Umberto Romagnoli
Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/c12

3. Forme ed effetti dell’opposizione della cgil alla politica di consultazione mista

Se quest’ultima, rifiutandosi di sottoscrivere l’accordo istitutivo della CM, ha preteso conservare di sé l’immagine di una organizzazione classista e «combattentistica», gli altri sindacati hanno interesse a ristabilire nelle cose l’unità d’azione con essa sia per svuotarne di qualsiasi significato strategico l’anatema originariamente scagliato contro la CM sia perché, di norma, soltanto l’azione unitaria dei lavoratori garantisce un efficace sostegno alle istanze rivendicative. L’interesse non può non essere condiviso dalla CGIL, nella misura in cui si avvede che il rifiuto opposto alla CM rischia di tradursi in un volontario auto-isolamento assai povero di vantaggi, dal momento che quel rifiuto si è rivelato una illusoria garanzia di non integrabilità nel sistema. Il dissenso della CGIL, infatti, appare con crescente evidenza legato alla sopravvivenza di quadri sindacali intermedi o di base fortemente cristallizzati e indotti a valutare la CM, attraverso il diaframma costituito da una pesante sovrastruttura ideologica, non per ciò che potrebbe essere (meccanismo di rottura), ma per ciò che pensano essa sia.
Ciononostante, la CGIL non perde occasione per ribadire il proprio dissenso con la stessa aggressività verbale d’un tempo. Dopotutto, è abbastanza naturale che essa non modifichi questa linea di condotta. L’opposizione alla CM non le impedisce di elaborare una politica comune agli altri sindacati [1]
; la sua presenza organizzata in fabbrica è il miglior correttivo di eventuali deviazioni verso un sindacalismo aziendale di comodo; con essa e per essa, una «coscienza antagonistica» nei confronti del po{p. 118}tere capitalistico e il collegamento con più vaste solidarietà di classe non si sono spenti. Il bilancio di dieci anni trascorsi dalla CGIL all’opposizione sembra chiudersi, quindi, all’attivo per questa organizzazione.
Senonché, nel bilancio non figura un’importante posta passiva: quella di non aver cessato di alimentare alla base un conflitto « non realistico » contro il simbolo di ciò che non doveva essere e, invece, è: l’integrazione oggettiva degli operai nell’azienda e del movimento sindacale nel sistema; integrazione che coinvolge anche il sindacato che non vuole «sporcarsi le mani» perché si produce nel momento stesso in cui costringe l’imprenditore a subire i limiti e i condizionamenti nella misura già prevista nei programmi dell’impresa [2]
.
In altri termini, se la CM non rappresenta ancora, agli occhi della FILTEA, un’alternativa funzionale quanto ai mezzi di espressione del conflitto industriale, per certo rappresenta una alternativa quanto agli oggetti su cui è dato scaricare la tensione accumulata e repressa durante il processo d’integrazione sociale, cosicché un antagonismo originariamente realistico, al quale non è stato consentito di esprimersi come tale, è rivolto contro un oggetto sostitutivo della sua causa [3]
. A parziale giustificazione di questo comportamento, bisogna riconoscere che la CM rappresenta altresì, agli occhi della CGIL, una provocazione permanente, un tentativo istituzionalizzato di contestare il primato dell’ideologia rigidamente classista professata da questa organizzazione. La decisa preferenza coûte-que-coûte manifestata verso i metodi di lotta basati sui rapporti di forza dagli esponenti della FILTEA-CGIL milanese che sono entrati in contatto con la Bassetti trova in ciò la sua causa; l’intransigenza «anormale» degli stessi (in pendenza delle trattative sindacali) che i colleghi delle{p. 119} altre federazioni rilevano non senza stupore trova in ciò la sua spiegazione.
Per formulare un bilancio veridico dell’attività svolta dalla CGIL in Bassetti è, quindi, necessario tener conto anche di questo ordine di valutazioni in quanto segnalano l’esistenza di cause produttive di effetti che travalicano l’area di influenza della CGIL ripercuotendosi sul comportamento di tutti gli altri agenti. Della CISL e della UIL, in primo luogo, le quali non si rendono pienamente conto di trovarsi alla presenza di uno di quei casi in cui «è meno probabile che il protagonista valuti il peso comparativo dei mezzi pacifici nei confronti di quelli aggressivi, perché egli cerca soddisfazione proprio nell’uso dei mezzi aggressivi in quanto tali e non nel risultato» [4]
. Ne consegue che, per il trasparente timore che la loro adesione alla CM sia interpretabile come ammissione di una inferiorità nei rapporti di forza, finiranno per trascurare l’efficacia della partecipazione nei momenti di tregua: il che significa però «integrazione senza partecipazione» degli operai nell’impresa e corrisponde, precisamente, all’interesse fondamentale di quello strato della direzione aziendale che, avvertendo come la CM sia potenzialmente idonea a contestare dall’interno l’ordine costituito, appare più sensibile al richiamo di una concezione autocratica del potere e, per difendere lo status quo, vorrà «gettare via l’acqua sporca col bambino dentro».
In conclusione, la FILTEA non ha operato dialetticamente nel vivo della realtà. Per certo, non è stata arbitraria rinuncia, ma obbiettiva difficoltà ad «essere presente al tempo stesso nell’oggi capitalistico e nel domani socialista». Senonché, «questo domani non viene mai se non è già contenuto nell’azione che il movimento operaio svolge fin da oggi» [5]
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Note
[1] Come si rileva nel corso della riunione del CA del 17 luglio 1962. V. anche retro, n. 1 della Parte II.
[2] Gorz, Stratégie ouvrière et néocapitalisme, cit., p. 50; Mallet, La nuova classe operaia, trad. it., Torino, 1967, pp. 34 ss., 43 ss.
[3] Devo ammettere d’essere riuscito ad afferrare il senso delle «tu­multuarie» dichiarazioni rilasciatemi da militanti di questa organizza­zione sindacale ed a comprenderne le motivazioni interiori solo attra­verso la lettura di alcune pagine del Coser, Le funzioni del conflitto sociale, trad. it., Milano, 1967.
[4] Coser, Le funzioni, cit., p. 57.
[5] Basso, Le prospettive della sinistra europea, in Tendenze del ca­pitalismo europeo, Roma, 1966, p. 263.