Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c18

Pace e giustizia penale internazionale nell’era dell’interlegalità

Notizie Autori
Alessandro Bufalini è ricercatore in Diritto internazionale, Università degli Studi della Tuscia.
Abstract
In questo capitolo conclusivo si cercherà di operare un confronto tra alcuni modelli di interazione e strumenti di coordinamento tra l’attività giurisdizionale svolta dalla Corte penale Internazionale e l’azione politica esercitata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, considerando in primis le potenziali sovrapposizioni tra le due forme di legalità. Tale insieme di complesse relazioni è presa in esame a partire da una prospettiva che riguarda il potere del sindacato giurisdizionale da parte del Tribunale delle decisioni del Consiglio di sicurezza. In merito a ciò sono, inoltre, presi in esame l’articolo numero 103 della Carta delle Nazioni Unite, il principio Kompetenz-Kompetenz, la teoria della political question e il problema delle legalità separate, oltre che, ovviamente, il tema dell’interlegalità.

1. La dimensione interlegale dei rapporti tra la Corte penale internazionale e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite

In queste pagine si intendono osservare e confrontare tra loro alcuni possibili modelli di interazione e strumenti di coordinamento tra l’attività giurisdizionale della Corte penale internazionale e l’azione politica del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Queste complesse relazioni saranno qui analizzate nella particolare prospettiva del potere di sindacato giurisdizionale da parte del tribunale delle decisioni del Consiglio di sicurezza dirette ad incidere sull’esercizio dell’azione penale.
Prima di illustrare le diverse opzioni ricostruttive, conviene brevemente inquadrare i rapporti e le potenziali sovrapposizioni tra le due legalità qui più specificamente in gioco, quella «onusiana», di cui è espressione in questo ambito l’azione politica del Consiglio di sicurezza, e quella dello Statuto di Roma, trattato internazionale che governa e guida l’attività giurisdizionale della Corte penale internazionale.
La necessità di coordinare l’azione politica del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con l’attività giurisdizionale della Corte penale internazionale discende dalla strettissima connessione esistente tra le situazioni materiali su cui le due istituzioni sono chiamate ad esercitare le proprie funzioni. Nella prassi infatti, la commissione su larga scala di crimini internazionali (come quelli di competenza della Corte) è stata frequentemente associata all’esistenza di una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale (presupposto dell’azione del Consiglio, come previsto dall’art. 39 della Carta delle Nazioni Unite). In sostanza, se le finalità sono parzialmente diverse – rendere giustizia alle vittime e con{p. 498}dannare i responsabili dei crimini, per la Corte, e mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza, per il Consiglio – gli eventi su cui i due organi possono essere chiamati ad intervenire sono in molti casi gli stessi. Tale connessione materiale è richiamata in maniera esplicita nello stesso preambolo dello Statuto di Roma, dove si riconosce che i crimini oggetto di giurisdizione della Corte «threaten the peace, security and well-being of the world» [1]
.
Nella disciplina delle relazioni tra Corte e Consiglio assumono dunque particolare rilievo due distinte esigenze, la cui necessità di tutela può però talvolta generare tensioni, o essere all’origine di veri e propri conflitti: la salvaguardia dell’autonomia dei due organi nelle rispettive sfere di competenza, il politico e il giudiziario, e la necessità di una cooperazione tra le due organizzazioni al fine di perseguire due obiettivi fondamentali dell’ordinamento internazionale, la pace e la giustizia. Per quanto pace e giustizia siano naturalmente scopi fondamentali per tutti i soggetti che operano nell’ordinamento internazionale, è costante il rischio che entrino in collisione tra loro e stringente l’esigenza di una qualche forma di contemperamento. Conciliare pace e giustizia è un’operazione estremamente complessa, anche alla luce delle diverse priorità e sensibilità che inevitabilmente guidano i comportamenti di un tribunale penale internazionale e quelli di un organo politico preposto al mantenimento della pace.
Queste possibili e necessarie interferenze hanno condotto alla introduzione all’interno dello Statuto di Roma di forme di raccordo tra le attività delle due organizzazioni, rendendo esplicita la dimensione composita del diritto applicabile dal tribunale internazionale. Lo Statuto di Roma cerca infatti di offrire alcuni strumenti di coordinamento, il cui corretto e attento impiego dovrebbe in principio favorire un’armonica ed efficace interazione tra i due organi ed evitare il sorgere di conflitti. Si è tentato in pratica di dare una forma stabile e, nei limiti del possibile, prevedibile, al ruolo che il Consiglio può svolgere rispetto all’azione repressiva del {p. 499}Tribunale penale internazionale [2]
. In altre parole, si è cercato, con il Trattato di Roma, di tracciare una cornice giuridica in grado di conciliare e far convivere la contingenza e la maggiore discrezionalità dell’agire politico con la continuità e la stabilità della funzione giudiziaria.
Nonostante il pericolo di contrapposizioni tra iniziative di natura politica e corretta amministrazione della giustizia penale internazionale, l’idea che la persecuzione dei crimini internazionali rappresenti un mezzo importante per il mantenimento della pace e della sicurezza si è da tempo consolidata e ha ispirato, in diversi contesti storici, l’azione delle Nazioni Unite. L’istituzione dei tribunali penali internazionali per la ex Iugoslavia e per il Ruanda da parte del Consiglio di sicurezza testimonia in modo tangibile una concezione dello strumento penale internazionale come potenziale mezzo per il raggiungimento della pace [3]
. In questa medesima prospettiva – ed è questo uno dei principali strumenti di raccordo – lo Statuto di Roma dispone che il Consiglio possa avvalersi dell’azione della Corte, attivando, tramite apposita richiesta, le indagini del procuratore rispetto ad una determinata situazione di violenza diffusa. In queste ipotesi, evidentemente, il Consiglio considera l’attività della Corte strumentale al ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale [4]
(art. {p. 500}13, lett. b dello Statuto di Roma). Si tratta, più in generale, dell’idea che l’azione dei due organi possa essere, in alcuni casi, complementare, persino indissolubile. Insomma, che non vi sia pace senza giustizia [5]
.
Reali o presunte tensioni tra pace e giustizia sono però piuttosto frequenti nell’esperienza giuridica internazionale. {p. 501}È innegabile infatti che, in alcuni contesti, l’attività giurisdizionale possa ripercuotersi negativamente sul complesso processo di ristabilimento della pace e di conciliazione delle parti in conflitto [6]
. Si pensi, ad esempio, ad un mandato di arresto emesso dal Tribunale internazionale nei confronti di un capo di Stato: l’effetto di questa iniziativa giudiziale potrebbe essere quello di inasprire le relazioni tra lo Stato interessato e la comunità internazionale, produrre un isolamento di quella comunità politica, con ripercussioni negative anche (e soprattutto, forse) per la popolazione, o per chi si oppone a quella forza di governo. Anche l’ipotesi di un contrasto tra repressione penale e mantenimento della pace è dunque presa espressamente in considerazione nello Statuto di Roma. Si è immaginato, infatti, che in alcune circostanze il perseguimento della giustizia potesse essere di intralcio al ristabilimento della pace e della sicurezza e compromettere la stabilità stessa delle relazioni internazionali. A tal fine – e qui affiora una certa preminenza del valore della pace su quello della giustizia tra gli obiettivi fondamentali dell’ordinamento internazionale – il Consiglio può chiedere alla Corte di arrestarsi, di fermare per un limitato periodo di tempo la propria attività giurisdizionale, che potrà poi riprendere quando le esigenze del mantenimento della pace lo consentano (art. 16 dello Statuto di Roma) [7]
. Emerge, in
{p. 502}questo particolare ambito delle relazioni tra i due organi, non solo la possibile conflittualità tra le esigenze della pace e quelle della giustizia, ma anche la necessità di far prevalere in alcuni contesti, pur circoscritti, l’effettività dell’azione politica del Consiglio rispetto alla repressione penale e alla piena autonomia dell’organo giurisdizionale. Qui la cooperazione, o meglio il coordinamento, tra i due organi, si esprime nel potenziale ritrarsi dell’uno, la Corte, a favore dell’altro, il Consiglio.
Note
[1] Terzo considerando del preambolo allo Statuto di Roma.
[2] Per una ricostruzione storica dei rapporti tra Nazioni Unite e giurisdizioni penali internazionali, si veda L. Condorelli e S. Villalpando, Les Nations Unies et les juridictions penales internationales, in J-P. Cot, M. Forteau e A. Pellet (a cura di), La Charte des Nations Unies: commentaire article par article, Paris, Economica, 2005, pp. 201 ss.
[3] Sul ruolo della giustizia penale nel ristabilimento della pace si veda, tra gli altri, V. Gowlland-Debbas, The Security Council and Issues of Responsibility under International Law, in «Recueil des cours de l’Académie de droit international», 2012, in particolare pp. 298-346.
[4] Nel primo dibattito interno al Consiglio di sicurezza sul ruolo della Corte penale internazionale emerse chiaramente l’idea di un ruolo «funzionale» dell’attività della Corte rispetto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; cfr. Concept Note of the Open Debate of the Security Council on Peace and Justice with a special focus on ICC, 17 ottobre 2012, S/PV.6849. Parte della dottrina, invero, ha sottolineato come l’impatto dell’azione della Corte sui conflitti armati in corso – in virtù delle numerose e complesse ricadute che può avere e delle ragioni politiche che hanno condotto alla sua attivazione – sia in realtà «not only largely unpredictable but also non-linear», cfr. P. Kastner, Armed Conflicts and Referrals to the International Criminal Court, in «Journal of International Criminal Justice», 2014, p. 481.
[5] «No peace without justice» era il motto che ha sospinto, nelle posizioni spesso assunte da diverse organizzazioni non governative, l’istituzione dei primi tribunali penali internazionali negli anni Novanta. Per alcune considerazioni sulla natura complementare dei due organi, e più in generale sulle diverse forme che l’interazione tra pace e giustizia può assumere, si vedano i contributi, tra i tanti, di V. Gowlland-Debbas, The Role of the Security Council in the New International Criminal Court from a Systemic Perspective, in L. Boisson de Chazournes e V. Gowlland-Debbas (a cura di), The International Legal System in Quest of Equity and Universality/L’ordre juridique international, un système en quête d’équité et d’universalité, Liber Amicorum Georges Abi-Saab, 2001, p. 632; D.R. Verduzco, The Relationship between the ICC and the United Nations Security Council, in C. Stahn (a cura di), The Law and Practice of the International Criminal Court, Oxford, Oxford University Press, 2015, pp. 30-64; J.E. Mendez e J. Kelley, Peace Making, Justice and the ICC, in C. De Vos, S. Kendall e C. Stahn (a cura di), Contested Justice, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, pp. 479-495. Si ricostruiscono, in quest’ultimo contributo, tre diverse possibili relazioni: la Corte come strumento a disposizione del Consiglio per il mantenimento della pace; l’idea, non pienamente realizzata, di una totale autonomia istituzionale e di una netta separazione di mandati e funzioni; e il Consiglio come organo esecutivo e di attuazione delle decisioni giudiziali. Da un punto di vista diverso, più ampio e politologico, la divisione che alcuni hanno compiuto è tra liberali, che mettono in luce gli effetti positivi della creazione dei tribunali penali per il ristabilimento di una pacifica convivenza tra i popoli, e realisti, che tendono a vederne più che altro gli effetti destabilizzanti, cfr. G.J. Bass, Stay the Hand of Vengeance: The Politics of War Crimes Tribunals, Princeton, Princeton University Press, 2000, in particolare pp. 284-310. L’autore, pur ritenendo modesti i risultati raggiunti nelle passate esperienze di repressione dei crimini internazionali, invita a non lasciare alle vittime dei crimini l’arma della vendetta (qualsiasi forma essa possa assumere) e a preservare il ruolo in qualche modo di mediatore che può essere svolto dai tribunali internazionali: «a great advantage of international legalism is that it institutionalizes and moderates desires for revenge» (ibidem, p. 304).
[6] Interessante al riguardo è l’analisi sull’azione della Corte in Uganda proposta da K. Peschke, The ICC Investigation into the Conflict in Northern Uganda: Beyond the Dichotomy of Peace versus Justice, in B.S. Brown (a cura di), Research Handbook on International Criminal Law, Cheltenham, Elgar, 2011, pp. 178-205 e da J.N. Clark, Peace, Justice and the International Criminal Court, in «Journal of International Criminal Justice», 2011, pp. 521-545. Sulla effettiva capacità della Corte di incidere sul ristabilimento della pace nella Repubblica democratica del Congo, si veda invece O. Kambala, Entre négligence et complaisance: les risques de dérapage de la Cour pénale internationale en RDC, Kinshasa, Le Phare, 28 ottobre 2004, disponibile su http://fr.allafrica.com/stories/200410290050.html. Sul più generale impatto della Corte penale internazionale nei processi di giustizia transizionale, si veda il contributo di C. Stahn, The Geometry of Transitional Justice, in «Leiden Journal of International Law», 2005, pp. 425-466.
[7] La richiesta di sospendere l’azione giurisdizionale, peraltro, non implica necessariamente che il Consiglio si stia materialmente e attivamente occupando di quella determinata situazione. Per questo motivo, parla di una possibile e pericolosa «paralisi», data dalla congiunta inazione delle Nazioni Unite e della Corte, N. Elaraby, The Role of the Security Council and the Independence of the International Criminal Court: Some Reflections, in M. Politi e G. Nesi (a cura di), The International Criminal Court: A Challenge to Impunity, Aldershot, Routledge, 2001, p. 46.