Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6

Capitolo sestoLa legge 9 dicembre 1977, n. 903 sulla parità uomo-donna in materia di lavoro

1. Premesse all'analisi della legge 9 dicembre 1977, n. 903.

Frutto di un iter parlamentare eccezionalmente breve [1]
, approvata con un consenso larghissimo, accompagnata da grande clamore e da un notevole battage pubblicitario, è entrata finalmente in vigore la legge 9 dicembre 1977, n. 903: diciannove articoli, buoni e meno buoni, per regolare la parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro. All’entusiamo che politici e sindacalisti hanno manifestato nel commentare la legge (entusiasmo non dismesso neppure dopo le modeste prove di sé che la legge ha dato sinora) [2]
non ha fatto eco un altrettanto entusiastico consenso dei giuristi [3]
. Questi, nell’occasione più cauti del solito, hanno preferito tenere aperto il giudizio sulla legge, giustamente preoccupati di superare, prima di entusiasmarsi, i molti problemi tecnici, e talora le contraddizioni, che possono insorgere nell’applicazione della legge.
È bene dire subito che l’operazione parità, inaugurata dalla legge n. 903, ha per ora camminato più sulle gambe dell’ideologia che su quelle dei fatti [4]
. La cosa mi sembra tutt’altro che casuale; ma non è facile dimostrarlo, perché, a quasi due anni dall’entrata in vigore della legge, l’interprete è ancora costretto a compiere valutazioni sul probabile, senza trovare i necessari riscontri nella pratica giudiziaria e contrattuale. Infatti, mentre per ciò che concerne la giurisprudenza tutto si riduce a qualche sparuto provvedimento [5]
, sul fronte sindacale, benché qualche accordo aziendale sia stato fatto, le cose non vanno gran che bene. Così almeno si dice in sedi autorevoli. Secondo un giudizio recente, «questa è stata una legge su cui si è discusso poco [...]. In altre parole: si è teoricamente d’accordo, ma non si hanno le idee chiare,{p. 224} o meglio, vi è dissenso su che cosa è coerente con questa legge e che cosa no» (sic) [6]
.
Una legge, che, come questa n. 903, assegna ai sindacati i più gravi compiti di gestione, e sulla cui gestione i sindacati non riescono a chiarirsi le idee, o forse i lavoratori a mettersi d’accordo, apre evidentemente molti problemi. Di sicuro, sono più i problemi politici di quelli giuridici, ma anche questi non mancano, e spetta ai giuristi affrontarli e, possibilmente, risolverli. Distinguo intenzionalmente fra questioni tecnico-giuridiche e questioni politiche: non per rivendicare competenze che nessuno discute, né per esimermi dall’esprimere quei giudizi politici che i giuristi sempre, esplicitamente o meno, esprimono; invece per sottolineare che, essendo l’approccio alla legge ancora fortemente ideologizzato, ed essendo l’ideologia consensuale, ogni analisi dettagliata, e magari critica, degli enunciati contenuti nella legge è destinata ad essere confinata (con qualche spregio) fra i discorsi «tecnici» o peggio «da tecnico» [7]
. Niente d’eccezionale, s’intende: solo un segno in più delle scarse fortune mondane del giuslavorista critico nelle grame stagioni del riflusso.
Chiunque abbia un minimo di competenza tecnica e di esperienza sa che la legge sulla parità non è né semplice né piana, e molti sono, ancora oggi, i nodi da sciogliere. Intanto, la prima cosa da chiarire è che la legge 9 dicembre 1977, n. 903, è solo in parte una legge sul lavoro femminile. Destinatari delle norme sulla parità di trattamento sono, infatti, indifferentemente uomini e donne, fra i quali non è lecito né ai datori di lavoro privati né alla pubblica amministrazione discriminare quanto a: formazione e orientamento professionale, accesso al lavoro e svolgimento dei rapporti di lavoro, aggiornamento e perfezionamento professionale (artt. 1, 3,1 comma, 13). Tuttavia, poiché allo stato dei fatti e grazie alla previgente normativa sul collocamento e l’istruzione professionale, sono le donne ad essere discriminate, si guarda giustamente ad esse come alle naturali destinatarie delle norme sulla parità di trattamento [8]
.
Si riferiscono invece specificamente alle lavoratrici: la norma che ribadisce la prescrizione costituzionale sulla parità di retribuzione (art. 2): le norme che abrogano o man{p. 225}tengono parzialmente in vita la vecchia legislazione di tutela del lavoro femminile (artt. 1 IV comma, 5); le norme che eliminano i trattamenti deteriori delle lavoratrici in materia di assegni familiari (art. 9), prestazioni ai superstiti (artt. 11 e 12), assicurazione dei coadiuvanti o compartecipanti familiari contro gli infortuni e le malattie professionali in agricoltura (art. 10), anche se degli artt. 9, 10, 11 e 12 sono beneficiari essenzialmente il marito e i figli delle lavoratrici; la norma che conserva una differenza di trattamento a vantaggio delle lavoratrici in ordine all’età del collocamento a riposo (art. 4); le norme che modificano la legge n. 1204/1971 per la tutela delle lavoratrici madri (artt. 3 II comma, 6, 8) [9]
.
Solo agli uomini si riferisce, infine, quel piccolo tentativo di rivoluzione domestica costituito dai «permessi di paternità», cioè le assenze del padre in alternativa alla madre (art. 7).
Per semplificare l’indagine sulla legge, e per segnare fin da ora i limiti dell’indagine che intendo svolgere, le molte e non omogenee disposizioni della legge n. 903 possono essere così raggruppate:
  1. norme che garantiscono, o tendono a garantire, alle donne la parità di trattamento nell’accesso al lavoro. Di questo primo gruppo fanno parte: a) il divieto di discriminazione (art. 1), e la disciplina del procedimento per la repressione delle discriminazioni (art. 15); b) le norme che riducono la rigidità nell’uso della forza lavoro femminile (artt. 1 IV comma, e 5) e il costo del lavoro delle donne (art. 8);
  2. norme che garantiscono la parità di trattamento nello svolgimento dei rapporti di lavoro (nullità degli atti discriminatori: art. 13 e art. 15 L. n. 300/1970), e particolarmente vietano le discriminazioni riguardo alla retribuzione (art. 2), alle qualifiche, mansioni e progressioni di carriera (art. 3), ai licenziamenti (art. 4):
  3. norme che adeguano la disciplina giuridica del lavoro femminile alle nuove strutture paritarie della famiglia, come disegnata dalla riforma del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151). Fanno parte di questo gruppo le modifiche alla legge di tutela delle lavoratrici madri (artt. 6 e 7), le norme previdenziali (artt. 9, 10, 11, 12), nonché il riconosci{p. 226}mento alle lavoratrici autonome (ma, meglio, alle partecipi dell’impresa familiare, di cui all’art. 230 bis c.c.) del diritto, o meglio della possibilità, di rappresentare, negli organi statutari delle cooperative, dei consorzi, ecc., l’impresa familiare nella quale prestino lavoro continuativo (art. 14).
L’art. 14 L. n. 903, poco discusso in parlamento e redatto in modo tecnicamente impreciso, contiene un’innovazione importante, ma pone problemi interpretativi di non facile soluzione già in ordine alla definizione della sua sfera di applicazione. Ad esempio, è dubbio l’inserimento fra le destinatarie dell’art. 14 anche di quelle partecipi all’impresa familiare che, ai sensi dell’art. 230 bis c.c., prestino il loro lavoro solo nella famiglia [10]
. Ritengo che, per coerenza colla ratio dell’art. 230 bis c.c., il dubbio possa essere risolto in senso positivo. Più difficile, invece, rispondere ad un altro quesito: se, in base al principio della parità di trattamento, l’art. 14 debba essere esteso anche ai partecipi di sesso maschile. La soluzione è incerta nell’ipotesi in cui si ritenga, secondo l’opinione prevalente, l’impresa familiare un’impresa individuale e, di conseguenza, il diritto della partecipe (non socia) di rappresentare l’impresa familiare una «deroga» al principio fissato dall’art. 2534 c.c. Il trattamento della partecipe risulterebbe, nel caso, privilegiato rispetto a quello del partecipe maschio: ma il privilegio potrebbe essere spiegato colla volontà del legislatore di riconoscere anche alla donna (e credo che il legislatore pensasse alla moglie del titolare dell’impresa familiare) il diritto di rappresentare la famiglia [11]
. Più incerta ancora è la soluzione del problema, nell’ipotesi in cui si ritenga l’impresa familiare un’impresa collettiva. In questo secondo caso, la posizione del partecipe sarebbe assimilabile a quella del socio, e allora l’art. 14 priverebbe irragionevolmente il partecipe di sesso maschile di un diritto che, in conformità con quanto stabilito dall’art. 2534 c.c., dovrebbe spettare al partecipe-socio, indipendentemente dal sesso [12]
.
Per quanto importante sia l’innovazione introdotta con l’art. 14 L. n. 903, il lavoro familiare, che pure è un settore rilevante dell’occupazione femminile, esula tuttavia dal campo dei rapporti di lavoro della cui disciplina giuridica ho sin qui ricostruito il mutare. Per occuparmi anche del lavoro fami{p. 227}liare, dovrei allora aprire un nuovo capitolo, e non mi pare questa la sede per farlo.
Ad altre norme che ho raggruppato sub (3), cioè alle norme previdenziali ed alle modifiche apportate alla legge sulle lavoratrici madri, ho già dedicato qualche osservazione, e non sto ora a tornarci sopra. Del resto, benché lacune, difficoltà interpretative, e persino dubbi di legittimità costituzionale siano stati denunciati dagli interpreti [13]
, gli artt. 6, 9, 11 e 12 della legge n. 903 eliminano vistose discriminazioni a danno delle lavoratrici. Dunque, sebbene imperfette, tali norme devono essere considerate il segno di una giusta, per quanto tardiva, correzione di rotta da salutare con soddisfazione [14]
.
Anche all’art. 7 (assenze del padre), in genere considerato un’importante premessa alla trasformazione in senso paritario dei rapporti familiari, ho dedicato qualche commento un po’ scettico (retro, cap. V, par. 1). Lo scetticismo è incoraggiato dai pochi dati disponibili circa la modesta applicazione pratica dell’art. 7, dovuta peraltro anche al troppo macchinoso sistema escogitato dal legislatore. Tutto questo non esime naturalmente dal sottolineare il significato almeno «promozionale» della norma [15]
.
Delimitato, con queste esclusioni, il campo dell’indagine, tutta l’attenzione sarà ora dedicata all’analisi delle norme che ho raggruppato sub (1) e (2), e, prime fra tutte, le norme della cosiddetta area promozionale della legge, vale a dire quelle che regolano l’accesso al lavoro, coll’intento di rimuovere gli ostacoli che il legislatore ha ritenuto si frappongano all’occupazione femminile, ovvero coll’intento di «promuovere» l’occupazione delle donne.
Il lavoro interpretativo che intendo svolgere consiste, in primo luogo, nella ricostruzione del significato della parità uomo-donna, attraverso la ricognizione dell’attuale assetto della legislazione sul lavoro femminile. Dare un significato alla parità non è solo necessario per comprendere una legge la cui ratio è meno limpida di quanto si pretende da molti, ma è anche una premessa indispensabile per chiarire il senso e le implicazioni giuridiche della rimozione di quelle disposizioni che regolavano l’accesso al lavoro e, in genere, l’uso
{p. 228} della forza lavoro femminile, prima che entrasse in vigore la legge n. 903. Ai sensi dell’art. 19 di questa legge, sono infatti abrogate tutte le norme di legge «incompatibili»; cessano inoltre di avere efficacia gli atti amministrativi, e sono nulle le clausole dei contratti collettivi e individuali, nonché le disposizioni degli statuti professionali, che «contrastino» con le norme contenute nella legge n. 903 [16]
. Il giudizio sulla coerenza e compatibilità di ogni tutela (passata, ma anche futura) delle lavoratrici con il principio della parità di trattamento è dunque il primo nodo interpretativo da sciogliere.
Note
[1] I lavori parlamentari sono raccolti nel vol.: Parità uomo-donna. Legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, a cura di G. C. Perone, Roma, 1978. Si veda ivi, pp. 143 seg., l’intervento alla camera di Tina Anselmi: l’allora ministro del lavoro riassume l’iter parlamentare della legge, ringraziando le varie forze politiche della collaborazione, la quale ha consentito una notevole accelerazione dei tempi (poco più di cinque mesi per portare in aula il provvedimento).
[2] Cfr. La legge di parità: bilancio del primo anno, editoriale de «I diritti dei lavoratori», 1979, n. 29.
[3] Del tutto convinto della bontà della legge n. 903 in ogni sua parte, mi è parso solo G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità, in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro: analisi e attuazione della legge, Convengo di studio promosso dall’assessorato ai problemi femminili, Bologna, Documenti del comune, 1978, n. 8, pp. 30 seg. Molto più cauto il giudizio di L. Ventura, La legge sulla parità fra uomo e donna nel rapporto di lavoro, in R. De Luca Tamajo e L. Ventura (a cura di), Il diritto del lavoro nell’emergenza, Napoli, 1979, pp. 257 seg. Per un riepilogo delle opinioni espresse dai giuristi subito dopo l’entrata in vigore della legge, v. A. d’Harmant François, Alcuni commenti sulla legge perla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, in «Lavoro e previdenza oggi», 1978, pp. 663 seg.
[4] Che nei fatti la legge n. 903/1977 abbia funzionato poco, lo constata M. Lorini, Legge di parità e iniziativa sindacale, in Aa. Vv., Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, Roma, 1979, pp. 47 seg.
[5] Pret. Latina, 6 aprile 1978, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1978, p. 788; Pret. Teramo, 24 febbraio 1978, ivi, p. 791, con nota contraria di A. Norscia. Di un altro provvedimento del pretore di Milano dà notizia «l’Unità», 12.6.1979.
[6] M. Carpani, nel Locatelli: consentire una deroga senza cedere a un ricatto, in «Rassegna sindacale», 21 giugno 1979, p. 14.
[7] Questa osservazione è frutto della riflessione su di una esperienza personale. I primi paragrafi di questo capitolo rielaborano la relazione da me svolta, tra la generale disapprovazione, al convegno di studi «Parità tra uomini e donne in materia di lavoro: analisi e attuazione della legge», promosso dall’assessorato ai problemi femminili del comune di Bologna, 5-6 maggio 1978. A disapprovare la mia relazione sono state soprattutto le commentatrici di parte sindacale, che, convinte della necessità di intervenire sulla legge solo in modo «unitario» e «costruttivo», hanno ritenuto di dover censurare ogni critica alle scelte operate dai partiti, specie della sinistra, in parlamento. Il mio lavoro è stato giudicato «distruttivo», il mio contributo all’analisi della legge è sembrato opinione da «tecnico», degna, al massimo, di essere censurata. Purtroppo i curatori della pubblicazione degli atti hanno ritenuto opportuno eliminare ogni traccia dei miei interventi, cosa francamente stupefacente per un «convegno di studi». Credo lo chiamino centralismo democratico.
[8] È generale opinione che l’art. 1 della legge n. 903 (fatta eccezione per il IV comma) si applichi anche agli uomini: così T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., sub art. 1, pp. 786 seg.; L. Ventura, La legge sulla parità, cit., p. 279. L’applicabilità dell’art. 1 anche ai lavoratori è stata ribadita dalla circolare ministeriale n. 92/78 del 29 dicembre 1978, in «Rivista giuridica del lavoro», 1978, I, pp. 933 seg.
[9] Secondo R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 7 p. 811, i diritti che l’art. 6 riconosce alla madre adottiva o affidataria dovrebbero essere estesi anche al padre adottivo o affidatario, per rispettare la parità di trattamento. Questa interpretazione estensiva, che mi pare ragionevole sia alla luce dell’intento del legislatore, sia perché non vi è argomento logico o testuale sufficiente ad escluderla, apre però nuove questioni in ordine alla estensione al padre dell’art. 3, II comma (in riferimento all’art. 4, lett. c, L. n. 1204/1971), e dell’art. 8. Per estendere l’art. 8, occorre però avere prima risolto in senso positivo il problema della estensione in via analogica alla madre adottiva dell’art. 10 L. n. 1204/1971 (i c.d. riposi per allattamento). Favorevole all’estensione ancora Bortone, op cit., sub art. 6, p. 809.
[10] Cfr. l’esauriente commento di G. Cian, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 14; e ivi anche un breve riepilogo della discussione aperta intorno alla equiparazione del lavoro della donna nella famiglia (lavoro domestico) al lavoro nell’impresa familiare. Sul punto, e per un più ampio commento all’art. 230 bis c.c., si può fare rinvio a G. Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, cit., pp. 1374 seg.
[11] V. in tal senso le dichiarazioni della sen. G. Lucchi, riportate in Parità uomo-donna, cit., p. 209. È necessario sottolineare che, malgrado quanto disposto dall’art. 230 bis c.c. circa il lavoro domestico della donna, il lavoro della convivente more uxorio si continua a presumere gratuito: v. le giuste critiche all’opinione dominante (ribadita anche dalla Cass., 27 marzo 1977, n. 1161, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 1052) di B. Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, ivi, pp. 1058 seg.
[12] Secondo G. Cian, op. cit., p. 828, Kart. 14 L. n. 903 non è un sufficiente supporto alla tesi (minoritaria) dell’impresa familiare come impresa collettiva; tesi smentita dall’art. 230 bis c.c. Sulla distinzione tra imprenditore e familiari partecipi dell’impresa familiare, v. ancora Ghezzi, op. cit., pp. 1381 seg., di cui condivido l’opinione che l’art. 230 bis c.c. regoli i rapporti interni tra i familiari che collaborano all’impresa familiare.
[13] Osservazioni critiche sono state formulate nella relazione Collegamenti con la legislazione di previdenza sociale e gli enti mutualistici, in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., pp. 55 seg.
[14] Le circolari dell’I.N.P.S. per l’applicazione degli artt. 9 e 11 L. n. 903, la circolare dell’I.N.A.M. per l’applicazione dell’art. 8, e la circolare dell’I.N.A.I.L. per l’applicazione dell’art. 10 sono pubblicate in appendice a C. Filadoro (a cura di), Parità di trattamento fra uomini e donne, cit., pp. 92 seg. I giudizi su queste norme sono in genere positivi; ma v. l’intervento fortemente critico di L. Grassi, in Parità di lavoro tra uomini e donne, cit., pp. 66 seg. L’interventrice spiegava in quel «convegno di studi» la posizione del P.R.I., unico partito astenutosi nella votazione della legge. L’idea di parità (come rinuncia ad ogni tutela), che emerge dall’intervento, le preoccupazioni economiche per la riversibilità della pensione al vedovo, il giudizio molto negativo sull’art. 4 L. n. 903 (una delle norme a mio avviso più sinceramente «paritarie» della legge), bene esprimono il punto di vista dei conservatori sulla legge.
[15] V. le osservazioni di S. Rodotà, Parità, lavoro, e famiglia, in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 29; v. anche F. Carinci, Relazione al seminario di studio organizzato dal P.S.I. sul tema «Legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro», ivi, p. 115.
[16] Sull’incongruità del riferimento agli statuti professionali, v. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 19, p. 848.