Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c2

Rivoluzione senza consenso. La storia della rivoluzione di novembre e delle sue interpretazioni controverse
Traduzione di Enzo Morandi
Questo saggio costituisce una versione modificata, ampliata e integrata con apparato di note del saggio diA. Gallus,Die umkämpfte Revolution. Die Linken witterten Verrat, die Rechten ein Verbrechen. Lange hat dieser Streit den Blick auf die Leistungen der Revolutionäre von 1918/19 verstellt – und darauf, was ihr Ringen über die Demokratie erzählt, pubblicatoin «ZEIT Geschichte», 6, 2018, pp. 14-20

Notizie Autori
Alexander Gallus è professore ordinario di Teoria politica e Storia delle idee, Technische Universität Chemnitz.
Abstract
Si considera qui la totalità degli eventi che hanno concretamente condotto alla nascita della Repubblica di Weimar il 10 novembre del 1918, mostrando anzitutto le principali posizioni di consenso e di dissenso e l’eterogeneità delle opinioni di chi da un lato ha interpretato tale mutamento dell’ordinamento politico come una semplice transizione e chi, invece, ha giustamente visto in esso un potenziale evento estremamente rivoluzionario e non privo di ripercussioni. Il passaggio alla democrazia è stato, infatti, contrassegnato da numerosi episodi di violenza talvolta sfociati in sanguinose guerre civili, special modo a causa di una mancata attenzione nei confronti di riforme sociali, necessarie per il passaggio alla democrazia liberal-parlamentare.
Il 10 novembre 1918 l’edizione del mattino del «Berliner Tageblatt» annunciò con evidente soddisfazione e con un titolo a caratteri cubitali il «successo della rivoluzione». Nel corpo dell’articolo si parlava anche di trionfo della rivoluzione, di prime «manifestazioni di gioia» e di «giubilo» di un popolo che era pervenuto all’«indipendenza». La rivoluzione francese e la presa della Bastiglia venivano evocate come termine di paragone per questa nuova rivoluzione, «la più grande di tutte», scoppiata nel cuore di Berlino [1]
. Una immagine suggestiva di cui, sotto la diretta impressione di quel rivolgimento, si servì il noto giornalista liberale Theodor Wolff, il quale lodò non solo lo slancio e l’impeto elementare degli eventi in quello storico autunno del 1918, ma anche il sorprendente livello di moderazione, rispetto e ordine di cui i protagonisti avevano dato prova: tutte qualità che ai suoi occhi rendevano la rivoluzione veramente grande.{p. 50}
Friedrich Ebert, che il 9 novembre era divenuto il principale responsabile delle sorti del Paese, era certo degli elogi di Wolff: in fin dei conti il nuovo cancelliere sapeva quanto «una rivoluzione che intende rimanere senza macchia debba trattare l’avversario sconfitto con umanità e clemenza». Già in queste battute iniziali colui che di lì a poco sarebbe stato il cofondatore della DDP sottolineava quanto fosse importante coinvolgere i rappresentanti della borghesia nel processo di cambiamento in atto. Anche se le emozionanti giornate della rivoluzione non erano certo uno «spettacolo per deboli di nervi», Wolff era convinto che la transizione dai vecchi ai nuovi tempi sarebbe stata ordinata, pacifica e piena di rispetto. Per lui, i simboli dell’ancien régime andavano rimossi ma non distrutti: «Un popolo maturo e giudizioso li rimuove ma non li distrugge».
Per Theodor Wolff, dunque, gli eventi del novembre 1918 andavano messi sullo stesso piano delle grandi rivoluzioni perché si erano svolti nel segno della moderazione, dell’ordine, della non violenza e della riconciliazione tra le diverse classi sociali e, come egli sperava, sarebbero continuati su questa falsariga. Dal punto di vista dell’osservatore liberale, questa rivoluzione era sicuramente in grado di far avanzare il progresso politico-sociale, ma certo non in quanto inarrestabile forza trainante della storia come voleva l’ideologia marxista. A tale proposito, Wolff riteneva altresì necessario che l’itinerario fosse attentamente studiato e la guida affidata a politici responsabili, pronti, all’occorrenza, a tirare il freno, e Ebert gli sembrava la personalità più adatta a ricoprire questo ruolo. Per gli esponenti della borghesia liberale la nuova Germania si sarebbe dovuta edificare d’intesa con la presidenza della SPD, con Philipp Scheidemann e con la maggioranza moderata dei socialdemocratici. Una prospettiva questa, che il risultato delle elezioni per l’Assemblea nazionale del 19 gennaio del 1919 contribuì a corroborare. La componente maggioritaria dei socialdemocratici dell’MSPD, la DDP e il Zentrum cattolico, infatti, ottennero insieme più dei due terzi dei voti e si unirono per dare vita alla «coalizione di Weimar». Questa alleanza fu contestata fin dall’inizio e si spaccò irrimediabilmente già nel 1920. In un Paese uscito sconfitto dalla Prima guerra mondiale e nel quale praticamente tutte le forze {p. 51}politiche ritenevano il Trattato di Versailles ingiusto e vessatorio non c’erano le condizioni perché l’iniziativa potesse avere successo. Al cospetto delle pesanti ipoteche esterne del Paese, non era forse lecito immaginare che l’avvenuta rivoluzione e il cambiamento di sistema politico dalla monarchia costituzionale alla repubblica parlamentare innescassero almeno una nuova dinamica? E una tale prospettiva non era forse una fonte di legittimazione politico-culturale di prima qualità? Una aspettativa del genere, anche ammesso che fosse così chiaramente presente, venne rapidamente delusa. Fin dall’inizio la rivoluzione di novembre suscitò più dissensi che consensi, e non trovò alcun posto nella mitologia nazionale. Ancora meno le riuscì di radicarsi come positivo luogo della memoria. In altre parole, l’euforia iniziale, di cui Theodor Wolff si era fatto interprete sul «Berliner Tageblatt», fu di breve durata.

1. Bilancio in chiaroscuro

Lo stesso si può dire con riguardo al bilancio in chiaroscuro della rivoluzione di novembre. Il suo successo più importante, è appena il caso di sottolinearlo, risiede nella fine della monarchia e nella contestuale nascita della repubblica. Per la prima volta nella storia tedesca si impose il principio della sovranità popolare organizzata su basi pluralistiche in un quadro costituzionale. Un evento assolutamente straordinario nella storia della democrazia grazie al quale a questa rivoluzione va riconosciuto un posto ben preciso nella storia. Il bilancio si può considerare positivo anche sotto altri aspetti: il Consiglio dei commissari del popolo, vale a dire il governo provvisorio costituito durante la rivoluzione e formato in modo paritetico dal partito socialdemocratico indipendente e dal partito socialdemocratico maggioritario, già il 12 novembre varò una serie di riforme politiche e sociali che vennero rese pubbliche in un «Appello al popolo tedesco!» che per Wilhelm Dittmann (USPD) rappresentava la «Magna Charta della rivoluzione» [2]
. {p. 52}Vi erano contenute disposizioni che introducevano la libertà di pensiero e di riunione e contestualmente abolivano la censura e il sistema delle servitù; venne inoltre introdotto il suffragio universale maschile e (per la prima volta) femminile al compimento del ventesimo anno di età. Poco tempo dopo i rappresentanti sindacali raggiunsero con quelli dell’industria un accordo in merito alla giornata lavorativa di otto ore e fissarono per iscritto l’idea del partenariato sociale [3]
.
Per quanto già nella fase iniziale fosse stato preparato il terreno per l’avvento di una democrazia liberal-parlamentare e fossero state avviate anche riforme sociali, la mancata trasformazione in senso socialista dell’ordinamento sociale ed economico provocò scioperi e delusioni in parte del movimento operaio. Aspri contrasti in seno alla sinistra politica scoppiarono anche con riguardo ad altre decisioni fondamentali che andavano prese sul terreno della trasformazione politico-sociale. I sostenitori di un rafforzamento e di un allargamento del modello dei Consigli, che rimasero sempre in minoranza, si scontrarono con quanti – in linea con le posizioni dei socialdemocratici sotto la guida di Ebert – preferivano la formazione di una Assemblea nazionale costituente democraticamente eletta, la sola cui demandare il compito di deliberare in merito alla futura organizzazione della società e dello Stato.
Alla decisione di privilegiare la via parlamentare che venne presa a Berlino a metà dicembre dal Congresso dei Consigli del Reich si pervenne tra non pochi contrasti ma in modo pacifico. Fino all’ultimo mese del 1918, in effetti, la rivoluzione non fece registrare significativi episodi di violenza. Soprattutto durante il periodo natalizio e a partire dal gennaio del 1919, tuttavia, scoppiarono violenti scontri che a conti fatti erano il risultato delle assai diverse aspettative in merito ai cambiamenti istituzionali, economici e sociali che la rivoluzione avrebbe dovuto innescare. Il radicalismo verbale, sia sulle colonne del «Vorwärts» che della «Rote Fahne», favorì il ricorso alla {p. 53}violenza, e l’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht non ne fu che la sanguinosa avvisaglia. L’impiego dell’esercito e dei Freikorps da parte di Gustav Noske, allora Commissario del popolo competente per le questioni della difesa e in seguito primo ministro della Reichswehr, contribuì a far ritenere «traditori dei lavoratori» i socialdemocratici maggioritari. I quali, questa l’accusa che veniva loro rivolta, avrebbero considerato più importante raggiungere un buon accordo con le vecchie forze piuttosto che schierarsi a fianco della classe operaria.
In effetti le forze rivoluzionarie commisero un errore fondamentale nel momento in cui rinunciarono a riformare le forze armate per farne un esercito popolare fedele alla repubblica. Con il risultato che il governo Ebert continuò a dipendere da un ceto militare difficilmente controllabile, che tramite il suo nuovo più alto rappresentante, il quartiermastro generale Wilhelm Groener, si limitò ad una semplice dichiarazione di lealtà nei confronti dell’esecutivo. Al più tardi dopo il tentato golpe di Kapp divenne sempre più chiaro che quella dei militari era stata una presa di posizione ambigua e che in realtà essi lavoravano contro la repubblica. Anche altri funzionari di grado elevato, che dopo la rivoluzione erano rimasti al loro posto nella pubblica amministrazione o nell’apparato giudiziario, giurarono fin dall’inizio fedeltà ai nuovi detentori del potere ma in realtà non accettarono mai veramente il nuovo ordinamento democratico. A posteriori si può dire che il nuovo governo commise senz’altro un errore rinunciando a fare piazza pulita e a porre mano ad una radicale sostituzione del vecchio funzionariato.
Una critica del genere appare senz’altro giustificata ma è necessario aggiungere alcune precisazioni in merito alle motivazioni che furono alla base di questo errore. Anzitutto, va sottolineato che l’alleanza con le vecchie forze armate non aveva certo come scopo quegli eccessi di violenza che avvelenavano senza posa il clima politico-culturale, ma il ripristino del monopolio statale della forza; a ciò si aggiunga che era anche necessario favorire una ordinata smobilitazione dell’esercito dopo quattro anni di guerra. Occorre considerare, infine, che su questo terreno nes
{p. 54}suno – obiettivamente – poteva vantare una qualche specifica competenza. Una inesperienza di fondo cui inoltre si dovette il mantenimento in servizio nella pubblica amministrazione di troppi «professionisti». Il timore del caos era molto diffuso e favorì più continuità di quella che alla fine sarebbe tornata effettivamente utile alla sicurezza della repubblica.
Note
[1] Questa ed altre citazioni: T. Wolff, Der Erfolg der Revolution, in «Berliner Tageblatt», 10 novembre 1918; articolo riportato in T. Wolff, Tagebücher 1914-1919. Der Erste Weltkrieg und die Entstehung der Weimarer Republik in den Tagebüchern, Leitartikeln und Briefen des Chefredakteurs am «Berliner Tageblatt» und Mitbegründers der «Deutschen Demokratischen Partei». Erster Teil, a cura di B. Sösemann, Boppard a.Rh., De Gruyter, 1984, pp. 814-816.
[2] W. Dittmann, Erinnerungen. Bearb. und eingeleitet von Jürgen Rojahn, Frankfurt a.M. - New York, Campus, 1995, II, p. 571.
[3] Aufruf des Rats der Volksbeauftragten an das deutsche Volk vom 12.11.1918, in G.A. Ritter - S. Miller (edd), Die deutsche Revolution 1918/1919. Dokumente, nuova edizione, Frankfurt a.M., Fischer, 1983, pp. 103 s.