un territorio (una «area a declino industriale»). Di conseguenza, le risposte alla crisi sono per un certo periodo di carattere organizzativo, poi di livello settoriale, e infine di livello territoriale, con politiche che riguardano le città e le regioni piuttosto che le imprese (come emerge anche dalla regolamentazione dei fondi strutturali europei).

2.1. Casi di successo: i distretti industriali e la riscoperta del territorio

Il modo più semplice per descrivere un distretto industriale è fare riferimento ad un’area territoriale e ad una specializzazione produttiva (il distretto tessile di Prato, il distretto meccanico di Modena, e così via). Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, però, la piccola impresa era {p. 24}considerata «arretrata» quasi per definizione, e destinata a scomparire o ad occupare un ruolo interstiziale e marginale. Fu con il decennio successivo che, come abbiamo detto, la crisi della grande impresa fordista e le sue ripercussioni territoriali resero studiosi e operatori più sensibili al fatto che un altro modello produttivo, espresso da agglomerazioni di piccole imprese dinamiche, competitive e fortemente esportatrici, non solo era possibile ma stava prosperando in alcune regioni in cui i lavoratori stavano piuttosto bene: mentre la deindustrializzazione investiva il nord ovest del triangolo industriale, al centro e nel nord est l’occupazione industriale addirittura aumentava.
L’attenzione venne attirata su questi «distretti industriali» dalla ricerca e dalle teorizzazioni di pochi economisti eterodossi, e poi di sociologi, geografi, storici. Nelle loro analisi il funzionamento dell’economia distrettuale è spiegato soprattutto da fattori extra-economici. Becattini [2000] raccoglie da Marshall non solo la nozione di «distretto industriale» ma anche quella, più vaga e suggestiva, di «atmosfera industriale», che caratterizza una situazione in cui «i segreti del mestiere sono nell’aria». Il distretto è per Becattini un «ispessimento localizzato di relazioni» ma le relazioni non riguardano solo le imprese, dato che c’è «interpenetrazione» tra il sistema delle imprese e la comunità in cui esse sono embedded [ibidem]. Il «senso di appartenenza» costituisce nel distretto una potente forza produttiva. Brusco [1989], studiando il comportamento delle «imprese di fase» e i successi del distretto che le ospita, arriva a una vera e propria codificazione delle regole non scritte che orientano i comportamenti, limitando l’opportunismo e permettendo la coesistenza di concorrenza e cooperazione. A questo punto l’incontro con i sociologi è inevitabile: Bagnasco e Trigilia, non a caso con base a Firenze come Becattini, stabiliscono i fondamenti della ricerca e della teorizzazione sociologica sui distretti [Bagnasco e Trigilia 1985; Bagnasco 1988].
Si può dire che «i geografi sono sensibili al ridisegno della geografia economica italiana, ma è un sociologo, Arnaldo Bagnasco, a sottolineare la dimensione spaziale del fenomeno {p. 25}distrettuale, coniando l’efficace e fortunata formula delle «tre Italie» [Pacetti e Pichierri 2021, 89]: la penisola non può essere descritta solo dal «triangolo industriale» e dalla «questione meridionale», perché nell’Italia del centro e del nord est ha preso forma una terza realtà socioeconomica territoriale dotata di caratteristiche proprie.
In tempi più recenti l’evoluzione delle reti distrettuali di origine distrettuale ha mostrato in alcuni casi una certa resilienza ma anche una notevole capacità di cambiamento. In altri casi i distretti sono semplicemente scomparsi. Quelli identificati come tali dall’Istat sono significativamente diminuiti: erano 199 nel 1991, 156 nel 2001, 141 nel 2011 [ibidem].
L’esperienza distrettuale ha messo a fuoco l’importanza di intrecciare in modo fecondo economia e società locale, di garantire alle imprese un tipo di embeddedness che ne sostenga la competitività, attribuendo un ruolo nuovo anche alle politiche locali. Tuttavia, a partire dagli anni Novanta enormi cambiamenti culturali hanno investito le società distrettuali: le subculture politiche cattolica e comunista si sono fortemente indebolite, l’atteggiamento dei giovani verso il lavoro è cambiato, il problema della successione è diventato drammatico per moltissime piccole imprese. Insomma, si può ipotizzare che la spiegazione della decadenza della formula distrettuale vada ricercata nella sfera della cultura prima ancora che in quella dell’economia, anche se non possono essere trascurati gli effetti delle evoluzioni globali di mercati e catene del valore.
Il vero insegnamento del caso distrettuale è quello dell’integrazione tra la prospettiva di chi guarda soprattutto alla struttura industriale e quella di chi guarda con attenzione alle implicazioni e alle premesse sociali e culturali di questa struttura. Diventa allora interessante riflettere sulla possibilità di nuove configurazioni nei casi caratterizzati da un impatto significativo dell’immigrazione [Barberis 2014; Dei Ottati 2009; Becucci 2018] o la riflessione sulla capacità dei distretti, o di alcuni loro protagonisti, di ritagliarsi un ruolo nuovo all’interno delle catene globali del lavoro [Gereffi et al. 2005; Greco 2016].{p. 26}
In Lombardia nel 2011 sono 29 i distretti industriali riconosciuti dall’Istat (erano 38 nel 2001). Di questi, 11 sono specializzati nella meccanica e 7 nel comparto tessile e dell’abbigliamento. Come nelle altre aree di piccola impresa, anche nei distretti milanesi hanno preso forma percorsi di trasformazione che hanno costretto le imprese ad affrontare le questioni legate alla crescente globalizzazione dei mercati, al tema della crescita dimensionale, con l’emergere della media impresa [Coltorti 2007] alle difficoltà dei passaggi generazionali, all’evoluzione verso cluster di imprese più omogenee e meno integrate, che vanno progressivamente affiancando i distretti anche nell’analisi del funzionamento delle agglomerazioni di imprese [Porter 1998].

2.2. Casi di declino: postfordismo, fallimenti permanenti, politiche locali

Mentre vengono scoperte le possibili alternative alla produzione di massa, i territori nei quali le fabbriche erano nate e cresciute si trovano a dover gestire una trasformazione complessa. L’adesione al modello fordista, che segna il successo della città-fabbrica nell’epoca della sua ascesa, la condanna alla crisi quando quel modello di produzione entra nella sua (lunga) fase di declino: alla crisi della grande impresa fordista e della sua presa sulla società corrisponde la diminuzione della popolazione operaia (solo in parte dovuta a fenomeni di esternalizzazione), il suo drammatico invecchiamento, la crescita di spazi urbani desolatamente inutilizzati, ma anche la difficoltà di individuare percorsi alternativi di sviluppo, capaci di mettere a sistema risorse diverse. Le fabbriche diventano così, da simbolo dello sviluppo industriale, emblema della trasformazione (solo a volte riuscita) e della necessità di ridefinire il rapporto tra città e produzione.
Il percorso di allontanamento dal fordismo è però lungo e complesso, e per molto tempo è stato difficile leggere la trasformazione in atto: a partire dagli anni Settanta e per gran parte dei decenni successivi il problema non è stato
{p. 27}quello di costruire un sistema alternativo a quello della produzione di massa, ma piuttosto quello di «riaggiustare» [2]
la produzione industriale in modo da renderla più flessibile e adeguata alle trasformazioni dei mercati. Le produzioni flessibili non hanno però bisogno di stabilimenti giganteschi né di masse enormi di lavoratori, e la trasformazione assume i connotati del declino industriale e della deindustrializzazione.
Note
[2] Strategie di riaggiustamento industriale è il titolo di un volume curato da Marino Regini e Charles Sabel nel 1989, nel quale si propone di concentrare l’attenzione sui diversi assetti istituzionali in grado di favorire i percorsi di ristrutturazione industriale e l’emergere di nuovi modelli flessibili di produzione.