Andrea M. Maccarini (a cura di)
L'educazione socio-emotiva
DOI: 10.1401/9788815370327/c1
Queste formulazioni sono apparentemente semplici e compatte. Indicano disposizioni dei soggetti umani che siano
{p. 31}i) relativamente stabili, ii) non misurabili attraverso test del QI o altri test standardizzati di prestazioni cognitive, iii) modificabili attraverso interventi educativi, iv) dipendenti da fattori situazionali e v) potenzialmente produttive di vari tipi di beni, personali e sociali [Duckworth e Yeager 2015]. Tuttavia, nell’ambito delle scienze umane e sociali si trovano vari altri termini, che coprono uno spazio concettuale almeno in parte sovrapponibile a questo e sono espressione di interessi disciplinari e tematici diversi, così come di diverse prospettive di analisi sulla società in generale. Per esempio, si parla di competenze non cognitive, carattere, capitale umano, tratti di personalità, soft skills, e altro ancora. Il volume non ha l’obiettivo di ricostruire esaustivamente il vasto dibattito che ne risulta. Per i nostri scopi è sufficiente dirimere alcuni dilemmi fondamentali e argomentare le scelte compiute in questa ricerca.
Per quanto riguarda la nozione di soft skill, è facile osservare che essa rimane vaga, non indicando con precisione a quali capacità si riferisca. Inoltre, la distinzione tra ciò che è soft e ciò che è hard appare piuttosto arbitraria. Per esempio, perché il coraggio, la perseveranza o la resistenza allo stress dovrebbero essere definiti soft, mentre la conoscenza della geografia, della biologia o di altri contenuti disciplinari sarebbe hard? In che senso e con quale rilevanza? Peraltro, le competenze disciplinari tendono oggi notoriamente a invecchiare rapidamente; sono dunque certamente più instabili e meno «robuste» delle SES sul piano temporale.
L’idea di «tratti» di personalità – rispetto a quella di «competenze» – porta con sé il rischio di riferirsi a caratteristiche innate, non modificabili e quindi poco utili in campo educativo.
Viene in conto poi il concetto di capitale umano, elaborato in ambito economico. Esso ha a che vedere con le SES in quanto, come abbiamo visto, alcuni dei benefici che da esse si attendono riguardano la sfera dell’attività lavorativa. Dunque, esse farebbero parte delle risorse, cioè del «capitale» che i soggetti umani possiedono – e per altri versi del capitale che essi rappresentano per le imprese. Tuttavia, la sovrapposizione tra i due concetti è soltanto parziale. Da un {p. 32}lato, le SES contribuiscono anche ad altri esiti socialmente desiderabili, al di fuori della sfera economica. Dall’altro, il capitale umano comprende altre componenti – per esempio le conoscenze e competenze cognitive in senso stretto – che non sono SES. Infine, l’idea di SES rispetto a quella di «capitale» intende sottolineare fortemente l’aspetto dinamico, flessibile e «attivo», non sono assimilabili a uno stock.
Più complesso è il terzo dei problemi definitori, che riguarda l’integrazione di una capacità di prestazione e di una dimensione morale. La maggior parte delle definizioni correnti confonde questi aspetti in modo non riflessivo. Si dice, per esempio, che le SES implicano la capacità di sviluppare cura e premura per gli altri e gestire situazioni difficili in modo etico e costruttivo [CASEL 2013]. E nei lunghi elenchi di «competenze» presenti in letteratura si ritrovano, senza distinzione, elementi quali diligenza, integrità, apertura all’esperienza, propensione al rischio, disciplina, affidabilità, abnegazione, empatia, leadership, energia, entusiasmo, capacità di ascolto, equanimità, pensiero critico, gratitudine, e molte altre. Con tutta evidenza, si mescolano qui tre dimensioni diverse: a) competenze; b) virtù morali; c) atteggiamenti complessi e multidimensionali [14]
. Queste dimensioni indicano componenti diverse delle qualità personali di cui ci stiamo occupando, che vanno distinte-e-relazionate esplicitamente, per ragioni concettuali ed empiriche. Dal punto di vista concettuale, alcuni degli elementi sopra citati chiamano in causa atteggiamenti che eccedono per definizione l’idea di «competenza» e portano nella sfera degli impegni al valore [come nota anche Kankaraš 2017]. Per esempio, è solo in modo improprio che disposizioni quali la gratitudine, l’empatia o l’introversione/estroversione vengono pensate (esclusivamente) come «competenze». Dal punto di vista empirico, alle SES vengono spesso associati effetti che non possono derivare (soltanto) da una competenza. Per esempio, le ricerche indicano una correlazione tra SES e calo dei comportamenti criminali, ma avere un elevato {p. 33}livello di certe SES non significa immediatamente che un giovane sia motivato a tenere comportamenti moralmente irreprensibili. Gli individui che commettono atti di bullismo o di mobbing – a scuola o in un’azienda – sono spesso abili manipolatori, capaci di piegare le dinamiche sociali di un gruppo ai loro scopi. Senza la dimensione morale, le SES costituiscono un arsenale di capacità operative senza un chiaro obiettivo positivo [15]
. Il SEL potrebbe quindi diventare una sorta di antropotecnica [Sloterdijk 2009], il cui nesso con l’etica rimane da chiarire e rimanda a un processo di socializzazione complessiva della persona. La volontà dei ricercatori di neutralizzare le dimensioni motivanti e morali attraverso la nozione di competenza chiaramente non risolve questi problemi.
Insomma, il termine SES può essere riduttivo, dimenticando o incorporando silenziosamente caratteristiche personali che non sono semplicemente «competenze».
L’alternativa consiste nel designare tali caratteristiche con termini quali «carattere» (character) [Arthur 2005; Berkowitz, Althof e Bier 2012; Tough 2013; Kristjánsson 2013]. Questo esprime un insieme di qualità personali molto prossime a quelle definite come SES, ma colte nella loro dimensione motivante e moralmente qualificata. In alcune formulazioni, il carattere è definito come:
il valore etico che assegniamo ai nostri desideri e alle nostre relazioni con gli altri. [...] Il carattere si esprime attraverso la lealtà e la dedizione reciproca, o attraverso il perseguimento di obiettivi di lungo termine, o praticando il differimento della gratificazione in nome di un fine futuro [Sennett 1998, 10].
Compaiono qui alcuni tratti tipici della definizione di SES, ma chiaramente caricati di una valenza etica. Lo stesso si può dire delle versioni secondo cui il carattere si riassume in spirito di disciplina (inteso come capacità di resistere a pulsioni negative, esterne e interne al soggetto), attaccamento {p. 34}a un bene (per esempio a obiettivi di lungo periodo) e senso di autonomia personale [Hunter 2000; Porpora 2001] [16]
.
La distinzione tra performance character e moral character [Berkowitz, Althof e Bier 2012; Lickona e Davidson 2005; Seider 2012] rappresenta appunto una modalità riflessiva attraverso cui la teoria prende atto della questione che abbiamo ora rapidamente discusso. Tale formula ha il merito di distinguere e integrare impegni e principi motivanti con tratti e disposizioni capacitanti. Queste ultime possono allora essere viste come condizioni necessarie perché comportamenti moralmente positivi vengano applicati adeguatamente in vari contesti e situazioni. È in questo senso che si parla talora di character skills. Questa espressione sintetica può essere pragmaticamente utile – anche se prioritizza comunque il termine skill – a patto di esplicitare l’argomento latente che la sostiene e di trattare i vari fattori in modo non confusivo e non riduzionistico. Per esempio, la connotazione simbolica, quindi la particolarità delle culture, nel definire competenze e virtù dev’essere inclusa nel discorso.
Un’ultima considerazione riguarda la diffusa formula «competenze non cognitive» [Lipnevich, Preckel e Roberts 2016], che anch’essa insiste sullo stesso ambito semantico. In realtà, le SES non sono affatto estranee all’ambito cognitivo. In primo luogo, ogni aspetto del funzionamento mentale implica una qualche forma di elaborazione d’informazioni, in senso astratto e generale [Duckworth e Yeager 2015; Kankaraš 2017]. Inoltre, le teorie dello sviluppo umano includono tipicamente una dimensione cognitiva, una affettiva e una comportamentale e questa struttura triadica {p. 35}si riflette nelle definizioni del concetto di character a cui abbiamo fatto riferimento sopra. L’aspetto cognitivo è presente altresì nel processo di apprendimento socio-emotivo. Per esempio: una relazione cooperativa implica la capacità di percepire e comprendere la diversità di Alter, d’interpretarne i sentimenti e le relative espressioni psicologicamente e culturalmente connotate; implica poi la capacità di entrare in sintonia affettiva con l’altro e infine la capacità di attuare e sostenere nel tempo comportamenti coerenti. Per questo, tra l’altro, le competenze sociali sono spesso concettualizzate come una forma d’intelligenza [17]
.
Ciò che rimane corretto nella connotazione «non cognitiva» è l’idea che le competenze in questione non siano specificamente legate a un certo tipo di compito da svolgere (non task specific), né a determinati ambiti disciplinari.
Per concludere: sulla base delle considerazioni precedenti, in questa ricerca adottiamo la nozione di competenze socio-emotive o caratteriali. Sono stati misurati i livelli di alcune competenze socio-emotive (vedi par. 3 infra), intendendo con ciò osservare primariamente le capacità di prestazione. Perciò gli strumenti impiegati sono assunti dalla letteratura sulle SES. Al tempo stesso, lo studio delle dinamiche quotidiane della vita scolastica ha portato l’attenzione anche sull’intenzionalità educativa nel senso motivante, di trasmissione di principi e valori, di costruzione d’impegni e premure. L’integrazione sistematica tra queste dimensioni richiede senz’altro ulteriori e più raffinati sviluppi, ma speriamo di contribuire ad avviare una riflessione orientata in tal senso.

2.3. Il quadro di riferimento concettuale

Le competenze, così definite, sono state sistematizzate in molteplici modelli concettuali, che ne articolano le dimensioni ritenute importanti per la struttura della personalità e per gli effetti che a esse si associano. A seconda degli
{p. 36}interessi scientifici e delle impostazioni teoriche, questi modelli organizzano diversamente la materia. Mi limito qui ad alcuni esempi, senza alcuna pretesa di esaustività: la P21 (Partnership for 21st Century Skills) ha affermato le cosiddette «quattro C»: pensiero critico, comunicazione, collaborazione e creatività. Nel celebre testo di Tony Wagner, The Global Achievement Gap [2010], sono elencate sette «competenze per la sopravvivenza»: problem solving e pensiero critico, collaborazione con reti diverse e capacità di leadership, flessibilità e adattabilità, iniziativa e imprenditorialità, efficacia comunicativa (orale e scritta), capacità di accedere e analizzare informazioni, curiosità e immaginazione.
Note
[14] Questo avviene in Durlak et al. [2015] e nella maggior parte della letteratura basata sulla nozione di SES.
[15] Analoghe considerazioni valgono per il concetto di capitale sociale e sono emerse per esempio nel dibattito sul suo nesso con le organizzazioni criminali.
[16] Queste considerazioni spiegano anche che SES e character sono quasi sempre espressione di psico-semantiche differenti sul piano della corrispondenza macro-sociologica. L’idea di character è più spesso associata a una semantica «critica», secondo cui capitalismo, materialismo e individualismo espressivo «corrodono» le migliori qualità personali. Questo concetto implica dunque una qualche forma di resistenza psichica, antropologica e culturale. La nozione di SES si avvicina invece normalmente a una visione che enfatizza la necessità di adattamento e integrazione in contesti di lavoro e interazioni quotidiane sempre più complessi, interconnessi e collaborativi.
[17] Come ricorda ancora Kankaraš [2017], citando Marlowe [1986]; Murphy e Hall [2011].