Umberto Romagnoli
Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/c13

4. La politica di relazioni industriali seguita dalla direzione del personale

«Discorsi tipo quello della CM e della partecipazione generano confusione in molti di noi», si legge nel verbale del CD dell’11 febbraio 1963, «tanto più, quindi, in un operaio»: occorre «far di tutto perché, prima di continuarli, si scelgano dei contenuti meno equivoci e rischiosi» per i lavoratori. Ciò che «preoccupa» e sospinge a «diventare sempre più scettici sull’opportunità di proseguire l’esperimento» di CM è «un abbandono del collegamento con i sindacati», senza il quale si rischia di «ottenere un risultato paternalistico» [1]
.
Evidentemente, è apprezzabile che una direzione aziendale si ponga e discuta simili problemi: quello di «trovare il contenuto ottimo che deve essere riversato nella CM», ad esempio, o quello di studiare i modi per «creare un clima di corretta dialettica sindacale» [2]
. Senonché, non rientra probabilmente nei suoi compiti ricercare un contenuto da «far scendere» o prendere (soccorrevole) posizione sul merito delle motivazioni che ispirano la politica della controparte. In questa maniera, si finisce col disconoscere che «ci sono dei contenuti che dialetticamente si propongono e si acquisiscono» [3]
e si rischia di interferire nel processo di evoluzione interna del sindacato dei lavoratori che, per essere genuino, deve essere anche autonomo.
Agli inizi dell’esperimento, «ne eravamo entusiasti», si afferma [4]
: oggi, «nessuno nega che ci sia della materia vendibile in quel che abbiamo fatto», però «la materia{p. 122} vendibile che c’era un tempo e che c’è ancora si deteriora» [5]
. In realtà, si trasforma. E si trasforma perché le rivendicazioni gestionali sottese alla CM e per il passato mascherate, più o meno coscientemente, come bisogni umani acquistano una dimensione politica più precisa e concreta. La CM, infatti, si fa veicolo di contro-potere operaio in senso gestionale: come è codificato, essa «costituisce un condizionamento istituzionalizzato dell’esercizio del potere aziendale» (art. 16 dello statuto del 26 giugno 1963).
In altri termini, finché questa potenzialità di sviluppo evolutivo della CM rimane nascosta sotto la coltre di una ideologia integrazionista, la CM suscita «entusiasmi»; ma, allorché si profila il rischio (o si acquisisce la consapevolezza) che le strutture della CM, in quanto garantiscono libertà di discussione e di critica dell’operato dei capi, rappresentino un attentato alla legittimazione carismatica del loro potere [6]
, la CM appare ai loro occhi una «mistificazione»; gli «interessi ultimi e veri dei lavoratori» possono essere efficacemente protetti solo dalla azione sindacale imperniata sui rapporti di forza contrattuali. L’insofferenza alla CM si traduce, pertanto, in una politica di favore nei confronti del sindacato: ma soltanto allo scopo di ottenere dalla azione contrattuale esterna del sindacato la rilegittimazione del potere imprenditoriale contestato all’interno dell’azienda [7]
.
Oggettivamente «di sinistra», questo atteggiamento è soggettivamente (ideologicamente) conservatore, nella misura in cui contribuisce a restaurare il sistema di di­stribuzione del potere aziendale, «spoliticizzando» i conflitti provocati dall’organizzazione dell’impresa che final{p. 123}mente si scopre essere non già una comunità di interessi omogenei, bensì un’organizzazione conflittuale [8]
. A questo atteggiamento bifronte serve come ottimo alibi la necessità del recupero del consenso della CGIL, esclusa dalla CM, alla politica di gestione dell’impresa affinché, «cacciate dalla porta», siano fatte rientrare «dalla finestra», per riassorbirle nel sistema, le uniche forze di contestazione del medesimo che, almeno al livello delle intenzioni e dei discorsi astratti, non cessano di qualificarsi anticapitalistiche. Allorché il gruppo dirigente elabora ed enuncia una politica di relazioni industriali diretta a ridurre la partecipazione critica dei lavoratori al potere manageriale con gli strumenti offerti dalla CM a vantaggio degli aspetti più propriamente sindacali della stessa, la tendenza è in atto: una tendenza originata dal fermo convincimento, nonché dall’interesse di ruolo, che il sindacato «sarà sempre più aspirato su un livello “politico” di grandi numeri e di tempi lunghi» [9]
. Bisogna coglierla, per controllarla, mentre nasce; per contenere gli effetti della «mediazione tra gli interessi operativi dell’azienda e gli interessi delle singole persone in quanto tali» che la direzione del personale si assegna e di fatto esercita nel presupposto che l’unica «via dialettica» per «amministrare i rapporti giuridici e contrattuali di lavoro nel rispetto più preciso delle norme che li regolano» sia sviluppabile tra «i fini e criteri» della direzione del personale e quelli (si dice: non necessariamente coincidenti) delle «altre» strutture aziendali [10]
; per impedire che al sindacato si riconosca soltanto la qualità di «portavoce responsabile ad alto livello» per potere trattare in modo più intelligente e più pratico con altri portavoce [11]
; per contrapporvi la tendenza alla «amministrativizzazione» della tutela dei lavoratori mediante strutture unitarie di base, paritetiche o non, di diretta derivazione sindacale,{p. 124} idonee, ad attrarre qualunque problema che insorga nei luoghi di lavoro nella cornice dell’interesse collettivo di cui il gruppo organizzato è portatore e ad auto-determinarne la soluzione in ragione di tale cornice.
CISL e UIL, invece, dopo aver spregiudicatamente ricercato una nuova impostazione dei rapporti con la Bassetti stabilendo un anello di congiunzione con la vita aziendale, rischiano di giungere come le nottole, di sera: «a cose fatte» e, ancora una volta, insieme alla CGIL.
Allo stato, comunque, il salto politico-qualitativo compiuto dall’esperienza delle relazioni industriali in Bassetti è evidente. Infatti, se l’accordo del ’58 suonava come un imperativo ‒ del tipo «hic Rhodus, hic salta» ‒ rivolto ai sindacati ad accettare la «sfida tecnologica», oggi i sindacati, una volta varcati i tradizionali confini del loro terreno d’elezione, sfidano il «potere direttoriale». Ma, a questo punto, l’alternativa storica è altrettanto evidente. O il reciproco riconoscimento che sindacato e impresa si danno come distinti centri di potere darà vita ad una forma di pluralismo «ingannevole», nell’interesse che essi possono condividere «ad immunizzare l’insieme del sistema contro la negazione dell’interno» [12]
(e allora il sindacato si limiterà a «far proprio il riconoscimento costituzionale della proprietà privata sulla quale si basa l’azienda e a riconoscerne i fini» [13]
dissolvendo la sua presenza in una «pratica notarile» di registrazione delle scelte altrui); oppure il sindacato riuscirà ad inserirsi come elemento contestativo o di controllo dell’uso dei meccanismi oggettivi dell’industria, a rivendicare ingerenze in problemi di conduzione dell’azienda capitalistica, ad accettarla senza subirla, ma per modificarla [14]
.
L’esperienza delle relazioni industriali in Bassetti si è scontrata con questa alternativa. Non l’ha superata, però l’ha posta concretamente e, ponendola, l’ha storicizzata. In Bassetti, quindi, il discorso sul ruolo del sin{p. 125}dacato in una società industriale si è trasferito dal livello delle ipotesi di studio a quello delle verifiche, nella misura in cui si sono andate formando, attraverso il metodo della CM, le premesse per rovesciare una prassi di politica contrattuale che ha costantemente deviato le rivendicazioni operaie dalla sfera della produzione verso la sfera del consumo [15]
.
Tuttavia, è conveniente fin d’ora attenersi ad un criterio di giudizio prudenziale. Cioè a dire, «quando queste rivendicazioni già siano o stiano per diventare (proprio per capacità e merito del sindacato) contrattabili, occorre stare attenti a non cadere (...) nella mistificazione ideologica di attribuire a questo nuovo e più ampio contenuto della contrattazione, di per sé, un valore eversivo del sistema» [16]
. Infatti, non solo il rifiuto in blocco della politica di gestione dell’impresa capitalistica (come scrive il Gorz [17]
), ma anche la partecipazione di carattere contestativo al governo dell’impresa può costituire un dato della medesima logica di sviluppo capitalistico. «Dal nostro punto di vista», si dirà, «la CM non è stata un fallimento». Anzi, ha prodotto risultati largamente positivi: «noi abbiamo fatto le operazioni necessarie con minor spargimento di sangue e certamente con minor dolore. Possiamo accettare di dire di aver oppiato un processo, e oppiandolo abbiamo determinato un vantaggio certo per noi che siamo riusciti a farlo, un vantaggio certo per i lavoratori che si sono trovati all’interno di una situazione evoluta senza conseguenze per loro negative o comunque soffrendo meno un certo travaglio» [18]
.
Riepilogando, si può dire che, nel corso dei primi anni, tutti e tre i sindacati hanno in sostanza affidato, ciascuno a suo modo, alla direzione il compito di guidare l’esperimento della CM, laddove questa, a mio avviso, poteva rappresentare storicamente uno strumento di collaudo dei nuovi approcci ideologici del sindacalismo mo
{p. 126}derno. La lacerazione del fronte sindacale sul tema della CM, lungi dal provocare un serio dibattito tra le organizzazioni dei lavoratori, ne ha semplicemente dilatato la funzione di garanzia di integrabilità della lotta operaia per la migliore realizzazione degli obiettivi predeterminati dell’impresa. L’ostilità (cioè, il disimpegno) della CGIL, da una parte, e il misuratissimo impegno della CISL e della UIL, dall’altra, ad alimentare autonomamente la CM ha permesso, infatti, alla direzione aziendale di avere le mani libere: in primo luogo utilizzandola per suscitare consensi e interessi della base alla politica produttivistica, per migliorare le condizioni psicologiche di adattamento del lavoratore alle trasformazioni tecnico-organizzative attraverso l’azione informativa dall’alto verso il basso e viceversa, per recuperare la «personalità» dei lavoratori nell’epoca della meccanizzazione e della divisione parcellare del lavoro concedendo «una maggiore dignità umana» [19]
.
Note
[1] Verbale del CD del 10 dicembre 1962.
[2] Verbale del CD dell’11 febbraio 1963.
[3] Come rileva un membro della segreteria della CM (verbale cit. alla nota precedente).
[4] Verbale del CD del 10 dicembre 1962.
[5] Verbale del CD dell’11 febbraio 1963 (intervento del DdP).
[6] «Quando nell’azienda si forma una coscienza critica» ‒ sotto­linea Bassetti nel corso della riunione del CA tenutasi il 26 giugno 1967 ‒ «più rilevanti sono le responsabilità morali dei dirigenti», che nel contempo sono «sollecitati a non cercare di sfuggire alle cri­tiche che sono frutto della dialettica consultiva». In termini analoghi, Bassetti si era espresso durante la riunione del CA del 19 giugno 1964. V. retro, Parte I, n. 9.
[7] Momigliano, Sindacati, cit., p. 131 s.; Ruffolo, La grande impresa, cit., p. 260.
[8] Gorz, Strategie ouvrière, cit., p. 115; Ruffolo, La grande impresa, cit., pp. 233, 257.
[9] V. la relazione del DdP del 6 aprile 1966, cit.
[10] Così, il manuale della DdP del 1963.
[11] Mills, Colletti bianchi, cit., p. 419.
[12] Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 70 s.
[13] V. il preambolo dell’accordo 14 maggio 1958.
[14] Gorz, Stratégie ouvrière, cit., p. 52; Ruffolo, La grande impresa, cit., p. 171.
[15] Gorz, Il socialismo difficile, Bari, 1963, spec. pp. 21-23.
[16] Momigliano, Sindacati, cit., p. 131.
[17] Stratégie ouvrière, cit., p. 50.
[18] Intervento di Bassetti nel CD del 10 dicembre 1962.
[19] V. Parte I, n. 3.