Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c4

La nozione di interlegalità nella prospettiva storico-giuridica

Notizie Autori
Alberto Spinosa è professore di Storia del diritto medievale e moderno, Università degli Studi della Tuscia.
Abstract
Dopo aver trattato il tema dell’interlegalità da un punto di vista prettamente teorico si procede, qui, ad una sua contestualizzazione storiografica volta a ricostruire la sua evoluzione. Si cerca qui nello specifico di mostrare come a partire dalle prime forme di pluralismo medievale si sia giunti allo statalismo moderno e al suo diritto esclusivista, il quale una volta entrato in crisi ha lasciato nuovamente il posto a forme di diritto plurali sviluppatesi pienamente a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Compito del capitolo è quello di interrogarsi sui possibili punti di convergenza o di discontinuità tra tali forme pluralistiche e ciò che, invece, può essere definita nello specifico come interlegalità sulla base di un’analisi relativa al problema delle fonti, dell’interpretazione e del ruolo ricoperto dai giudici.

1. Introduzione

Mentre fenomeni di sovrapposizione materiale tra plessi normativi differenziati per materia, funzione, ampiezza e provenienza si sono andati moltiplicando su scala globale in modo prodigioso – vuoi per la crescente debolezza regolativa degli Stati, vuoi per l’inedito protagonismo degli attori giuridici sovra e trans-nazionali –, le «idee di legalità» [1]
circolanti, attardate su modelli esplicativi ancora largamente compromessi con il «mito» della perfetta autosufficienza e ideale chiusura di ogni sistema normativo, non hanno saputo tenere il passo di un simile cambiamento, finendo così per ostacolare una piena comprensione del panorama giuridico contemporaneo.
È a questa profonda asimmetria che il recupero della nozione di interlegality, opportunamente emendato il vizio soggettivistico proprio dell’approccio sociologico di Sousa Santos [2]
, ha inteso come sappiamo porre rimedio [3]
. La proposta è sufficientemente nota da poterne qui richiamare solo i tratti salienti.
In estrema sintesi, interlegalità è anzitutto lo strumento concettuale che consente di visualizzare il fatto stesso dell’in{p. 92}terconnessione tra i diversi regimi giuridici dello scenario globale. Quello della interconnessione, infatti, non è un dato capace di imporsi all’osservatore in forza di una propria oggettiva evidenza, ma una dinamica che diviene visibile solo a patto di mettere in parentesi il «bias sistemico» che affligge in eguale misura, sia pur con diversa intensità, tutti i modelli interpretativi «classici» dello spazio giuridico «oltre lo Stato» [4]
: monismo, dualismo e pluralismo [5]
.
Assumere il punto di vista dell’interlegalità significa, dunque, ripensare l’ordine a partire dalle esigenze di definizione giuridica del caso concreto, al di fuori di ogni tabù e preconcetto di carattere sistemico. L’immagine da far propria dovrebbe essere quella del diritto come «tessuto composito» [6]
. Se è vero che tanto i monisti quanto i dualisti hanno torto, neppure arrestarsi al dato grezzo della pluralità degli ordinamenti giuridici può considerarsi ormai sufficiente. La proposta, allora, è di prendere sul serio le premesse pluraliste per accedere all’idea che la determinazione del diritto «che conta» in un dato punto dello spazio/tempo non possa farsi dipendere dal taglio prospettico di uno soltanto tra gli ordinamenti in gioco, ma debba essere la risultante di un’operazione ermeneutica più ampia che deve necessariamente prendere le mosse dalla considerazione di tutte le sfere di legalità potenzialmente interessate. L’effetto, un radicale mutamento di prospettiva rispetto alle coordinate teoriche tradizionali: dal problema dell’individuazione della norma valida all’interno di un dato ordinamento, al proble{p. 93}ma della ricerca del diritto rilevante a definire il caso, quale risultato della ponderazione tra tutte le rationes giuridiche che su di esso insistono.
In questo quadro, non è affatto paradossale che l’exemplum negativo sia offerto dal caso Kadi. A farne una vicenda paradigmatica non è tanto l’esito della «saga», quanto piuttosto il percorso argomentativo che la Corte di giustizia europea ha seguito per emettere sentenza. La decisione, pur celebrata sotto il profilo della difesa dei diritti fondamentali, appare in fin dei conti censurabile proprio per la riluttanza dimostrata dal giudice europeo a guardare oltre il perimetro del proprio orizzonte sistemico; per il rifiuto di prendere in considerazione l’intero ordito dei regimi giuridici coinvolti (ordinamento europeo e internazionale), garantendo un «equal concern and respect» a ciascuno di essi, come parti inscindibili di un medesimo tessuto normativo. Certo, a qualunque altezza operi, il giudice non può sollevarsi dal terreno della propria giurisdizione, né sottrarsi ai doveri di fedeltà istituzionale che lo vincolano all’ordinamento presso il quale è incardinato. Almeno per le corti più alte, tuttavia, per i teorici dell’interlegalità la ricerca della giustizia, o quantomeno la ricerca della minimizzazione dell’ingiustizia, non dovrebbe precludere la strada allo scrutino delle ragioni «degli altri», al vaglio ed al bilanciamento di tutte le tessere normative (e i rispettivi punti di vista) che concorrono a regolare il caso, indipendentemente dalla loro provenienza formale.
Ora, se questo è vero, il tema dell’interlegalità sembra in effetti cadere fuori dalla giurisdizione ordinaria della ricerca storico-giuridica. Ci si potrebbe domandare, infatti, a che titolo una proposta teorica che nasce da una ben precisa diagnosi sul presente e che appare operativamente tutta proiettata verso il futuro possa mai entrare nella sfera di competenza dello specialista del passato.
In realtà, motivi di interesse storiografico non mancano. Pur di strettissima attualità, infatti, il concetto di interlegality intreccia temi e problemi – come quello delle fonti, dell’interpretazione, del ruolo del giudice e più in generale del giurista – che costituiscono da sempre croce e delizia della {p. 94}ricerca storica, i vertici geodetici obbligati di ogni grande mappatura del tempo storico giuridico. È su questi temi, allora, che proveremo ad offrire il nostro piccolo contributo.

2. L’interlegalità tra pluralismo e universalismo

Muovendo dall’eterno problema delle fonti, un primo interrogativo che potremmo porci è quale relazione di parentela intercorra tra la proposta dell’interlegalità e la costellazione pluralista otto-novecentesca. Se, in altre parole, ci troviamo dinanzi ad una versione aggiornata, postmoderna – potremmo dire (nel senso lyotardiano del termine [7]
) – delle dottrine pluraliste del Novecento, ma tutto sommato in linea di continuità con esse, oppure al contrario di fronte ad una proposta che persegue obiettivi teorici distinti e (relativamente) innovativi.
Come sappiamo, la tematizzazione della pluralità non rappresenta «una conquista originale del Novecento» [8]
, ma piuttosto un «controcanto» che accompagna l’intera vicenda dello State-building europeo. Tutta la parabola della modernità può leggersi, in questo senso, come l’incessante ricerca [9]
di un nuovo punto di Archimede a partire dal quale ricondurre ad unità, dopo il collasso della civiltà medievale, il tutto e le parti, le prerogative del soggetto e la logica complessiva del corpo politico-giuridico. Unità e pluralità come facce della stessa moneta, dunque, come poli opposti di un campo di tensione al quale nessuna riflessione sul diritto può in fondo realmente sottrarsi. Certo, di fronte alla violenta rottura della pax christiana è proprio l’irriducibile configurazione pluralista della costituzione medievale ad essere messa sotto accusa. Da qui l’idea che l’ordine possa {p. 95}ricomporsi solo a condizione di semplificare drasticamente il coefficiente di pluralità ereditato dal passato, sottraendo in modo progressivo il diritto alla dimensione del sociale (a quella complessa rete di corpi e autonomie di cui il pluralismo giuridico medievale era stato per secoli genuina espressione), per stringerlo in un abbraccio sempre più stretto al titolare della sovranità politica. Un processo di riduzione implacabile della complessità sul quale molti degli itinerari della modernità giuridica finiscono per convergere e che, come è noto, giunge a compimento con la costruzione (e la sottesa ideologia) degli Stati nazionali otto-novecenteschi.
Ma se il tramonto dell’esperienza giuridica medievale può farsi coincidere con l’affermazione del moderno principio di sovranità – e la progressiva identificazione statualistica tra diritto e legge –, non per questo si deve pensare ad un processo lineare, senza contrasti o deviazioni. Di argomenti pluralistici sarà allora rifornito l’arsenale teorico degli oppositori, di quanti alla torsione statocentrica del diritto moderno seguiteranno a contrapporre la centralità giuridica dei corpi intermedi, il protagonismo degli aggregati comunitari quali gangli insopprimibili di un ordine «policentrico» che si sostiene proprio grazie all’intreccio delle loro reciproche relazioni.
Pluralismo, dunque, come filosofia della «resistenza» al monismo giuridico moderno; come «universo parallelo», traiettoria alternativa a quella tracciata dallo statualismo e dall’individualismo ottocenteschi [10]
. Se questo è innegabilmente un pezzo della storia, è però soprattutto al cospetto delle profonde trasformazioni del Novecento che le istanze del pluralismo acquisteranno, come è noto, la loro piena visibilità teorica.
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Note
[1] Cfr. G. Palombella, Interlegalità. L’interconnessione tra ordini giuridici, il diritto, il ruolo delle corti, in «Diritto e questioni pubbliche», 2018, pp. 315 ss., 321.
[2] Il riferimento è al citatissimo B. De Sousa Santos, Toward a new common sense: law, science and politics in the paradigmatic transition, London, Routledge, 1995.
[3] La proposta, come è noto, ha trovato di recente la sua espressione più compiuta nell’importante volume collettaneo a cura di J. Klabbers e G. Palombella, The Challenge of Inter-legality, Cambridge, Cambridge University Press, 2019.
[4] S. Cassese, Oltre lo Stato, Roma-Bari, Laterza, 2006.
[5] Sotto questo profilo, la prospettiva dell’interlegalità si propone come superamento dei blocchi epistemologici propri degli schemi tradizionali nella misura in cui: a) rifiuta di considerare irrilevanti, come accade all’ambito del paradigma dualistico, i regimi giuridici esterni non espressamente richiamati dagli ordinamenti interni (statali); b) sfugge all’ideale «monistico» di subordinare ogni ordinamento particolare ad uno stesso parametro universale di validità; c) sopravanza infine la scoperta «pluralista» della possibile coesistenza di una molteplicità di ordini giuridici tra loro ontologicamente autonomi, tematizzando l’esigenza teorica della loro connessione, della loro eguale rilevanza ai fini della definizione del caso.
[6] Ancora Palombella, Interlegalità, cit., p. 315.
[7] Cfr. J.-F. Lyotard, La conditione postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, Les éditions de minuit, 1979; trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2014.
[8] Cfr. P. Costa, «Oltre lo Stato». Teorie «pluralistiche» del primo Novecento, in «Sociologia e politiche sociali», 1, 2002, pp. 11 ss.
[9] Cfr. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002.
[10] Tre per Bobbio le principali matrici culturali del pensiero pluralistico ottocentesco: socialismo (utopistico e libertario), liberalismo e cristianesimo sociale. Percorsi molto diversi tra loro, ma in qualche misura solidali nel battere in breccia la dicotomia (e la segreta alleanza tra) Stato e individuo quale paradigma fondativo della modernità. Cfr. N. Bobbio, Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano, in Id., Dalla Struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, prefazione di M.G. Losano, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 155.