Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/p3

Prefazione

Il risveglio dell’attenzione generale sui problemi delle donne ha prodotto la recente, grande fioritura di studi e ricerche sul lavoro femminile (domestico ed extra-domestico). Finalmente, questo tema si è riproposto all’attenzione degli studiosi di diritto del lavoro che, fino alla vigilia del dibattito intorno alla nuova legge sulla parità uomo-donna, sembravano considerare la normativa sul lavoro femminile cosa di scarsa importanza, parte di mediocre rilievo della farraginosa legislazione sociale italiana. Così, anche i giuristi si sono accorti che le donne, sempre più consapevoli della loro condizione e sempre meno disposte ad accettarla, rivendicano per sé, oltre che occupazione e servizi sociali, leggi più giuste. Appunto sull’onda di questa scoperta, sono proliferati i contributi allo studio della disciplina giuridica del lavoro femminile e le interpretazioni delle vecchie e nuove norme.
Tale recente e recentissima produzione scientifica [1]
si caratterizza, in genere, per l’ispirazione rigidamente paritaria; per il taglio nuovo, almeno rispetto alla modesta produzione del passato, con cui affronta i temi del lavoro femminile; per lo sforzo di analizzare le leggi rapportandone gli effetti alla situazione complessiva dell’occupazione femminile. Domina una lettura della condizione giuridica (ma anche materiale) delle donne in chiave di «discriminazione»; nel duplice senso di: espulsione/emarginazione; ingiustificato trattamento diverso e/o deteriore. È questa una lettura suggerita dall’esperienza legislativa di altri paesi e oggi, in buona misura, imposta dalla legge sulla parità uomo-donna (L. n. 903 del 1977). Ed è una lettura che si rivela utile a fare emergere nuove questioni di diritto, ed a predisporre gli strumenti giuridici necessari per la repressione di atti e comportamenti che colpiscono negativamente le donne, ma non rientrano nel novero{p. 8} degli illeciti sanzionabili con le norme generali del diritto civile, o con le speciali sanzioni proprie della nuova legislazione del lavoro.
Tanto improvviso rigoglio della produzione scientifica ha determinato se non l’esaurimento delle possibilità tecniche, certo un calo di interesse verso ogni tentativo di dare nuove interpretazioni delle norme che regolano il lavoro femminile. Neppure il tentativo ‒ peraltro lodevole ‒ di aprire coll’interpretazione spazi per la difesa in giudizio dei diritti (vecchi e nuovi) delle donne può giustificare, credo, un ennesimo contributo allo studio delle leggi sul lavoro femminile: le risorse dell’interpretazione non sono infinite, e non si evitano quindi rimasticature e tediose ripetizioni.
Stimola invece ad insistere nella ricerca il sospetto che alcune delle interpretazioni correnti siano costruite su ipotesi non verificate, e la certezza che lacune nell’analisi e difetti di metodo vizino non pochi dei risultati sin qui raggiunti dalla dottrina.
Così, tutta da discutere mi pare la tendenza ‒ recentemente emersa ‒ ad affrontare alcuni gravi problemi del lavoro femminile come conseguenze di una volontà (del singolo padrone, del padrone collettivo, dello stato) di «discriminare», cioè di dare la prevalenza al lavoro maschile, ovvero di riservare trattamenti deteriori alle donne. Ma è una pericolosa illusione che gli strumenti tecnici per la repressione delle discriminazioni siano idonei ad affrontare tutti i problemi. Molti di essi nascono dalla debolezza dell’offerta di lavoro femminile, e questa ovviamente non si cura colla repressione di inesistenti discriminazioni a carico delle donne.
Ancora, mi pare meriti attenzione critica la tendenza ‒ pure emersa ‒ ad unificare, nella stessa vasta categoria delle «discriminazioni», situazioni profondamente diverse, pregiudizialmente attribuendo carattere appunto discriminatorio ai trattamenti diversi tradizionalmente riservati, nelle norme e nei fatti, al lavoro femminile. L’unificazione confonde gli obbiettivi da colpire e finisce per dare rilievo negativo alle disparità di trattamento come tali, trascurando di dimostrare se e quando dalle disparità derivino effettivi pregiudizi per le donne.
Alla fine, credo che siano in buona parte ancora da compiere le verifiche necessarie per valutare quali e quante sopravvivano, nell’attuale contingenza politica ed economica, delle condizioni{p. 9} che hanno storicamente determinato la disciplina separata del lavoro femminile.
Questo libro (con cui porto avanti una ricerca di cui ho già pubblicato qualche saggio [2]
) nasce dall’insoddisfazione per il lavoro altrui e da una curiosità per la storia della legislazione sociale che da qualche tempo sto cercando di soddisfare [3]
: per divertimento, certo, ma con la convinzione che l’indagine storica fornisca strumenti utili alla costruzione delle categorie giuridiche del presente. Non nego, tuttavia, che a stimolare alcune delle scelte compiute in questo lavoro siano stati, insieme, la qualità del dibattito sviluppatosi intorno alla legge n. 903, gli eccessi paritari del discorso sulle discriminazioni e la provocazione implicita nell’accaparramento, da parte di maschi autorevoli, del tema del lavoro femminile.
L’intenzione che mi ha mosso è quella di proporre una lettura meno sbrigativa, rispetto a quelle diffuse e accreditate, delle vecchie leggi sul lavoro delle donne ed un approccio, non triviale né conforme, alle nuove norme con cui le donne hanno ottenuto ‒ si dice ‒ la parità di trattamento.
Nei limiti delle mie possibilità di giurista, ho tentato di ricostruire le progressive modificazioni delle strutture economiche e delle ideologie che hanno accompagnato il lento evolversi della legislazione sul lavoro femminile. L’obiettivo che mi sono data è quello di ricostruire il legame esistente fra le giustificazioni ed i contenuti delle leggi e l’andamento del mercato del lavoro. Ricostruzione necessaria per rispondere a due interrogativi sul funzionamento della legislazione sociale: a) se lo sfruttamento e l’emarginazione delle donne siano stati assecondati o favoriti dalle leggi c.d. protettive o, meglio, se quelle leggi abbiano avuto un’incidenza sui rapporti sociali reali; b) se siano riscontrabili, nella recente legge sulla parità, segni di una rottura col passato tali da giustificare l’affermazione che si sia verificata una rilevante inversione di tendenza nei rapporti fra occupazione femminile e leggi che la regolano.
{p. 10}Un’ultima avvertenza: questo saggio non ha pretese di completezza. Ragioni di tempo e di spazio mi hanno indotto, se non costretto, a privilegiare la ricerca sul lavoro industriale, tagliando fuori argomenti ai quali pure annetto grande importanza: ad es. la famiglia, e le modificazioni delle norme che, in essa, disciplinano l’apporto del lavoro delle donne; il pubblico impiego, dentro il quale potrebbe essere ritagliata un’altra storia del lavoro femminile. Ma anche al lavoro nero, che è prevalentemente industriale e che riassume la drammatica condizione di milioni di donne, non ho potuto dedicare che poche righe: me ne dispiace, poiché vedo, nelle tendenze alla rivalutazione dell’economia sommersa e nell’esaltazione di una mobilità sociale che riabilita contratto a termine e lavoro part time, nuovi attacchi alla già fragile e precaria occupazione delle donne.
Note
[1] Ometto per ora di menzionare la dottrina che, di recente, si è occupata della disciplina giuridica del lavoro femminile; ad essa farò specifico riferimento nell’ultimo capitolo.
[2] Occupazione femminile e legislazione sociale, in « Rivista giuridica del lavoro», 1976,1, pp. 645 seg.; «Sorelle di fatiche e di dolori», «madri di pionieri e di soldati» {alle origini della legislazione sul lavoro delle donne), in Materiali per una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, VII, Bologna, 1977, pp. 67 seg.
[3] Tre proposte ottocentesche per la disciplina legale del lavoro dei fanciulli, in Materiali per una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, VIII, 2, Bologna, 1978, pp. 217 seg.; M. V. Balestrerò e R. Levrero, Genocidio perfetto. Industrializzazione e forza lavoro nel lecchese 1840- 1870, Milano, 1979, pp. 33 seg.