Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c9

Considerazioni sulla dimensione globale della Repubblica di Weimar
Traduzione di Enzo Morandi
Questo contributo è una versione ridotta dell’introduzione a:C. Cornelissen- Dvan Laak(edd),Weimar und die Welt. Globale Verflechtungen der ersten deutschen Republik, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2020, pp. 9-21. Per le numerose altre osservazioni in esso contenute si rinvia al volume

Notizie Autori
Christoph Cornelissen è professore ordinario di Storia dell’Europa contemporanea, Goethe-Universität Frankfurt a.M., e direttore FBK-ISIG, Trento.
Notizie Autori
Dirk van Laak è professore ordinario di Storia contemporanea, Universität Leipzig.
Abstract
Il capitolo si propone di offrire una particolare prospettiva sulla storia culturale e politica tedesca durante il periodo della Repubblica di Weimar tale da metterne in luce gli aspetti transnazionali, e che quindi la consideri all’interno in un ambito di riflessione globale. Spesso, infatti, rispetto alla spinta globalista che caratterizza il Reich fondato nel 1871, Weimar è da sempre interpretata come una realtà fortemente de-globalizzata, con una politica estera oscillante e soprattutto ripiegata nel suo isolamento. Si tenta qui di ricostruire le cause di tale de-globalizzazione proprio a partire da fenomeni di natura globale, nel tentativo di ricondurre la Repubblica all’interno di una interconnessione transnazionale dalla quale è spesso sottratta dalla storiografia.
Nel 2004 Das Kaiserreich transnational, la raccolta curata da Sebastian Conrad e Jürgen Osterhammel, diede un importante impulso alla riflessione sulla dimensione globale della storia tedesca [1]
. Si era all’epoca ancora relativamente agli inizi di un allargamento dell’orizzonte della ricerca in una prospettiva di storia globale, che nel frattempo tuttavia sembra essersi fortunatamente affermato. A partire dalla fine degli anni Novanta numerosi studi sulla globalizzazione e sulla storia globale hanno contribuito, e contribuiscono, ad un più incisivo inquadramento della storia tedesca in una prospettiva transnazionale. Particolare attenzione, in questo contesto, è stata dedicata alle vicende del Reich tedesco fondato nel 1871, decisamente un periodo di impetuosa globalizzazione.
Sorprendentemente, però, la storia della Repubblica di Weimar non è finora rientrata in questo filone di ricerca e lo stesso si può dire delle questioni relative alla sua collocazione e alle sue interconnessioni a livello globale. Certo, anche molte rappresentazioni relative a fasi più tarde della storia tedesca {p. 210}analizzano prospettive transnazionali, ma nel farlo spesso trascurano gli stadi precedenti, risalenti agli anni di Weimar. Sicché anche nei dibattiti che da qualche anno tematizzano la continuità della volontà di annientamento della Germania si è imboccata una via che dall’antisemitismo berlinese dell’epoca del Reich guglielmino porta direttamente a Buchenwald, o dai primi massacri tedeschi nei pressi di Windhuk (Windhoek, Namibia) porta altrettanto direttamente ad Auschwitz.
Nonostante il sempre più frequente ricorso ad approcci di storia transnazionale e transculturale per studiare il periodo tra le due guerre, stranamente le relazioni della Repubblica di Weimar con il resto del mondo hanno ricevuto scarsa attenzione. La cosa si può in parte spiegare. Politicamente, territorialmente e militarmente in ginocchio, nel biennio 1918-1919 il Reich tedesco non era più in grado di condurre una «politica mondiale». Con il risultato che i 14 anni della repubblica, che cadono tra l’esperienza imperialista del Reich guglielmino e quella espansionista del Terzo Reich, si trovano in una sorta di cono d’ombra. Nondimeno, la tesi fino ad oggi prevalente tra quanti si occupano di storia globale, e cioè che il periodo tra le due guerre sarebbe stato caratterizzato da una sostanziale «de-globalizzazione», proprio con riguardo alla Repubblica di Weimar risulta ambigua quando non addirittura infondata [2]
.

1. Globalizzazione e de-globalizzazione

Originariamente riferita all’ambito economico, la tesi di una forte de-globalizzazione si è estesa anche ad altri settori di ricerca. Secondo questa prospettiva, la regionalizzazione dell’economia mondiale nel periodo tra le due guerre, e soprattutto le forme {p. 211}più estreme assunte dalla politica autarchica appaiono altrettanti tentativi di sottrarsi alla talora minacciosa interdipendenza di economia e politica a livello planetario. Con la Grande Depressione questo timore sembrò concretizzarsi una volta di più.
In linea di principio contro questa tesi si può addurre l’argomento che anche alla base dei processi di de-globalizzazione ci sono spesso cause globali, i cui meccanismi di azione, peraltro, proprio con riguardo agli anni di Weimar raramente sono stati analizzati in maniera accurata sul piano empirico. In molti casi più che di de-globalizzazione si dovrebbe parlare di una «de-europeizzazione» delle strutture, ove si consideri lo spostamento del baricentro di molti processi economici fuori dell’Europa. Senza contare che anche dopo il 1918-1919 diverse imprese tedesche rimasero assolutamente attive con successo sul mercato mondiale in numerosi settori. Colpisce, inoltre, il fatto che i movimenti migratori, dopo un rallentamento direttamente ricollegabile allo scoppio della Prima guerra mondiale, ripresero rapidamente sulla falsariga di quanto era avvenuto prima del 1914. Quel che è certo è che non si può in alcun modo parlare di una interruzione nelle relazioni economiche e scientifiche internazionali.
Nondimeno, già i contemporanei vissero la «decolonizzazione» del Reich tedesco imposta dal Trattato di Versailles come una «provincializzazione» – certo nell’accezione negativa del termine, e non nel senso relazionale che lo storico indiano Dipesh Chakrabarty gli avrebbe in seguito attribuito [3]
. Nel periodo tra le due guerre a questo esito si contrappose, soprattutto nei settori della borghesia e nell’area politica della destra, un forte revisionismo coloniale. Il quale non era certo in grado di cambiare la nuova realtà politica internazionale, ma, sia pure indirettamente, manteneva almeno una consapevolezza per le relazioni globali della Germania. Per qualche tempo il revisionismo coloniale coinvolse forse perfino più tedeschi di {p. 212}quelli che prima del 1914 si erano dimostrati favorevoli ad una attiva politica in tal senso. Più ancora che nel caso della cosiddetta «colpa tedesca della guerra», infatti, era fin troppo ovvio che si era voluto «punire» l’espansionismo tedesco dell’epoca guglielmina.
Anche le nuove costellazioni sul terreno della politica estera, che a partire dal 1919 isolarono il Reich tedesco più o meno come l’Unione Sovietica, diedero già ai contemporanei l’impressione di una crescente diminuzione dell’importanza del Paese sul piano internazionale. E in effetti furono molto pochi gli uomini di Stato che si recarono ufficialmente in visita in una Germania sempre più isolata: nel 1922 lo fece il cancelliere austriaco Ignaz Seipel, seguito due anni più tardi dal segretario di Stato americano Charles E. Hughes. Nel 1927 si recò in visita ufficiale a Berlino il re afghano Aman Ullah, mentre nel 1929 fu la volta del re dell’Egitto Ahmad Fuad I. Non è certo meno significativo il fatto che durante tutto il suo mandato il presidente Friedrich Ebert non si recò mai all’estero in visita ufficiale.
Nella situazione descritta il Reich tedesco condusse una politica estera piuttosto incerta e continuamente oscillante tra le potenze occidentali e orientali. Peter Krüger ha spiegato che tale politica era legata in modo complicato alla politica economica internazionale e alle riparazioni della repubblica. Essa era aperta in tutte le direzioni per cercare di ottenere comprensione per la situazione tedesca. Inoltre, questa politica venne attuata in un contesto segnato da frequenti ricambi della classe dirigente e da un diffuso senso di appartenenza ad una «grande potenza» che non corrispondeva allo status sancito dal Trattato di Versailles e dalla situazione economica in cui versava il Paese.
Prima di altri Stati europei la Germania temette di ritrovarsi in «ritardo» o in una posizione non congrua rispetto alla sua reale importanza culturale. Nell’opinione pubblica tedesca la parola crisi era all’ordine del giorno. Nel periodo tra le due guerre, invece, molto interesse suscitavano quei Paesi che allora erano percepiti come «giovani» ed «emergenti», Paesi {p. 213}come il Canada e l’Australia, ma anche come l’Italia fascista e la kemalista Turchia.

2. Sindrome revisionista

A suscitare l’impressione di una repubblica sempre più ripiegata su se stessa contribuirono non da ultimo le numerose crisi interne degli anni Venti e dei primi anni Trenta, che sembrarono assorbire completamente anche l’attenzione di buona parte della popolazione tedesca. A partire dalla fine della Prima guerra mondiale la politica si andò sempre più militarizzando e fu caratterizzata da un sempre più frequente ricorso alla violenza.
Su molte questioni aleggiava la «sindrome revisionista» di Versailles (così lo storico tedesco Michael Salewski). Molte associazioni di veterani, ad esempio, si adoperavano per non far affievolire il «dolore fantasma» legato alla perdita delle colonie. Quando all’occupazione della Renania presero parte anche dei soldati di colore, in particolare nelle file dell’esercito francese, i membri di tali associazioni si sentirono anch’essi «colonizzati» come tedeschi e a volte ritennero perfino messa in discussione la loro «virilità». Impulsi del genere rafforzarono la tendenza a classificare tutto ciò che si trovava al di fuori della repubblica come «da riconquistare» o addirittura a percepire il mondo nel segno di una «battaglia razziale».
Nel corso degli anni Venti, in effetti, molti funzionari coloniali, agricoltori, manager e missionari tedeschi fecero ritorno nelle località in cui avevano esercitato la loro attività e lo fecero per motivi politici ma anche per ragioni economiche e culturali. Durante la Repubblica di Weimar associazioni come la Deutsche Kolonialgesellschaft si adoperarono, tramite mostre e un largo impiego di mezzi di comunicazione di varia natura (pamphlet, romanzi, film, fumetti e libri per ragazzi) per tenere viva l’idea stessa di una «missione coloniale» tedesca. Con il risultato che immagini stereotipate dell’Africa e dei suoi abitanti continuarono a circolare anche in quegli anni.
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Note
[1] S. Conrad - J. Osterhammel (edd), Das Kaiserreich transnational. Deutschland in der Welt 1871-1914, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2004; si veda anche C. Torp, Die Herausforderung der Globalisierung. Wirtschaft und Politik in Deutschland 1860-1914, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2005; S.O. Müller - C. Torp (edd), Das Deutsche Kaiserreich in der Kontroverse, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2009.
[2] Sul punto si veda D. van Laak, Über alles in der Welt. Deutscher Imperialismus im 19. und 20. Jahrhundert, München, C.H. Beck, 2005; S. Kunkel - C. Meyer (edd), Aufbruch ins postkoloniale Zeitalter. Globalisierung und die außereuropäische Welt in den 1920er und 1930er Jahren, Frankfurt a.M., Campus, 2012; F. Krobb - E. Martin (edd), Weimar Colonialism. Discourses and Legacies of Post-Imperialism in Germany After 1918, Bielefeld, Aisthesis Verlag, 2014; B. Kundrus (ed), Phantasiereiche: Zur Kulturgeschichte des deutschen Kolonialismus, Frankfurt a.M., Campus, 2003.
[3] D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton NJ, Princeton University Press, 2000; uno studio precedente al riguardo è quello di W.D. Smith, The German Colonial Empire, Chapel Hill NC, University of North Carolina Press, 1978.