Giuseppe Antonelli, Giacomo Micheletti, Anna Stella Poli (a cura di)
Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c6

Nadia Cannata Rappresentare l’idea della lingua attraverso il tempo, lo spazio e le culture: esperienze passate e nuovi progetti

Notizie Autori
Nadia Cannata si è laureata presso l’Università La Sapienza di Roma nel 1985 e ha conseguito il DPhil presso l’Università di Oxford nel 1991. È stata post-doctoral fellow della British Academy e dal 1992 professore presso il Dipartimento di Studi italiani dell’Università di Reading. Oggi insegna Linguistica italiana presso il Dipartimento di Studi europei, americani e interculturali della Sapienza. Si occupa di storia del libro a stampa nel primo Rinascimento, edizione critica di testi poetici in volgare e in latino, bibliografia testuale, rapporto fra le arti figurative e la letteratura, trattatistica sulla lingua. Coordina il progetto Eurotales, per un museo delle voci d’Europa, e ha curato il primo studio dedicato ai musei delle lingue nel mondo (2020).
Abstract
Un museo della lingua italiana, come qui si progetta, deriva il suo carattere necessariamente e anzitutto dai confini delimitati dal titolo che si è scelto. MULTI, estensione digitale del MUNDI, il Museo nazionale dell’italiano che si viene costruendo a Firenze, si dichiara, appunto, una rappresentazione della lingua italiana, senza ulteriori specificazioni. La lingua scritta è forse lo strumento primario nella formazione di una tradizione culturale, la quale a sua volta dà sostanza a una identità riconosciuta. Negli ultimi vent’anni sono stati fondati diversi musei dedicati alle lingue: molti in Europa, almeno sei in Italia. La maggioranza di essi è dedicata a lingue cosiddette «minoritarie», e ha lo scopo di salvaguardare un patrimonio percepito come a rischio di dispersione. Esiste poi una seconda categoria di musei, che sono quelli dedicati alla lingua come fenomeno culturale e sociale: gli esempi più interessanti sono Mundolingua a Parigi e Planet Word a Washington. Infine, recentissimo è il progetto dell’Università di Cambridge, diretto da Wendy Ayers-Bennet e finanziato dall’ARHC (Arts and Humanities Research Council, un soggetto pubblico), che ha lanciato un museo pop-up, cioè itinerante e allestito in brevissimo tempo in luoghi pubblici (centri commerciali, negozi, ristoranti), con lo scopo di diffondere informazioni e soprattutto interesse per le lingue, per la coscienza della propria identità linguistica e il multilinguismo. A questo proposito, se è possibile fornire un suggerimento in questa sede, dall’esperienza di queste recentissime forme museali, grazie alle quali è possibile immaginare e allestire esposizioni innovative e impossibili in un museo tradizionale, si trae anche e senz’altro l’indicazione che è fondamentale coltivare un legame forte con il museo fisico, sia per accrescerne la conoscenza e la diffusione, sia – e direi soprattutto – per poter assicurare la conservazione nella memoria e nella tradizione culturale dell’oggetto che il museo è nato anzitutto per rappresentare e custodire.

1. Quale lingua?

Un museo della lingua italiana, come qui si progetta, deriva il suo carattere necessariamente e anzitutto dai confini delimitati dal titolo che si è scelto. MULTI, estensione digitale del MUNDI, il Museo nazionale dell’italiano che si viene costruendo a Firenze, si dichiara, appunto, una rappresentazione della lingua italiana, senza ulteriori specificazioni. Questo avviene in continuità con la storia del progetto, annunciato più di dieci anni fa da Luca Serianni e Lucilla Pizzoli [2010], e ancor prima dalla grande mostra allestita agli Uffizi nel 2003-04 per cura degli stessi studiosi e della Società Dante Alighieri [1]
. La mostra, uno dei primi tentativi di rappresentare museograficamente una lingua, ha poi viaggiato in vari formati in moltissime altre sedi in Italia e in Europa, ed è stata frequentemente esposta durante la settimana della lingua italiana nel mondo. Una versione della mostra è visitabile ad oggi presso la sede romana della Società Dante Alighieri [2]
.
Il titolo di eco dantesco-goethiana Dove il sì suona è in sé già una perfetta illustrazione dell’ambito in cui quell’idea di italiano si colloca. In tutti i contributi finora pubblicati il progetto e la sua impostazione scientifica e rilevanza sociale, la motivazione circa la scelta del nome o la definizione storica dell’oggetto che si intende rappresentare sono rimasti impliciti, senza che venissero discussi eventuali problemi teorici legati alla sua definizione. Questo perché la scelta {p. 60}del nome è inequivoca, e rafforzata dalla decisione più recente – e fortemente simbolica oltre che culturalmente assai significativa – di collocare la sede del museo in Firenze, che ha suggellato, senza ambiguità, come il museo intenda rappresentare l’evoluzione storica e le varietà, declinazioni e ricchezza di quella lingua che per accordo implicito, ma diffusamente e concordemente accettato, è percepita come «nazionale» [3]
..Il progetto museale la identifica, descrive e rappresenta a partire dal luogo in cui essa è nata come lingua letteraria, e dal sito nel quale si è stabilita l’Accademia della Crusca, prima istituzione in Europa a occuparsi della rappresentazione, appunto, di una lingua. La sede fisica del museo serve da riferimento simbolico alla città che è stata culla di quella lingua e della tradizione che in essa si incarna. Firenze è la patria di quel volgare illustre che ha saputo ridurre a sé le lingue d’Italia e rappresentarne una identità condivisa, sia in Italia sia fuori: la realizzazione del sogno di Dante.
La lingua scritta è forse lo strumento primario nella formazione di una tradizione culturale, la quale a sua volta dà sostanza a una identità riconosciuta. Così la tradizione letteraria che corre da Dante a Manzoni e da Manzoni a Levi, Pasolini, Morante e Zanzotto (ma anche a Igiaba Scego e Jhumpa Lahiri) ha stretto il nodo dello stile e della lingua che oggi chiamiamo italiana, costituendola come oggetto riconoscibile e riconosciuto, che ha potuto così arricchirsi abbracciando nel suo seno le declinazioni più varie, pur mantenendo la sua identità e rilevanza sociale e storica.
Tuttavia le lingue, pur trovando una loro materialità nella scrittura e nella formazione di una tradizione culturale – che a sua volta è in larga misura una conseguenza proprio del processo di scritturazione e che in esse finisce per riconoscersi –, sono immateriali per natura, e in continuo movimento {p. 61}ed evoluzione. Pur essendo oggetti storici e documentabili come tali, esse vivono anzitutto nella dimensione liquida dell’oralità, in un costante movimento verticale nel tempo, e in un perpetuo adeguamento, per così dire «orizzontale», alla varietà incessante e imprevedibile delle circostanze della comunicazione. Ne consegue la difficoltà a contenerle in una definizione, o a circoscriverne lo spazio ideale in limiti riconoscibili [4]
.
Al tempo stesso, e nonostante questa natura essenzialmente concettuale e astratta, esse forniscono però un luogo certo a cui individui, comunità, popoli, nazioni, stati legano la propria identità culturale e la memoria della propria storia. Le lingue esistono perché sono il frutto di una relazione sociale e di un patto che le tiene in vita, e che le rafforza quanto più è stretto; la solidità di quel tacito patto serve alla comunicazione, dunque alla possibilità di stabilire relazioni sociali, e consente perciò la costruzione e il funzionamento della comunità, il dialogo e l’inclusione e anche, talvolta e per gli stessi motivi, l’imposizione di confini invalicabili fra sé e l’altro, l’erezione di barriere identitarie (o ideologiche, o politiche, o strumentali) ritenute necessarie a segnare una distanza o una rottura fra sensibilità e culture. Pochi oggi contesterebbero alla lingua questa funzione identitaria e simbolica, e il suo ruolo di custode ideale della memoria; in specie in Europa, e senz’altro in Italia. Ma resta da stabilire di quale identità una lingua sia veicolo – e anche qui il nostro oggetto si sposta continuamente –, poiché la percezione identitaria e la tradizione culturale sono anch’esse oggetti immateriali e «liquidi», stabiliti di volta in volta a seguito di un patto interno alla comunità: tale patto viene rinegoziato e riscritto continuamente, perché le comunità mutano, si accrescono o muoiono, e con esse mutano anche le tradizioni culturali, le percezioni identitarie, e naturalmente, le lingue.
Inoltre, se estendessimo la nostra attenzione a una minoranza di lingue europee la cui proiezione globale ha esteso e complicato in modo considerevole l’idea dell’identità {p. 62}culturale che esse rappresenterebbero – penso ad esempio al francese, all’inglese o allo spagnolo, lingue che sono oggi materne di popoli lontanissimi dai confini naturali dei territori in cui quelle lingue sono nate –, faticheremmo non poco a far coincidere la storia di quelle lingue con quella dei popoli per i quali oggi usiamo il medesimo riferimento onomastico [5]
.

2. Quale museo?

Negli ultimi vent’anni sono stati fondati diversi musei dedicati alle lingue: molti in Europa, almeno sei in Italia [6]
. La maggioranza di essi è dedicata a lingue cosiddette «minoritarie», e ha lo scopo di salvaguardare un patrimonio percepito come a rischio di dispersione. In Italia vi sono musei dedicati all’occitano, al ladino, al griko; in Europa ci sono musei dell’esperanto, del basco e, fra le lingue dotate di passaporto (per dirla con Weinrich), del lituano e del norvegese. Colpisce la mancanza di musei dedicati alle grandi lingue di tradizione, quelle con il maggior numero di parlanti in Europa: oltre al progettato museo dell’italiano, esistono un museo del portoghese, ma con sede a San Paolo del Brasile, e un progetto di museo della lingua inglese, con sede a Winchester, anch’esso collocato, come il museo dell’italiano, in un luogo fortissimamente simbolico ed evocativo della preistoria di quella lingua, che tuttavia non svolge una funzione significativa di irradiazione o diffusione per la lingua contemporanea. Tedesco, spagnolo e francese non hanno musei dedicati, né, che io sappia, ve ne sono in progetto: per il tedesco esiste una accademia ispirata alla nostra Crusca, la Fruchtbringende Gesellschaft fondata nel {p. 63}1617 a Weimar da Ludwig von Anhalt-Köthen, ma non un museo. Dunque il MULTI e il MUNDI rappresentano un esperimento importante, e segneranno un precedente rilevante nella storia della museografia applicata alle grandi lingue di tradizione.
Esiste poi una seconda categoria di musei, che sono quelli dedicati alla lingua come fenomeno culturale e sociale: gli esempi più interessanti sono Mundolingua a Parigi e Planet Word a Washington. Entrambi sono dedicati a un pubblico generalista, con particolare riguardo a bambini e ragazzi, e hanno come obiettivo primario non quello di illustrare storia e usi di una lingua in particolare, ma di suscitare curiosità e interesse per le parole, la lingua e la lettura. Così si legge nelle pagine di benvenuto di entrambi i siti: Mundolingua si definisce «le musée des langues, du langage et de la linguistique» [7]
; Planet Word dichiara come suoi obiettivi precipui il contrasto all’analfabetismo, il coinvolgimento e l’impatto sulla comunità, la promozione del rispetto per la diversità, l’inclusione [8]
.
Infine vi sono musei dedicati alle culture linguistiche rappresentate entro uno spazio geografico: il primo esempio di questo tipo è stato il Museo della lingua canadese fondato nel 2011 presso l’Università di Toronto e ancora diretto da Elaine Gold, docente di linguistica in quell’ateneo per oltre vent’anni. Il Museo è nato per invitare il pubblico canadese a conoscere e a interessarsi alla ricchezza delle diverse culture linguistiche rappresentate nel vasto territorio del paese, che comprendono le due lingue ufficiali (inglese e francese), i loro dialetti locali e un numero considerevole di lingue indigene (fig. 1); e inoltre numerose «lingue di tradizione» (o heritage languages, come sono definite nei contesti anglosassoni), fra cui ad esempio l’italiano, disseminate nel territorio dai migranti che vi si sono stabiliti nel corso del tempo. Il museo funziona essenzialmente attraverso mostre
{p. 64}itineranti, organizzate dagli studenti dell’ateneo e portate in tutti gli angoli del paese, ma ha anche una piccola sede fisica presso la Glendon Gallery (Glendon College, Toronto, ON) e un sito molto ben fatto (https://www.languagemuseum.ca, ultimo accesso: gennaio 2023).
Note
[1] Dove il sì suona. Gli italiani e la loro lingua, Firenze, Galleria degli Uffizi (13 marzo 2003-6 gennaio 2004).
[2] Per una descrizione esaustiva della storia della mostra e delle sue diverse realizzazioni si veda ora Pizzoli [2020].
[3] La questione di cosa sia una lingua nazionale, in specie in un paese, come il nostro, la cui costituzione non prevede questo istituto, è piuttosto interessante. Si vedano, per un’introduzione ai vari aspetti della questione, Hastings [1997]; Burke [2004]; Derrida [2004]; Cannata e Gahtan [2012]; Maraschio e De Martino [2012]; Lepschy [2015]; Classen [2016].
[4] Si vedano ad esempio Varvaro [1995]; Brugnolo [2015]; Tomasin [2015]; Cannata [2016].
[5] Un rimando d’obbligo a questo proposito è all’opera (sterminata) di David Crystal, instancabile studioso delle forme e dei modi della comunicazione in inglese, curatore della straordinaria mostra Evolving English, tenutasi nel 2010 presso la British Library di Londra (cfr. Crystal [2010], alla cui ricca bibliografia qui si rimanda).
[6] Per un catalogo dei musei delle lingue del mondo si vedano Grepstad [2018] e da ultimo Sönmez, Cannata e Gahtan [2023].
[7] Si veda la pagina di benvenuto del sito https://www.mundolingua.org/ (ultimo accesso: gennaio 2023).
[8] https://planetwordmuseum.org/about/ (ultimo accesso: gennaio 2023).