Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c2

Capitolo secondoLe donne lavoratrici nella legislazione fascista

1. La legislazione sul lavoro delle donne nel quadro della politica femminile del fascismo.

È affermazione comune che il periodo fascista sia stato caratterizzato da una politica brutalmente antifemminile; una politica, cioè, di sistematica esclusione delle donne dalla vita politica e sociale, e di riduzione di esse ad un ruolo subalterno. Alle donne il regime aveva affidato, come compiti essenziali: procreare «generazioni di pionieri e di soldati necessari alla difesa dell’impero» [1]
; vigilare sull’integrità della famiglia. E dentro i confini della famiglia dovevano essere costrette dalla funzione di madre (prolifica) e dalla necessità (economica e sociale) di restare ad essa legate, poiché stabilità della famiglia e maternità avrebbero rappresentato le uniche contropartite offerte dal regime alla loro condizione subalterna [2]
.
Si può dire, tuttavia, che la politica fascista (dovendo semplificare e riassumere i tratti essenziali di un ventennio ricco di mutamenti nelle strutture economiche e di adattamenti progressivi della linea politica [3]
) è stata anche una politica femminile, almeno nel senso che ha appoggiato sulle spalle delle donne (cercandone per molte strade il consenso) la realizzazione di rilevanti obbiettivi. Benché Mussolini stesso avesse dichiarato che nello stato fascista le donne non dovevano contare [4]
, poggiava essenzialmente sulle donne l’espansione demografica (oggetto di un’ossessiva campagna propagandistica e definita «non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica e quindi economica e morale della nazione» [5]
). Poi, la conservazione dei rapporti e della pace sociale, nella misura in cui tale conservazione poteva essere garantita, oltre che dal nuovo sistema sindacale e dalla re{p. 58}pressione: a) dal contenimento (apparente) della disoccupazione, conseguente all’eliminazione delle donne dal mercato ufficiale del lavoro; b) dal recupero che i servizi, gratuitamente prestati dalle donne in famiglia [6]
, nonché il lavoro svolto a domicilio in forme precarie e marginali, potevano assicurare rispetto alla carenza di servizi sociali e alla diminuzione dei salari reali [7]
; c) alla fine, dalla restituzione ai lavoratori maschi, espropriati di tutto, di un’arcaica autorità, da esercitare nel chiuso della famiglia e verso le donne sottomesse [8]
.
La politica «femminile» del fascismo era parte integrante di quel disegno demografico-ruralista, che ebbe il suo momento fondamentale nella campagna (più nota nei suoi aspetti coreografici, forse, che nei legami con la situazione economica del paese [9]
) per il ritorno alla terra, contro l’urbanesimo e per il potenziamento della ruralità.
Gli obbiettivi enunciati dalla propaganda contro l’urbanesimo, cui fecero seguito le famose leggi del 1928, 1931, 1939 [10]
, erano: incoraggiare le nascite e neutralizzare ciò che poteva scoraggiarle, ovvero combattere le città che, con le loro pericolose tentazioni, potevano indebolire lo spirito religioso, disgregare le famiglie [11]
, minare la crescita demografica [12]
; limitare la proliferazione indiscriminata delle industrie; conservare (o restituire) manodopera all’agricoltura, impedendo l’occupazione industriale di ex contadini e legando i braccianti alla terra.
Dietro gli enunciati propagandistici (molto trasparenti) appariva un’azione politica [13]
complessa e non priva di contraddizioni, volta a far fronte alla difficile situazione economica e alla crescente disoccupazione (industriale e agricola) non più attenuabile mediante l’emigrazione, dopo le misure restrittive adottate prima dagli U.S.A. e poi da altri paesi [14]
. Due erano gli strumenti usati: incoraggiare la concentrazione industriale (già in atto, dopo la rivalutazione della lira) favorendo il decentramento produttivo fuori delle grandi aree urbane [15]
; espellere la manodopera eccedente, scaricando nelle campagne i disoccupati dell’industria (in modo da evitarne la pericolosa concentrazione nei centri urbani). Ma nelle campagne, che avrebbero dovuto assorbire ulteriore{p. 59} forza lavoro cacciata dall’industria, la situazione (già grave) era resa più pesante dalle difficoltà di emigrazione e dall’avvenuto riflusso degli operai licenziati. I più colpiti erano i braccianti, esposti alla disoccupazione, ed accresciuti nel numero anche dalla massa di affittuari e piccoli proprietari mandati in rovina dalla ristrutturazione agraria [16]
. Se la prima parola d’ordine («ruralizzazione») aveva il significato di una scelta del regime in favore della sottoccupazione agricola, piuttosto che di quella urbana; la successiva parola d’ordine, «sbracciantizzazione», cioè sviluppo della piccola proprietà coltivatrice, doveva servire a far fronte alle tensioni presenti nella società rurale.
La sbracciantizzazione, come è noto, fu condotta attraverso la colonizzazione delle terre bonificate e la polverizzazione di unità piccole e medie già esistenti. Si ottenne, come risultato, che i piccoli proprietari (e con loro il numero crescente di coloni parziari e mezzadri [17]
), economicamente molto deboli e dominati dai grandi proprietari (attraverso i consorzi e gli ammassi) nell’accesso al mercato, fossero spesso costretti a cercare lavoro come stagionali, accettando salari più bassi di quelli dei braccianti, e offrendo insieme garanzie di stabilità sociale, poiché difficilmente avrebbero identificato i loro interessi con quelli dei braccianti, ed espresso desideri di proletarizzazione.
Più in generale, la politica seguita nelle campagne privilegiava i grandi proprietari, i quali avrebbero investito nell’industria una larga parte del reddito non utilizzato per investimenti in agricoltura, e le imprese agricole capitalistiche, allargando la proletarizzazione delle masse rurali, sotto forme giuridiche di indipendenza o semi-indipendenza. Quella politica sosteneva poi, attraverso la spesa pubblica (bonifica), la domanda interna delle industrie chimiche, metallurgiche e meccaniche. Complessivamente, la politica agraria del fascismo servì non a impedire il progresso dello sviluppo capitalistico, ma a favorire uno sviluppo caratterizzato dalla preponderanza dell’industria pesante, privilegiata anche nel salvataggio di stato. La concentrazione industriale (con perdita d’importanza degli esercizi molto piccoli, e peso crescente degli esercizi con più di mille addetti) [18]
e la crescita{p. 60} dell’industria pesante ‒ ad alta intensità di capitale, ma non di lavoro ‒ provocarono un drenaggio di risorse da quelle industrie (leggere), che avrebbero potuto permettere un rapido aumento della manodopera industriale.
Specialmente negli anni della crisi, la politica del fascismo verso l’industria si caratterizzò, infatti, per una serie di interventi (oltre la «quota novanta», la regolamentazione del mercato del lavoro, i tagli salariali ope legis, l’aumento della protezione doganale, le sovvenzioni dirette) che dovevano differenziare nettamente i settori protetti (metallurgia, chimica e meccanica pesante) dai settori sfavoriti (tessili, alimentari, abbigliamento, calzature, legno), accentuando il dualismo del sistema industriale italiano [19]
. All’opposto dell’andamento registrato dall’industria pesante, nei settori sfavoriti (che erano quelli dove più largamente era impiegata la manodopera femminile) [20]
la flessione dell’occupazione registrata nel periodo 1926-33 non doveva essere recuperata negli anni della ripresa industriale (1934-37); all’interno di un’occupazione che ristagnava a livelli di crisi, si verificava, invece e ancora all’opposto di quanto avveniva nell’industria pesante, un aumento della proporzione degli occupati nelle unità locali di piccole dimensioni (meno di 10 addetti) ed una rilevante riduzione delle dimensioni medie delle unità locali [21]
.
È questo un dato che deve essere tenuto presente nella valutazione dei risultati della politica fascista verso il lavoro femminile nel ventennio; perché, se non ci si ferma alle percentuali della forza lavoro occupata [22]
, ma si scende ad osservare la distribuzione per settori dell’occupazione femminile, risultano evidenti due fatti: la perdita d’importanza dell’occupazione nell’industria, rispetto a quella in agricoltura (stazionaria) e nel terziario (in aumento); per l’occupazione industriale, la marginalizzazione del lavoro femminile e l’aumento dell’occupazione precaria.
Queste poche puntualizzazioni consentono di tornare all’affermazione da cui sono partita, e cioè che al centro delle misure (di vario tipo) di cui furono oggetto, tra la fine degli anni ‘20 e i primi anni ‘30, gli operai, i contadini, le donne, erano essenzialmente le gravi preoccupazioni del regime per{p. 61} le difficoltà dell’economia e per la diminuzione dell’occupazione (ad un tasso medio annuo ‒ fra il ‘29 ed il ‘32 ‒ che oscilla tra 1’8 e 1’11,6%) [23]
, non più arginabile con l’emigrazione all’estero. Il disegno che legava le coeve battaglie demografico-ruralista e contro l’urbanesimo alle misure di politica economica era relativamente unitario e coerente. Non voglio con questo dire né che il disegno fosse adeguato ai problemi, né che ebbe esiti positivi o soltanto successo [24]
; mi preme invece sottolineare come la correlazione concreta tra i vari temi enunciati dalla propaganda demografico-ruralista [25]
e le misure di politica economica del regime impedisca di isolare l’analisi della soluzione fascista della questione femminile dal contesto delle politiche industriale, agraria e del mercato del lavoro, esaurendo la ricerca, secondo tendenze correnti [26]
, nelle motivazioni culturali, o peggio psicologiche, della propaganda demografica e, alla fine, dell’antifemminismo fascista [27]
.
Dire che esistono correlazioni che spiegano la politica verso le donne all’interno dello stesso disegno reazionario di oppressione delle classi subalterne, non significa ignorare che la «questione femminile » avesse per i fascisti ‒ che pure ne negavano l’esistenza [28]
‒ una sua specificità, e che dovesse perciò meritare misure specifiche.
Sono, queste, cose assai note, e mi limito pertanto a qualche brevissimo cenno; maggiore attenzione deve essere invece dedicata in questa sede ai (meno studiati) provvedimenti di legislazione sociale, con i quali il fascismo tentò un collegamento diretto tra politica demografica ed intervento sul mercato del lavoro, ridefinendo e normalizzando, per legge, il lavoro femminile extra-domestico.
Non rischia certo l’originalità chi afferma che la propaganda demografica esprime, in sintesi, l’ideologia antifemminista del fascismo. Ma né la propensione all’espansione demografica, né l’antifemminismo dei fascisti nascevano dal nulla. Quanto alla prima, le linee della c.d. battaglia demografica furono enunciate nello «storico discorso» dell’Ascensione (1927) da Mussolini, che ne approfondì poi l’elaborazione teorica (se così si possono chiamare le falsificazioni sulla denatalità in Italia, e le farneticazioni sulla potenza del
{p. 62} numero e sul «pericolo» giallo e nero) nella prefazione al libro di Korherr (1928) [29]
. Da quel momento, e fino alla fine, la difesa della stirpe (poi della razza) e l’incremento demografico della nazione diventavano punti essenziali della politica interna del regime. Alle spalle della campagna demografica fascista stava un generale allarme per il decremento della natalità nei paesi industrializzati d’Europa (in Italia, però, essendo la denatalità superiore a quella della Spagna e della Romania, ma largamente inferiore a quella degli altri paesi europei [30]
, il fenomeno non avrebbe dovuto destare preoccupazioni); un allarme «in cui le voci di un vario e insistente tradizionalismo eversivo tendevano a inquadrare il declino dell’occidente nei confronti di altri popoli» [31]
.
Note
[1] B. Mussolini, Discorso alle donne fasciste, 20 giugno 1937.
[2] Per questo, forse, G. Dattino, Il diritto di famiglia e il diritto di proprietà nella legislazione fascista, in Studi d’Amelio, Roma, 1933, I, p. 446, sosteneva che la verginità delle donne ‒ «quasi sempre l’unica risorsa per una conveniente sistemazione» ‒ dovesse essere difesa dalla società anche con il ripristino del reato di stupro semplice. Il passo di G. Dattino è cit. da M. Sesta, Profili di giuristi italiani contemporanei: Antonio Cicu e il diritto di famiglia, in Materiali per una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, VI, Dottrine storiche de! diritto privato, Bologna, 1976, pp. 419 seg., qui 478-79, nell’ambito di una rassegna degli scritti giuridici che più accentuatamente prospettano l’ideologia fascista della famiglia.
[3] La necessità di periodizzare non si pone solo per la politica economica del fascismo; anche la politica femminile conobbe varie fasi, legate ai diversi andamenti dell’economia del paese e ai diversi interventi dello stato fascista nell’economia. Per la politica femminile, mi pare possa essere accettata la divisione per periodi proposta da E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., pp. 75 seg.; l’a. distingue due fasi: una prima (fino all’inizio degli anni ‘30) è caratterizzata dalla flessione dell’occupazione femminile (specialmente industriale), e accompagnata dalla propaganda demografico-ruralista che privilegia la donna madre e la donna di casa; nella seconda fase (gli anni ‘30 maturi), il processo di crescita dell’industria, dell’urbanizzazione, dei flussi migratori, il recupero della flessione dell’occupazione femminile (sia pure con un vistoso spostamento nel terziario) mostrano l’avvenuta apertura della forbice tra sviluppo economico industriale e ruralismo. In questa fase il fascismo non rinunciò alla politica demografico-ruralista, ma si preoccupò di intervenire con una legislazione sul lavoro femminile diretta a «normalizzare» il mercato del lavoro uscito dalla crisi (infra, par. 3).
[4] B. Mussolini, intervista al «Journal», 12 novembre 1922, cit. da M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit., p. 38.
[5] B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 26 maggio 1927. Per la cronaca del battage pubblicitario che precedette e seguì il discorso, v. «Il popolo d’Italia», 26, 27, 28 maggio 1927. Curiosamente (non so se si tratti di refuso, o invece di lapsus legato alla tendenza a retrodatare), lo stesso Mussolini, nella prefazione al libro di R. Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli, Roma, 1928, p. 16, data il suo discorso al 1926
[6] In pieni anni ‘30, l’«Almanacco della donna italiana», Firenze, Bemporad, 1935, nella rubrica di vita pratica (pp. 403 seg.), consigliava alle sue lettrici piccolo-borghesi come far quadrare i modesti bilanci familiari, limitando al massimo le spese di gestione, e supplendo col proprio lavoro alle limitazioni dei consumi imposte dalla politica salariale del regime. «Un po’ di battista di lino o di organdis morbidetto, un disegno un po’ novecento [...] un po’ di buona volontà e il miracolo è compiuto: il modesto abituccio del 1933-34 diventa un grazioso modellino 1935».
[7] Su cui v. V. Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale, in L’economia italiana nel periodo fascista, a cura di P. Ciocca e G. Tomolo, Bologna, 1976, pp. 329 seg. La «spiacevole realtà» della compressione dei salari era così illustrata da Bottai: «noi abbiamo compiuta [...] una meditata azione di arretramento sulle posizioni salariali. Senza l’ordinamento corporativo le classi produttrici avrebbero potuto far arretrare queste posizioni assai più in là. Noi abbiamo difeso il salario attraverso la sua stessa diminuzione [...]. I lavoratori stessi hanno, talora, chiesto alla stessa organizzazione, che resisteva, le diminuzioni salariali» (G. Bottai, Fascismo e capitalismo, Roma, 1931, pp. 77 seg.).
[8] Qualche citazione può essere illuminante. In un articolo pubblicato dal «Popolo d’Italia», 31 agosto 1934, intitolato Macchina e uomo, B. Mussolini scriveva: «L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbe di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale». Più chiaramente ancora si esprimevano i teorici del divieto alle donne di lavorare fuori casa e della restaurazione dell’autorità dell’uomo sulla donna e nella famiglia: da M. Palazzi, Autorità dell’uomo, in “Critica fascista», 1933, n. 10, pp. 183 seg., a F. Loffredo, Politica della famiglia, Milano, 1938: ma nei discorsi di questi aa. (pure di un estremismo che rasenta la demenza) si riflette la concezione fascista della famiglia “autoritaria, gerarchica, fondamentalmente chiusa ed autosufficiente», esemplata sul modello della famiglia patriarcale precapitalistica. Così P. Meldini. Sposa e madre esemplare, cit., p. 123.
[9] A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, 1976, p. 68. V. anche P. Corner, Rapporti tra agricoltura e industria durante il fascismo, in Il regime fascista, a cura di A. Aquarone e M. Vernassa, Bologna. 1974, pp. 398 seg.
[10] Fra le ragioni della scarsa applicazione delle leggi contro l’urbanesimo A. Treves, Le migrazioni interne, cit., pp. 91 seg., individua l’ostilità degli industriali, preoccupati per un orientamento che rischiava di provocare grosse difficoltà sul mercato del lavoro.
[11] Il tono della propaganda conto l’urbanesimo e per la ruralità era tanto oscurantista da rendere legittimo il giudizio di P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit., pp. 106 seg., che vede nella battaglia ruralista una risposta tutta ideologica e arretrala alla situazione di crisi economica. Prendo (a caso) l’esempio del lavoro (premiato al concorso indetto dalla società italiana di medicina sociale) di S. Diez, Ritorniamo ai campi. Le ragioni di indole medica e sociale che stanno per la ruralizzazione contro l’urbanesimo, in “Archivio fascista di medicina politica», 1931, III; l’a. auspicava tra l’altro il ricorso ad una terapia psicologica, piuttosto che alla coazione, per indurre gli italiani al ritorno alla terra, e raccomandava di puntare sulle donne («come da millenni insegna Santa Romana Chiesa») e di rendere sanamente comoda la vita in campagna, senza dimenticare che «niente vi è di più contrario ai gusti delle nostre popolazioni che la standardizzazione e la meccanizzazione spinta». Nel che vorremmo vedere, commentava G. Betocchi, Recensione, in «Il diritto del lavoro», 1931. I, p. 425, la condanna di quella razionalizzazione che, dimenticando l’uomo, ottiene il risultato di rendere il lavoro più scomodo, noioso ed estraneo di prima. Può essere interessante notare come l’adesione alla campagna per la ruralizzazione poteva portare gli zelanti a polemizzare contro l’organizzazione scientifica del lavoro (industriale), sostenuta invece, nello stesso periodo, e con forza, dagli industriali. e certo non osteggiata dal regime.
[12] L’aspetto demografico della campagna ruralista aveva una singolarità: secondo le categoriche affermazioni che Mussolini aveva fatto dal discorso dell’Ascensione, alla sterilità delle popolazioni non contribuiva solo l’urbanesimo industriale, ma anche la piccola proprietà contadina. Questo pronunciamento a favore del latifondo venne sviluppato in sede c.d. scientifica da G. Pisenti, Prolificità delle popolazioni rurali e frazionamento della terra, in “Archivio fascista di medicina politica», 1928, V-VI, pp. 347 seg.: Id.. La prolificità dei rurali e il frazionamento della terra, in «Critica fascista», 1929. 2, pp. 38 seg., il quale fu tuttavia costretto, qualche anno dopo, a rivedere le sue tesi.
[13] Contrariamente alla tendenza (in cui si inserisce anche P. Meldini, op. cit.) a risolvere la vicenda della ruralizzazione nella propaganda contro l’urbanesimo e per il ritorno alla terra, privilegiandone quindi gli aspetti ideologici, P. Corner, Rapporti tra agricoltura e industria durante il fascismo, cit., delinea un preciso rapporto tra la politica agraria del fascismo (anche nella veste di ruralizzazione) e la politica industriale, definendo la prima come direttamente funzionale alla soluzione di due problemi di fondo dello sviluppo industriale del periodo: la scarsità di capitali e la debolezza del mercato interno (conseguente alla politica di bassi salari).
[14] Agli inizi degli anni ‘30 la disoccupazione aveva assunto livelli preoccupanti; la rivalutazione della lira (la famosa «quota novanta») aveva prodotto ‒ secondo le stime ufficiali ‒ una disoccupazione al 10% delle forze di lavoro; era infatti diminuito il valore delle esportazioni e tale abbassamento, per il ruolo che le esportazioni giocavano nello sviluppo del dopoguerra, portò ad una riduzione del tasso di espansione interna. I gruppi industriali più importanti, pure contrari ad una misura deflazionistica così drastica, erano favorevoli alla deflazione, che riduceva la competitività delle piccole industrie, rapidamente sviluppatesi tra il 1922 e il 1926, agevolando la concentrazione industriale. Cosí J. S. Cohen, La rivalutazione della lira nel 1927: uno studio sulla politica economica fascista, in Lo sviluppo economico italiano, 1861-1940, a cura di G. Toniolo, Bari, 1973, pp. 327 seg.
[15] Sul decentramento produttivo ed il rapporto fra decentramento della produzione e concentrazione industriale durante il periodo fascista, cfr. G. Tattara e G. Toniolo, L’industria manifatturiera: cicli, politiche e mutamenti di struttura (1921-1937), in L’economia italiana nel periodo fascista, cit., pp. 103 seg.
[16] La politica agraria del fascismo, specie nei progetti che vanno sotto il nome di «battaglia del grano» (1925) e di «bonifica integrale» (1928), favorì, insieme, le aziende capitalistiche del nord e la conservazione di un’agricoltura precapitalistica nel sud, rispondendo alle esigenze dello sviluppo industriale, contrario ad un’organizzazione efficiente dell’agricoltura, che avrebbe espulso forza lavoro dalle campagne. Cosí P. Corner, op. cit. pp. 402 seg. e ivi riferimenti bibliografici; D. Preti, La politica agraria del fascismo: note introduttive, in «Studi storici», 1973, n. 4; E. Sereni, La politica agraria del regime fascista, in Fascismo e antifascismo. Lezioni e testimonianze, Milano, 5a ed., 1976, pp. 296 seg. Consentendo sulla tesi della subordinazione degli interessi dell’agricoltura a quelli dello sviluppo industriale, J. S. Cohen, Rapporti agricoltura-industria e sviluppo agricolo, in L’economia italiana nel periodo fascista, cit., pp. 379 seg., ritiene tuttavia la politica agraria del fascismo assolutamente inadeguata agli scopi di sostenere i profitti industriali ed assorbire la disoccupazione industriale; tale politica portò infatti alla concentrazione della proprietà terriera: a rallentare, piuttosto che accelerare, l’accumulazione di capitale in agricoltura; a provocare, infine, la caduta della produzione agricola al di sotto del potenziale produttivo.
[17] Non aumentarono di molto i piccoli proprietari; la flessione nel numero dei braccianti, tra il 1921 e il 1936 (dal 44% al 28%), fu dovuta all’espansione dei coloni e dei mezzadri, espressione della tendenza dei proprietari a ridurre i costi di gestione senza investire, ma affidandosi, per le entrate, agli affitti ed ai profitti a basso costo: P. Corner, op. cit.
[18] E. Fano Damascelli, La ‘restaurazione antifascista liberista’. Ristagno e sviluppo economico durante il fascismo, in Il regime fascista, cit., pp. 299 seg.
[19] Così G. Tattara e G. Toniolo, L’industria manifatturiera, cit., pp. 148 seg.
[20] Cfr. ancora la tabella elaborata da G. Tattara e G. Toniolo, op. cit., appendice statistica, tab. A.3.
[21] Tale riduzione conferma il verificarsi, nel corso degli anni ‘30, della proliferazione degli esercizi di piccola e piccolissima dimensione; la proliferazione corrisponde all’andamento di questi settori, che riescono a rimanere sul mercato solo accrescendo la quota di produzione attuata con attività marginali, le quali non garantirebbero la sussistenza se non fossero sostenute da forme di autoconsumo e di intensificazione nell’uso della forza lavoro di tutta la famiglia. Cfr. G. Tattara e G. Toniolo, op. cit., p. 152.
[22] Lo scarso successo della politica fascista verso il lavoro femminile è frequentemente dedotto dal mero raffronto dei dati sull’occupazione femminile nell’industria nel 1936 (28,4%) e nel 1921 (29,8%), nell’agricoltura (38,1% e 37,7%), nel terziario (34,1% e 28,03%). Così, ad es., E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., p. 88; P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit., pp. 76 seg., il quale ultimo, dal dato dell’andamento costante dell’occupazione femminile negli anni ‘30, deduce l’esistenza di un contrasto tra la propaganda fascista per l’espulsione delle donne dal lavoro extra domestico, e gli interessi del padronato, favorevole allo sfruttamento del lavoro femminile sotto remunerato. Come cercherò di dimostrare (infra, parr. 2, 3) queste valutazioni sono insufficienti.
[23] I due dati (il primo fornito dal ministero delle corporazioni, il secondo dalla società delle nazioni) «costituiscono con ogni probabilità i due limiti (massimo e minimo) entro i quali si colloca il reale andamento dell’occupazione»: G. Tattara e G. Toniolo, op. cit., p. 127.
[24] V. la valutazione negativa della politica agraria del fascismo di J. S. Cohen, Rapporti agricoltura-industria e sviluppo agricolo, cit., pp. 379 seg., che così conclude: «Sebbene le politiche tendessero a favorire l’industria, i latifondisti se la passarono piuttosto bene sotto il fascismo. Possiamo fare soltanto congetture su come fossero risolti i conflitti, ma gli indizi suggeriscono che si raggiunse un compromesso attraverso l’accumularsi di concessioni fatte ad entrambe le parti, che alla lunga spinsero entrambi i gruppi lontano da qualunque tipo di assetto ottimale» (p. 407).
[25] Non bisogna trascurare, naturalmente, le venature razziste e colonialiste della propaganda demografica, che coloriscono anche il ruolo della donna, madre di «soldati dell’impero»; cfr. F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia, cit., pp. 356 seg.
[26] V. la rassegna critica che E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., pp. 92 seg. (di cui condivido i giudizi) ha dedicato alla recente letteratura sulla politica femminile del fascismo.
[27] Nel panorama della letteratura sulla politica femminile fascista ha un posto a sé il più recente contributo di F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia, cit. Con la pubblicazione di questo nuovo volume, l’a. riannoda i fili del discorso che concludeva l’opera precedente (Socialismo e questione femminile in Italia, 1892-1922, cit.), ricostruendo ora, nei dettagli, le vicende della sconfitta del suffragismo italiano. Al di là dell’importanza che questa parte della ricerca della Pieroni riveste per gli addetti alla storiografia dei movimenti femminili e femministi, mi pare debba interessare tutti coloro che, per qualche ragione, si occupano della «questione femminile» la ricostruzione dei nessi che legano le ideologie e le politiche del periodo tardo liberale al primo fascismo, in un rapporto di relativa continuità.
[28] Se l’ideologia fascista negava alla questione femminile ogni autonomia e specificità, affermando la preminenza organicista dell’interesse nazionale, la politica fascista si preoccupava di intervenire sui problemi delle masse femminili: «il codice Rocco da un lato e prima ancora, dall’altro, l’opera nazionale maternità e infanzia costituiscono per questo verso il parto più notevole dell’azione ordinatrice del fascismo, il punto più maturo e solido del fascismo al potere, il risultato primo della stabilizzazione conservatrice» (E. Santarelli, op. cit., p. 84). I momenti fondamentali dell’organizzazione delle masse femminili sono documentati da P. Meldini, nella ricca antologia pubblicata in appendice al voi. Sposa e madre esemplare, cit.
[29] Regresso delle nascite: morte dei popoli, Roma, 1928.
[30]Secondo dati forniti dallo stesso R. Korherr, op. cit.
[31] E. Santarelli, op. cit., p. 89.