Giuseppe Antonelli, Giacomo Micheletti, Anna Stella Poli (a cura di)
Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c10

Rita Librandi La sfida audace dei musei virtuale e fisico della lingua italiana

Notizie Autori
Rita Librandi insegna Storia della lingua italiana e Linguistica italiana presso l’Università di Napoli L’Orientale. Dal 2012 al 2017 è stata presidente dell’Associazione per la storia della lingua italiana (ASLI). Dal settembre 2013 è condirettore di «Lingua e Stile». I suoi interessi di ricerca si rivolgono in particolare alla lingua della scienza nel Medioevo, al linguaggio della comunicazione religiosa e alla storia linguistica regionale. Si segnalano, tra le pubblicazioni, La letteratura religiosa (2012); L’italiano della Chiesa (2017); Più di sacro che di profano: alcuni esempi di scrittura femminile (2020) e la cura di L’italiano: strutture, usi e varietà (2019).
Abstract
Causa e conseguenza delle nuove funzioni svolte dai musei è stata la nascita, sostenuta da un ragguardevole successo di pubblico, dei cosiddetti musei del patrimonio immateriale, che coinvolgono tradizioni popolari, risorse della vita materiale, storia della musica, del cibo e così via, senza escludere, ovviamente, la lingua. Più o meno negli stessi anni in cui va mutando l’idea di museo, un’altra importante novità ne agevola la trasformazione: l’apertura al multimediale, favorita non solo dalla necessità di interagire con il pubblico, indipendentemente dalla sua età, ma anche dal fatto che l’immaterialità è raccontata sia da oggetti, sia e più spesso da suoni, video, narrazioni per immagini, testimonianze audio. Il desiderio di incidere sulla percezione linguistica dei parlanti attraverso le immagini, la comunicazione diretta, il racconto breve ma scientificamente corretto è stato, infatti, all’origine di una grande mostra allestita nel 2003 a Firenze presso la Galleria degli Uffizi, e curata da Luca Serianni e da alcuni degli studiosi oggi protagonisti dei progetti del MULTI e del MUNDI. Le conversazioni intorno alla lingua, che si svolgano dal vivo o, oggi più frequentemente, attraverso i social network, coinvolgono spesso emotivamente gli interlocutori, anche perché è difficile scindere lo strumento principale della nostra socializzazione dalle nostre personali esperienze di vita; le discussioni, tuttavia, affrontano quasi sempre gli stessi argomenti e mettono in evidenza opinioni sedimentate nel tempo e quasi mai verificate sul piano storico o scientifico. Può un museo della lingua italiana riuscire a scardinare i luoghi comuni e a favorire nella nostra comunità parlante una nuova percezione linguistica? La risposta sarà affermativa solo se si eviterà l’eccesso di semplificazione: un luogo comune, infatti, nasce da un indebito processo di generalizzazione, dal ricondurre a unitarietà persone e azioni distinte da sfumature molteplici.
Molti dei contributi qui raccolti hanno sottolineato l’ampia e rapida crescita, negli ultimi decenni, di istituzioni che, in Italia e nel mondo, hanno contribuito a modificare l’idea e il significato di museo: non più solo luogo di conservazione di opere d’arte o di reperti archeologici ma anche propagatore di conoscenze, tutore di memorie, depositario di identità culturali in grado di svolgere un «ruolo sociale» di sempre maggior vigore (cfr. in questo stesso volume il contributo di Alberto Garlandini). Causa e conseguenza delle nuove funzioni svolte dai musei è stata la nascita, sostenuta da un ragguardevole successo di pubblico, dei cosiddetti musei del patrimonio immateriale, che coinvolgono tradizioni popolari, risorse della vita materiale, storia della musica, del cibo e così via, senza escludere, ovviamente, la lingua. Più o meno negli stessi anni in cui va mutando l’idea di museo, un’altra importante novità ne agevola la trasformazione: l’apertura al multimediale, favorita non solo dalla necessità di interagire con il pubblico, indipendentemente dalla sua età, ma anche dal fatto che l’immaterialità è raccontata sia da oggetti, sia e più spesso da suoni, video, narrazioni per immagini, testimonianze audio. Una strumentazione complessa che, adeguatamente sfruttata, comunica con maggiore efficacia, esaltando la dimensione virtuale su cui puntano anche il MULTI e l’organizzazione dei suoi percorsi.
È stato osservato, d’altro canto, che i musei virtuali non dovrebbero prescindere da quelli fisici; un museo della lingua italiana, in particolare, dovrebbe saper affrontare, come suggerisce ancora Garlandini, «la sfida dell’ibridazione» tra sede fisica e virtuale. Si va sempre più affermando, infatti, il progetto di un MULTI pensato come estensione digitale del MUNDI, il Museo nazionale dell’italiano che ha trovato la sua collocazione fisica a Firenze. La scelta della sede, {p. 100}com’è facile immaginare, è stata di un’immediatezza quasi naturale: ogni parlante italiano, infatti, riconosce, con maggiore o minore consapevolezza storica, alla città di Firenze un ruolo essenziale nel cammino linguistico della penisola. Anche per questo motivo è fondamentale, come suggerisce Nadia Cannata in questa sede, mantenere un legame forte tra i due musei, che solo insieme potranno adeguatamente trasmettere e conservare, «nella memoria e nella tradizione culturale», i propri contenuti.
In questo mio breve contributo, tuttavia, non intendo soffermarmi su natura, aspetti, tecniche di comunicazione che dovrà assumere il MULTI e che i lavori precedenti hanno illustrato più sapientemente di quanto potrei fare io con le mie poche competenze museologiche; vorrei al contrario riflettere su ciò che linguisti e storici della lingua si propongono di ottenere da un museo della lingua italiana, partendo da una sperimentazione già compiuta e di indiscusso successo. Il desiderio di incidere sulla percezione linguistica dei parlanti attraverso le immagini, la comunicazione diretta, il racconto breve ma scientificamente corretto è stato, infatti, all’origine di una grande mostra (Dove il sì suona. Gli italiani e la loro lingua) allestita nel 2003 a Firenze presso la Galleria degli Uffizi, e curata da Luca Serianni e da alcuni degli studiosi oggi protagonisti dei progetti del MULTI e del MUNDI. La mostra, partita da un racconto corredato da immagini (trasformabili in oggetti museali), riusciva a dimostrare come la lingua, un bene dal valore inestimabile ma non fisicamente tangibile o visualizzabile, potesse essere raccontata senza dover ricorrere a lunghi scritti esplicativi. Il lavoro condotto per riuscire a rappresentare l’italiano non solo attraverso i libri, ma anche tramite gli oggetti, le immagini, i prodotti multimediali ha reso quell’esperienza essenziale: ne ha fatto, cioè, un punto di partenza, che chiede oggi di essere sviluppato e ampliato, nella convinzione che un museo, virtuale o fisico che sia, non è una mostra e non ne condivide tutte le finalità. Se è vero che un museo aspira a rappresentare e indirizzare, almeno per alcuni ambiti, sentimenti, ideali e interessi della società, è ancor più vero che non bisogna mai smettere di interrogarsi su ragioni e {p. 101}obiettivi di ciò che si intende istituire. Perché, dunque, un museo della lingua italiana?
I musei delle lingue, come è stato segnalato più volte in questo libro, non sono una novità e si sono, al contrario, sensibilmente incrementati negli ultimi decenni. Molti sono nati, in Italia e in Europa, con l’intento di sensibilizzare il pubblico verso il problema delle lingue minoritarie e di contribuire a contrastarne la possibile estinzione; altri, più recenti, puntano a stimolare attenzione e ragionamenti sulla convivenza di diversi idiomi in una specifica area o a riflettere più in generale su strutture e mutamenti linguistici (si veda il contributo di Nadia Cannata in questo volume). A parte eccezioni importanti, come il Museo del portoghese a San Paolo del Brasile, sono invece più rari i musei dedicati a lingue di comunità estese e di storia ampia e antica: i motivi possono essere molteplici, ma ciò che sembra prevalere è il desiderio di circoscrivere spazi e questioni, ritenendo forse secondario o marginale far convergere l’attenzione verso patrimoni linguistici così tanto usati e conosciuti. Non si assegna, però, in questa valutazione un peso adeguato alla percezione e all’atteggiamento assunto dai parlanti verso la propria lingua, pur trattandosi di due componenti che, come insegna la moderna sociolinguistica, sono essenziali per la definizione stessa di una comunità linguistica. Quanto, tuttavia, i parlanti sono consapevoli del loro atteggiamento verso la lingua che condividono? Fino a che punto, peraltro, si tratta di atteggiamenti condivisi? E come potrebbe un museo incidere sulla coscienza di una tale condivisione, anche affiancandosi a una migliore formazione scolastica? In Italia, in particolare, i parlanti hanno avuto il tempo e il modo di maturare un sentimento comune e soprattutto un comune affetto verso la propria lingua? Non è facile rispondere in poche righe a queste domande, ma è forse possibile ragionare su alcuni atteggiamenti e umori che, ripetendosi con frequenza, ci aiutano almeno a intravedere una soluzione.
Un sondaggio condotto, sotto la guida di Daniele D’Aguanno e di chi scrive, dai giovani ricercatori che operano per l’unità di ricerca dell’Università di Napoli L’Orientale ha cercato di capire che cosa i cittadini si aspettino da un {p. 102}museo della lingua italiana, indagando soprattutto sugli aspetti legati alla realtà plurilingue dell’Italia e alla diffusione dell’italiano fuori dai nostri confini [Miccoli e Venturi 2022]. Sarebbe troppo lungo dettagliare caratteristiche del questionario, del campione degli intervistati e delle loro risposte; mi limito, pertanto, a segnalare che, per ottenere un risultato convincente sul piano statistico, sono stati somministrati 1.100 questionari e che ben 1.087 tra questi sono stati ritenuti validi. Hanno risposto prevalentemente persone provenienti da Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Campania, quasi tutte di nazionalità italiana, con l’eccezione di un’esigua minoranza (circa il 4%) di origine e madrelingua straniere. La gran parte ha conseguito un titolo di studio universitario (laurea di primo o di secondo livello e scuole di specializzazione), ma non sono mancati i diplomati di scuola superiore e, in misura molto minore, le persone in possesso della sola licenza media. Le donne si sono rivelate più interessate all’argomento e disposte alla compilazione del questionario (69% circa); ampie e variegate sono state le fasce d’età, con una lieve prevalenza di persone comprese tra i 30 e i 39 anni. Le domande che, come si è accennato, riguardavano aspetti diacronici e sincronici della geografia linguistica italiana e dell’italiano all’estero, e che chiedevano quali aspetti gli intervistati avrebbero preferito approfondire in una visita al museo, hanno visto prevalere l’interesse per i dialetti italiani e per l’italiano regionale, seguiti dagli italianismi nel mondo e, a una distanza maggiore, dall’italiano degli emigrati; un interesse sensibilmente minore è stato mostrato per gli aspetti storici. La mia sintesi non rende giustizia degli approfondimenti dell’indagine e trascura dettagli importanti, ma, per quanto possa sembrare scontata, appare significativa la prevalenza di interesse verso gli idiomi locali; in generale, i risultati del sondaggio non sembrano contraddire un sentire diffuso dei parlanti italiani verso la propria lingua e confermano la difficoltà spesso incontrata dai linguisti a sgretolare luoghi comuni resistenti e pervasivi.
Se si escludono, infatti, coloro che hanno avuto un’adeguata formazione linguistica di livello universitario, sembrano {p. 103}prevalere tra i parlanti alcune vulgate che si stenta a mettere in discussione. Le conversazioni intorno alla lingua, che si svolgano dal vivo o, oggi più frequentemente, attraverso i social network, coinvolgono spesso emotivamente gli interlocutori, anche perché è difficile scindere lo strumento principale della nostra socializzazione dalle nostre personali esperienze di vita; le discussioni, tuttavia, affrontano quasi sempre gli stessi argomenti e mettono in evidenza opinioni sedimentate nel tempo e quasi mai verificate sul piano storico o scientifico. L’attenzione si focalizza soprattutto su tre questioni: la prima è la distinzione tra lingua e dialetto, per la quale si stenta curiosamente ad accettare che tutti i dialetti della penisola, e non solo alcuni, siano lingue [1]
. Si preferirebbe veder trionfare nel novero delle lingue solo i dialetti che vantano una storia prestigiosa, spesso segnata da un’importante tradizione letteraria, e raggruppare tutti gli altri sotto la denominazione, considerata di scarso valore, di «dialetto». I linguisti faticano a far capire che tutti i dialetti italoromanzi hanno una storia che discende dal latino e che tutti possiedono una propria autonoma grammatica, anche se rispetto all’italiano occupano uno spazio geografico minore e hanno possibilità di impiego molto più ridotte. Le altre due questioni riguardano la presenza sempre più avvertita dell’inglese e la correttezza o meno di espressioni, forme, costrutti sintattici per i quali raramente si è disposti ad abbandonare convinzioni irremovibili. La difesa di un solo dialetto sugli altri, il timore di ciò che viene dall’esterno, la ricerca di una norma assoluta sono indici di un legame autentico e forte con il proprio patrimonio linguistico? La risposta purtroppo non può essere pienamente positiva. Se il «si dice così e non così» appassiona molto più della storia della nostra lingua, della conquista faticosa e lenta ma ormai ben salda della sua modernità, dell’importanza di conoscere a fondo il suo lessico per poter leggere a pieno il mondo reale,
{p. 104}pensiamo che ci sia qualcosa da migliorare nella formazione e nella consapevolezza linguistica dei parlanti italiani.
Note
[1] Sulle insidie di posizioni ripetute con grande frequenza soprattutto in rete, tali da costruire una sorta di «dialettologia parallela» scientificamente priva di fondamento, sono interessanti le considerazioni di De Blasi [2007; 2021].