Andrea M. Maccarini (a cura di)
L'educazione socio-emotiva
DOI: 10.1401/9788815370327/c1
Inoltre, è proprio della prospettiva sociologica implicare un ancoraggio macro-sociale delle indagini in campo educativo. Sotto questo profilo, la riflessione della sociologia dell’educazione ha dato luogo a un duplice programma di ricerca, che ha caratterizzato l’identità della disciplina dalle origini sino a oggi. Da un lato si ha la costante attenzione
{p. 26}al nesso che lega educazione, giustizia, eguaglianza e mobilità sociale [9]
. Dall’altro, l’interesse sociologico ruota attorno a un nocciolo tematico che si potrebbe definire antropologico: il contesto macro-strutturale viene studiato in connessione con le forme in cui la cultura educativa – la paideia tipica di ogni epoca – contribuisce a costruire l’identità personale e collettiva. Ogni costruzione identitaria è in relazione a modelli dell’ordine sociale e culturale, attraverso cui vengono definiti valori, credenze, modelli comportamentali e qualità personali socialmente desiderabili, con le relative modalità di formazione – attraverso i processi di socializzazione – dei tipi umani appropriati [Eisenstadt e Giesen 1995; Mannheim e Campbell Stewart 2017]. Senza risalire fino alla celeberrima e scontata «formazione dell’uomo greco», è noto che in epoca moderna diverse costellazioni simboliche di costruzione della soggettività umana hanno caratterizzato i programmi educativi europei [10]
. Che i sistemi educativi (accompagnati dall’attenzione critica della sociologia) mirino esplicitamente alla «formazione» del soggetto umano nelle sue varie dimensioni, comprese quelle sociali, emozionali e morali, non è dunque una peculiarità contemporanea, magari ascrivibile a una qualche cattiva coscienza tardo-capitalistica. Per limitarci a un solo esempio, ricordiamo la classica riflessione di Durkheim [1938] sui principi dell’educazione morale – lo spirito di disciplina, l’attaccamento alla società e l’autonomia individuale – che dovrebbero dare forma all’ideale educativo francese, e che era volta a comprendere le forme della soggettività adeguate alle strutture sociali della «solidarietà organica». In effetti, quel{p. 27}la trattazione sembra quasi echeggiare da lontano proprio le competenze «caratteriali» di cui ci stiamo occupando.
Lungo questa linea di sviluppo, il quadro macro-sociale contemporaneo costituisce l’orizzonte di senso del discorso educativo sulle competenze sociali ed emotive. Quest’ultimo si staglia, dunque, sullo sfondo severo di una società caratterizzata da globalizzazione, complessità e volatilità, rischio, moltiplicazione delle possibilità d’esperienza e d’azione, accelerazione sociale e forte pressione performativa sulle soggettività umane. In sintesi estrema, si tratta di un contesto societario sfidante, non disponibile a essere comodamente abitato. Ciò spiega anche la rilevanza socio-culturale e civile e la crescente ubiquità del tema SES. Più in generale, si osserva l’ampliarsi del raggio semantico del termine-concetto «competenza», che è andato diffondendosi a vari livelli di analisi e per lo studio di una pluralità di fenomeni sociali. Pensiamo per esempio alla «incompetenza civilizzante» ipotizzata come chiave interpretativa di alcuni fallimenti, dal punto di vista democratico, del «nuovo» Est europeo post-comunista [Sztompka 1993]. Tale discorso si riferiva ad alcune (in)capacità pratiche di vita quotidiana, come la puntualità, oltre che a orientamenti culturali e ai modi d’interagire adeguati (o meno) a una sfera civile democratica. Al tempo stesso, la sociologia dell’azione ha esaminato le capacità che le persone mettono in atto quando entrano nell’arena pubblica per chiedere o realizzare giustizia, oppure quando compiono gesti di benevolenza gratuiti e super-erogatori. In questo caso, la produzione di beni collettivi cruciali è considerata un effetto di «ce dont les gens sont capables» [Boltanski 1990]. Inoltre, è appena il caso di menzionare le accuse di eclatanti incompetenze intellettuali, morali, comportamentali oggi rivolte alle élite politiche, economiche e culturali delle società avanzate. Specularmente, un’idea analoga è emersa di recente a proposito non delle élite, ma del «popolo adolescente» che abita le società occidentali tardo-moderne, culturalmente e psicologicamente inadeguato ad affrontare rischi e catastrofi peraltro sempre più probabili, come la pandemia che stiamo vivendo [Le Goff 2021]. Infine, in una vasta letteratura, soprattutto {p. 28}psicologico-sociale, la carenza di SES è stata correlata ai fenomeni di bullismo o di abbrutimento della vita sociale, alle incapacità di interagire utilmente, alle depressioni e demotivazioni, e in generale alla pressione sull’umano della società contemporanea. E l’elenco potrebbe continuare.
Sarebbe interessante riflettere sul significato e sulle implicazioni legate alla decisione teorica di porre questi problemi in termini di «competenza», differenziando e connettendo le varie semantiche rilevanti. Non possiamo soffermarci su questo tema, che qui deve necessariamente rimanere sullo sfondo. Ma è comunque chiaro che le sfide del mondo contemporaneo chiamano in causa i tratti psicologici e antropologico-culturali più profondi delle nostre società. Ed è chiaro che, come ogni ideale educativo, anche quello delle SES dice qualcosa sulla società e sulla civiltà che lo producono, mentre al tempo stesso le modifica.
Da tutto ciò derivano dilemmi complessi. A quale livello opera il discorso educativo che stiamo esaminando? Si tratta di una visione totalizzante del soggetto umano – della sua «ri-forma(tta)zione» – oppure di un approccio parziale, riferito ad alcuni tratti soltanto? Implica l’idea di un «profilo caratteriale» sostantivo oppure di abilità declinabili entro personalità e definizioni culturali differenti? [11]
La narrazione educativa delle SES si ridurrà a una spinta puramente adattativa, di stampo funzionalista, oppure produrrà generazioni di professionisti e cittadini critiche e creative? Contribuirà a innovazioni delle pratiche educative in senso inclusivo oppure produrrà nuove forme di marginalizzazione? Avrà una valenza positiva per l’eguaglianza di opportunità o viceversa finirà per favorire la riproduzione sociale? Darà una forte spinta alla personalizzazione dell’educazione o produrrà una rinnovata standardizzazione? E a quali condizioni nel modo di pensare, nelle politiche e nelle pratiche educative, prevarrà l’uno o l’altro di questi esiti? Sono, queste, domande estremamente importanti. Esse si stagliano all’orizzonte e costituiscono un interesse latente anche della presente ricerca, {p. 29}che – come sempre in ambito scientifico – deve muoversi entro confini molto più limitati, con obiettivi decisamente più mirati e modesti, che abbiamo qui precisato. È tuttavia possibile indicare almeno le linee interpretative fondamentali che danno forma al nostro modo di avvicinarci al tema [12]
. In breve, il nostro lavoro si svolge entro un quadro di riferimento teorico che pensa le SES come concetto:
a) multidimensionale: è un costrutto in cui coesistono dimensioni abilitanti e motivanti;
b) culturalmente definito: il che tra l’altro rende problematico un approccio valutativo comparato, per non parlare di eventuali tentativi di elaborare ideali di «carattere globale» [13]
;
c) sovrafunzionale: cioè non riducibile a un elenco numerabile di effetti attesi, sul piano funzionale e del migliore adattamento; la molteplicità degli esiti esistenziali (life outcomes) che si attribuiscono alle SES in varie sfere di vita costituisce un argomento in questo senso;
d) non totalizzante, ossia abilitante e aperto al senso e a ulteriori determinazioni.
La nostra tesi, dunque, è che l’idea di educare alle SES – di per sé – non contrasti assolutamente con il fatto che ogni soggetto umano ha il suo modo personale e culturale di stare nel mondo. Questo «stare nel mondo», tuttavia, richiede delle abilità e tra queste le SES. Esse non costituiscono e non generano il senso del mondo e della vita, ma possono dischiuderlo allo sguardo e all’esperienza delle persone, permettendo loro di entrare in contatto con esso. E questo «dischiudersi» si attua attraverso una risonanza {p. 30}[Rosa 2016] – tra il soggetto e il mondo in tutte le sue dimensioni – che può emergere soltanto da relazioni adeguate.
Nel prossimo paragrafo svolgiamo alcune considerazioni, sul piano teorico-concettuale, che articolino almeno in parte queste tesi. Sarà il lettore a decidere se e come questo libro dia un modesto contributo a riflettere su tutto ciò.

2.2. Quali «competenze»? Problemi di definizione

Abbiamo sin qui parlato di competenze socio-emotive (SES) e di competenze caratteriali, dando per scontata una preliminare e generica comprensione di questi termini. Dobbiamo ora definire i nostri concetti chiave in modo rigoroso e discutere alcuni dilemmi che li accompagnano.
La nozione di SES ha seguito un percorso di progressiva precisazione, segnato da tre problemi fondamentali. Il primo è l’esigenza di definire il concetto in modo operativo e misurabile. Il secondo è la necessità di comprendere le SES in modo fruibile nell’ambito pratico dell’educazione. Da questa angolatura, la definizione più comune è attualmente la seguente. Le SES sono:
capacità individuali che a) si manifestano in modelli coerenti di pensiero, sentimento e comportamento, b) possono essere sviluppate attraverso esperienze di apprendimento formali e informali e c) influiscono su importanti esiti socio-economici lungo tutto il corso della vita [John e De Fruyt 2015, 6].
A sua volta, l’apprendimento socio-emotivo si definisce come
il processo attraverso cui bambini e adulti acquisiscono e applicano efficacemente la conoscenza, gli atteggiamenti e le competenze necessarie a comprendere e gestire le emozioni, a porsi e a conseguire obiettivi positivi, a sentire e manifestare empatia per gli altri, a stabilire e mantenere relazioni positive e a prendere decisioni responsabili [Weissberg et al. 2015, 8].
Queste formulazioni sono apparentemente semplici e compatte. Indicano disposizioni dei soggetti umani che siano
{p. 31}i) relativamente stabili, ii) non misurabili attraverso test del QI o altri test standardizzati di prestazioni cognitive, iii) modificabili attraverso interventi educativi, iv) dipendenti da fattori situazionali e v) potenzialmente produttive di vari tipi di beni, personali e sociali [Duckworth e Yeager 2015]. Tuttavia, nell’ambito delle scienze umane e sociali si trovano vari altri termini, che coprono uno spazio concettuale almeno in parte sovrapponibile a questo e sono espressione di interessi disciplinari e tematici diversi, così come di diverse prospettive di analisi sulla società in generale. Per esempio, si parla di competenze non cognitive, carattere, capitale umano, tratti di personalità, soft skills, e altro ancora. Il volume non ha l’obiettivo di ricostruire esaustivamente il vasto dibattito che ne risulta. Per i nostri scopi è sufficiente dirimere alcuni dilemmi fondamentali e argomentare le scelte compiute in questa ricerca.
Note
[9] Nell’albero genealogico di questo filone di studi, è ovvio ricordare che esso ha avuto nell’approccio di Pierre Bourdieu un punto di riferimento classico. Un contributo recente, esemplificativo di tale linea di ricerca, che integra efficacemente analisi teorica ed empirica si può leggere in Benadusi e Giancola [2021].
[10] Con riferimento al programma radicale e a quello liberale in Francia, rimane importante in merito il lavoro di Glenn [1988]. Ovviamente, l’articolazione di ideali educativi comprensivi non è, poi, una peculiarità occidentale. Tra i numerosi esempi possibili, per una trattazione riferita alla Cina cfr. Tu Wei-Ming [1998].
[11] Ho cominciato a discutere questo aspetto della questione in Maccarini [2021]. Tornerò altrove su questo argomento.
[12] Per considerazioni più ampie e sistematiche, benché introduttive, in merito devo rinviare a Maccarini [2019, cap. 8]. Quel testo costituisce una base di partenza dell’approccio che qui trova uno sviluppo sul piano empirico.
[13] Ciò non esclude che un’idea di «carattere globale» possa emergere. Significa, però, che essa sarebbe a sua volta una formula parziale tra le altre possibili, dipendente da una particolare cultura con i suoi presupposti ontologici ed etici, e non una sorta di «esperanto antropologico» universale e simbolicamente neutrale. Il Davos man [Sennett 1998] può senz’altro esistere empiricamente, ma rappresenterà una «nicchia» identitaria e di stile di vita tra altre.